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LE UDIENZE DAL FATTORE Vita materiale nelle nostre campagne.

fig. bicicletta Legnano

Michelino rimaneva sempre con un groppo alla gola ogni volta che vedeva suo papà inforcare la bicicletta per recarsi nel vicino paese. Andava, così come lui diceva, all’udienza dal fattore. Era una vecchia Legnano con i freni a bacchetta, con la canna, il solo mezzo di locomozione con il quale si andava a parente o ci si spostava dalla piccola frazione di campagna. Quando si aveva qualche lira in più, ci si poteva servire di un altro mezzo di trasporto più lussuoso: un calesse, tirato da una magnifica cavalla grigia. Il servizio era disimpegnato da un signore del posto. Il primo viaggio in calesse, tirato dalla cavalla bigia, Michelino l’aveva fatto nel vicino paese di Montecosaro. Sembrava all’altro capo del mondo. Si coprivano solo otto chilometri circa. Il piccolo mondo di allora era circoscritto ai campi coltivati a grano, a barbabietole, a granturco, a vigne, a filari di viti maritate agli alberi da frutta. Il silenzio della notte regnava sovrano.

 

Era già buio quando il papà partiva da casa. A Michelino era rimasto il ricordo di quando, piccolino, a notte inoltrata, aveva visto arrivare la mamma dentro una macchina. Era assieme al fratellino più piccolo in fondo alle scale esterne della vecchia casa colonica. La mamma aveva avuto un incidente, a un incrocio, mentre ritornava dalla visita alla nonna materna che abitava nei pressi di Corneto, frazione di Macerata. Era all’altezza dell’incrocio che immette nel lungo viale dei cipressi che conducono a San Claudio. Ogni volta che Michelino vedeva partire il papà, temeva sempre che gli capitasse qualche incidente simile. Il paese non era lontano, ma d’inverno sembrava ancora più distante. Macchine non ne passavano poi tante, ma la paura rimaneva. Si preoccupava di controllare i freni, se funzionavano la luce e i catarifrangenti posti sulle pedivelle.

 

Aveva sempre sentito parlare di udienze, di fattore e di padrone. Non capiva bene cosa fossero tutte queste cose, l’avrebbe imparato col tempo, diventando grande. Altri suoi compagni potevano anche permettersi, negli anni dell’Università, di prendere la macchina e andare, solo per uno sfizio, a bere un caffè molto lontano. Lui no. Scuola Elementare in una pluriclasse, maestre che venivano dal capoluogo. Era più il tempo che i ragazzi giocavano sotto una grande quercia che quello trascorso sui libri. D’altronde ai figli dei contadini non era permesso avere un avvenire diverso da quello dei loro nonni e dei genitori. La cultura era un frutto proibito, come la mela del Paradiso Terrestre. Eppure Michelino era riuscito a laurearsi anche a dispetto di qualche professore. Qualcuno gli ricordò una volta che le sue erano braccia sottratte all’agricoltura.

 

In casa vedeva sempre la nonna mettere via, sotto il letto, in una grande cesta, tante uova. Non sapeva a cosa servissero. A volte mancavano per mangiare, ma quelle non si potevano toccare. Facevano parte delle regalie che il papà avrebbe dovuto portare al padrone, assieme a papere, oche, galline e capponi. Era tutto previsto nel contratto di mezzadria, uguale a molti altri dell’epoca:“ 4 paia di capponi a Natale, del peso di 1750 Kg, a Carnevale due paia di galline, del peso di 1500 Kg, Agosto- Novembre quattro capi di pollastri da un Kg, tredici uova al mese. Il proprietario concedeva al colono di allevare N° 6 oche e 6 anitre a compenso cibarie trebbiatura ed altri lavori agricoli, senza che questi abbia a richiedere altri compensi”.

 

“Poveri ma belli i nostri anni cinquanta”! Poveri sì, belli solo per pochi, quelli che stavano bene. E come se non bastasse, nel contratto si precisava anche: “A completamento delle norme contenute nel patto, di comune accordo si precisa che il mezzadro dichiara che nessuna professione sussidiaria viene esercitata da alcun membro della famiglia. E’ vietato recarsi fuori azienda sia personalmente per prestare la propria opera colle braccia che con il bestiame in comune, se questo si verificasse. Il proprietario ha facoltà di applicare una multa proporzionale, il colono s’impegna di portare una volta alla settimana, al venerdì, la verdura al proprietario. Il colono è tenuto altresì a portare N° 2 scope e n° 2 scopetti di saggina prodotti espressamente nel proprio fondo”. E’ uno dei tanti contratti di mezzadria che Michelino, divenuto grande, ha potuto leggere e studiare. L’istituto del “servo della gleba”, di medievale memoria, ha attraversato i secoli con una continuità sorprendente. Tutto cambiava ma tutto rimaneva immutabile nelle strutture mentali e nei contratti di mezzadria. Certi prevedevano anche le giornate che il contadino doveva prestare gratuitamente nelle terre condotte direttamente dal proprietario. Erano le “corvées”. I contadini della mensa arcivescovile di Fermo, nel corso dell’anno, di solito in inverno, quando i lavori nelle campagne erano fermi, erano tenuti a prestare diverse giornate di lavoro gratuitamente per rinforzare gli argini del fiume Chienti. Il vergaro, la mattina presto impartiva gli ordini a tutti i componenti della grande famiglia patriarcale: oggi si va a fare lu forte a lu fiume (oggi si va tutti a rinforzare gli argini del fiume).

 

Tutto questo accadeva non nel più profondo Medioevo, ma fino a settant’anni fa nelle nostre campagne. Nello stesso contratto di mezzadria, ricordato sopra, erano elencati poi tutte le macchine e gli attrezzi di proprietà comune: “Tino in cemento, piattina con rotelle di gomma, falciatrice, seminatrice, aratro nazionale, pompa irroratrice, estirpatore, erpice, a metà, scarpi bietole e forcone per bietole tutto del proprietario”. Ogni attrezzo di lavoro meriterebbe una descrizione a parte. L’estirpatore era utilizzato per svellere le erbacce e frantumare le zolle. Nel linguaggio comune era chiamato lo “Streppatore”, un mezzo in ferro, munito di pale orizzontali e verticali, trainato dalle mucche. La falciatrice meccanica era utilizzata per tagliare l’erba ed il grano. In quest’ultimo caso, i contadini più ingegnosi la munivano di un “legarì”, un marchingegno che permetteva di legare i covoni. S’inceppava spesso. Per la legatura delle “coa” si procedeva a mano. L’aratro classico, munito di due ruote, con vomere, coltro e versoio, era guidato dal contadino che faceva forza su due manichette laterali, impugnate da due robuste braccia. Il mezzo era inferrato o sferrato, staccando una levetta posta sulla manichetta di destra. La piattina era un carro agricolo basso, a quattro ruote, una variante della biroccetta. Di seminatrici meccaniche, ora che Michelino era diventato grande, ne vedeva molte, buttate in un angolo di qualche casa colonica abbandonata o se abitata non più curata come una volta, scomparsi i protagonisti di allora.

 

L’udienza era l’appuntamento fisso del Venerdì. Il fattore faceva i conti tutti registrati nel libretto fornito dall’Associazione Agricoltori delle diverse province. L’opuscolo, formato quaderno, era diviso in due parti, in una erano registrate le uscite, nell’altra le entrate, dare e avere del colono. La chiusura dei conti era sempre la stessa. Avveniva normalmente nel mese di Dicembre: “In data odierna è stata effettuata la chiusura dei conti colonici relativi all’anno in corso ed è stato riscontrato un credito a favore del colono di £… (poche migliaia), che in data odierna  è stato pareggiato. Per tregua mezzadrile per l’anno in corso, il colono in considerazione delle varie corresponsioni ricevute in natura, accetta a saldo completo la somma di £… (la metà di quanto sopra). A tale volontaria accettazione, il colono s’impegna verso il proprietario che approva a nulla più avere per qualsiasi titolo, causa ragione in quanto l’accettazione stessa ha carattere di una libera definitiva transazione. Letto, confermato e sottoscritto”. Seguivano le due firme, quella del colono e quella del proprietario del fondo.

 

Ora Michelino è diventato grande. Di quel periodo lontano gli sono rimaste solo poche cose affidate ai ricordi. Ha attraversato la vita, ricoprendo il ruolo di figlio, fratello, marito, padre e nonno. Può solo vantare questo cursus honorum, le cariche pubbliche ricoperte. E ne va orgoglioso. “Divitias alius fulvo sibi congerat auro et teneat culti iugera multa soli” (Tibullo, Elegie) Traduzione: Un altro ammassi pure per sé ricchezze di biondo oro e possieda molti iugeri di terreno coltivato. Una precisazione sul nome di Michelino. E’ del tutto inventato.

 

Raimondo Giustozzi

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