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Diaologhi in corso. Le manipolazioni della ricerca scientifica e la salute pubblica

fonte Internet

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di Enzo Ferrara

Il glifosato, “Le Monde” e il marketing

La difesa della salute di tutti e di ciascuno si sta facendo piuttosto complicata se siamo giunti al punto in cui nella letteratura scientifica si coniano definizioni con prerogativa immorale come quelli di “scienza in difesa del prodotto” e “manipolazione del dubbio scientifico”. La strategia consiste soprattutto nel gettare discredito sulle affermazioni di nocività di sostanze pericolose, costruendo insiemi di dati artefatti ma capaci di introdurre volutamente visioni contraddittorie nel dibattito. È usata con grande successo dai principali inquinatori e dai produttori di sostanze pericolose su scala mondiale per opporsi alle leggi nazionali e internazionali di protezione dell’ambiente e della salute pubblica. L’ultimo caso è stato quello del glifosato prodotto dalla Monsanto, il pesticida più usato in assoluto in agricoltura, classificato come genotossico, cancerogeno per gli animali e probabile cancerogeno per gli umani dalla Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro – la Iarc di Lione – ma che viene ancora sparso sui campi d’Europa e del mondo; l’Italia lo ha bandito solo in parte. L’industria ha sferrato un attacco addirittura contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità, coadiuvata dalla Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) e dalla Agenzia Europea delle Sostanze Chimiche (Echa). Queste ultime hanno prodotto rapporti meno problematici sul glifosato, ma con intere parti identiche ai documenti industriali (si vedano i dossier di Le Monde del 2017 sui Monsanto papers), addirittura rimestando accuse di parzialità e scorrettezza del comitato Iarc che si era occupato della monografia sul glifosato. In caso di pericolo per il commercio di un prodotto sospetto, occorre mettere in discussione la validità delle prove scientifiche che spingono il legislatore a prevenirne l’uso e se questo non è possibile va anche bene gettare discredito sugli autori di quelle stesse prove.

Ci volle molto tempo per ridurre a ragionevolezza il mondo occidentale sulla nocività del fumo di tabacco – la principale causa singola di morte al mondo. L’industria (Camel, Marlboro, Philip Morris), che ha spostato le vendite nei paesi emergenti, è riuscita per decenni a impedire serie restrizioni legislative usando tecniche di marketing, di finanziamento mirato e di denigrazione degli studi contrari ai propri interessi. In particolare, l’attività “scientifica” in difesa del tabacco riuscì a lungo a confutare gli effetti nefasti del fumo passivo (Lisa A. Bero, Tobacco industry manipulation of research, in Late lessons from early warnings, Eea Report 1/2013).

La stessa strategia è tuttora usata da produttori e utilizzatori di amianto, benzene, berillio, cromo, piombo, plastiche e dai costruttori di autovetture diesel: tutti prodotti non solo pericolosi ma cancerogeni conclamati.

La pratica negazionista è stata ed è ancora un ostacolo centrale nel dibattito sul riscaldamento globale; è così comune che è in pratica impossibile che una ricerca scientifica sfavorevole alla grande industria non trovi una contro-risposta all’avvicinarsi di un iter legislativo. La produzione di incertezza è anche un business: sono numerose le organizzazioni di consulenza che offrono attività di scienza “in difesa del prodotto” o “a sostegno della controversia”. Come implicano i termini usati dagli stessi consulenti, queste attività di scientifico e disinteressato hanno poco, non producono conoscenze a favore della salute pubblica, anzi le confutano per proteggere gli interessi delle corporation.

Lo scorso 10 ottobre, “Le Monde” ha raccolto alcuni articoli su questi argomenti in occasione della pubblicazione di Lobbytomie, di Stéphane Horel (La Découverte, Parigi 2018) un libro che descrive le tecniche manipolatorie usate dall’industria: una sorta di lobotomia collettiva condotta dalle lobby, per mantenere sul mercato prodotti nocivi. Il quotidiano francese riporta episodi significativi come quello del professor Michel Aubier, pneumologo, primo cattedratico condannato per aver mentito davanti a una commissione parlamentare e per aver celato il proprio conflitto di interessi. Nel 2015 era stato designato dal direttore degli ospedali parigini a rendere davanti al Senato francese un parere tecnico sui costi dell’inquinamento atmosferico. L’impatto dei motori diesel, secondo Aubier, sarebbe trascurabile, valutabile fra i 2 e i 5 milioni di euro a fronte di un costo totale annuo causato dall’inquinamento atmosferico variabile da 69 a 97 miliardi di euro. Un’indagine congiunta di “Libération” e “Le canard enchaîné” ha però rivelato un accordo di consulenza continuativa di Aubier con la Total, che durava dal 1997, mentre dal 2007 lo stesso Aubier era componente del Consiglio di amministrazione della Fondazione Total. Il cattedratico ha ribadito l’indipendenza del suo giudizio, mai inficiato dall’essere stato per più di vent’anni stipendiato da un’azienda petrolifera: “è scientificamente provato che il 90 % dei tumori polmonari sono dovuti al fumo” – si è difeso. È vero, ma fra quel 10 % che resta, vi sono anche da 40mila a 42mila decessi prematuri attribuiti all’inquinamento atmosferico in Francia. Il procuratore gli ha ricordato che la sua testimonianza aveva instillato seri dubbi nel Senato sulla pericolosità dei motori diesel, mentre era palese che la Total, pagandolo per decenni, avesse fatto un investimento redditizio.

Sullo stesso numero di “Le Monde”, il danese Philippe Grandjean – fra i più autorevoli studiosi al mondo sugli impatti dell’inquinamento sulla salute – spinge oltre il proprio ragionamento, arrivando a definire la tendenza attuale al pari di un vero e proprio utilizzo della scienza come strumento di marketing. L’inquinamento delle acque in Veneto per il rilascio dei cosiddetti Pfas (Sostanze Perfluoro Alchiliche come il téflon, usate per i rivestimenti impermeabilizzanti e antiaderenti presenti anche negli utensili da cucina) preoccupa per la loro diffusione e persistenza, con pericoli per l’equilibrio endocrino-ormonale della popolazione colpita, soprattutto dei più giovani. Negli Usa Grandjean è stato perito tecnico in una causa sull’inquinamento da Pfas fra lo stato del Minnesota e la multinazionale chimica 3M. Secondo la 3M l’esposizione agli Pfas non è nociva, affermazione sostenuta da pubblicazioni relative a studi condotti su operai esposti a dosi elevate di perfluorati. Al processo tuttavia Grandjean ha mostrato i dati completi degli studi osservando che per le pubblicazioni erano stati selezionati solo quelli favorevoli all’industria. Fra le carte, è emerso un documento aziendale che invitava a fare pubblicazioni, ma soltanto nel caso in cui i risultati non portassero pregiudizio alle politiche d’impresa sulla sicurezza dei propri prodotti.

Che i risultati della ricerca siano fortemente condizionati dalle attese di chi li commissiona è indubbio. Poiché la ricerca scientifica è in gran parte in mano ai privati e poiché questi prima di ogni altro preliminare fanno firmare ai ricercatori documenti giuridici con obbligo di riservatezza sui risultati acquisiti – che significa impossibilità di pubblicare risultati senza consenso del committente – è chiaro lo squilibrio che si determina nel numero di pubblicazioni favorevoli o contrarie alla definizione di nocività di un prodotto. L’interpretazione dei dati sperimentali da parte di scienziati che hanno un conflitto di interessi deve essere evidenziata non per creanza ma per non trasformare, come temuto da Grandjean, l’attività di studio in marketing.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 61 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.

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