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Cultura. La filanda e la cascina risicola a confronto Filandere e mondine

Cascina Veneria (Vercelli)

 

Il lavoro nella filanda ha rappresentato per la donna una prima emancipazione ma diversa da quella vissuta dalla stessa nella cascina risicola. Dopo le dure ore di lavoro, soggetto a controlli anche maniacali, la donna, che lavorava in filanda, ritornava ogni sera nella propria casa di origine. Grossi contingenti di donne percorrevano, il mattino presto e la sera tardi, le stradine fuori mano che conducevano alla filanda. Ma questo non costituiva per la donna un fattore di coscienza sociale. Le strutture familiari rimanevano sempre le stesse. In casa l’autorità del regiù, nel caso di più famiglie che vivevano sotto lo stesso tetto, non si metteva in discussione. In paese, il controllo del parroco, che vigilava sulla condotta morale della donna, era molto rigido. Il contesto feudale dal quale la filandera proveniva era sempre lo stesso. Indubbiamente, questo non significa che il lavoro nella filanda non abbia rappresentato una nuova condizione femminile: “La vita di filanda ha certo portato elementi nuovi, più o meno traumatici, entro l’ordine contadino. Ha agito senza dubbio come forza dirompente dell’ordine familiare e della stessa psicologia femminile.  Non ha comunque rappresentato l’equivalente della risaia, che è intervenuta in modo più massiccio e determinante a connotare in modo nuovo la società contadina padana, la condizione della donna, i rapporti familiari e a contribuire alla formazione di una cultura nuova, padano- proletaria” (Roberto Leydi, dalla cultura contadina alla cultura operaia in Lombardia, in “Il paese di Lombardia”, Milano, 1984).

Riso Amaro - Silvana Mangano

La mondina, la donna che lavorava nella risaia, rompeva i legami con il proprio ambiente d’origine anche se per due periodi relativamente brevi, la zappatura e la mondatura del riso. La prima andava dalla metà di aprile sino alla metà di maggio. Per ogni giornata di lavoro, sessantacinque centesimi in moneta, la mondina aveva due volte la minestra di riso e fagiuoli e due ettogrammi e mezzo di pane di gran turco che, spezzato all’inizio della settimana, sul finire della stessa diventava acido e duro. Alle mondine si affiancavano i giovani assoldati anche loro in questo lavoro. Il concentramento della forza lavoro avveniva la domenica sera nella cascina risicola. Il lavoro iniziava lunedì mattina verso le sette e si protraeva fin verso mezzogiorno. La colazione durava mezz’ora ed era consumata poco dopo l’inizio del lavoro. La pausa pranzo era di un’ora, poi si lavorava fino alle sei di sera. Dopo cena, una o due volte alla settimana, si ballava sull’aia della cascina avvolta da una fitta coltre di nebbia: “Pare che quelle pianure fumassero o che fossero un vasto lago, e che la fattoria ci stesse nel mezzo come un’isola. Da lontano si vede la stessa nebbia, appena meno densa, avvolgere la corte, la casa e ogni cosa” (Ibidem). L’umidità penetrava nelle ossa. Se le mondine erano arrivate dai propri paesi d’origine giulive e contente, dopo pochi giorni, molte di loro erano costrette ad abbandonare il lavoro per andare all’ospedale e curarsi le febbri. I pochi lavoratori rimasti, angariati dagli assistenti, dovevano fare anche la parte degli ammalati.

antica filanda di Brivio

La mondatura del riso aveva inizio a giugno e si protraeva per circa un altro mese. Scrive Roberto Leydi: “Era un lavoro orribile e disastroso. Vi vanno pure fanciulle e giovani, i quali in principio hanno una lira a giornata, ma più si va avanti, più il prezzo aumenta sino a lire due, oltre il vitto, che spesso è, come nella zappatura, un riso cotto fino a sfasciarsi, misto a fagiuoli duri, senz’altro condimento che un po’ di sale ed un pezzo di lardo rancido. Vanno al lavoro alle quattro, quando comincia appena ad albeggiare, e quando la pianura è avvolta in un vapore grigio e pesante, lavorano con l’acqua fin sopra le ginocchia, ed il capo in quella nuvola bianchiccia, che fa mancare il fiato; e, curvati, mondano il riso dalle male erbe, desiderosi che spunti un occhio di sole a diradare quel vapore. Ed il sole viene, ma un sole di giugno che brucia come una fiamma, cuoce il cervello ed arde le carni; ed il sudore a scolare giù lungo il collo e a cadere dalla fronte a grosse gocce, che, piombando nell’acqua della risaia, vi segnano dei cerchi come fossero sassolini. E da quell’acqua stagnante e riscaldata esalano miasmi puzzolenti, che sconvolgono lo stomaco, e che si fanno più insopportabili a misura che il caldo aumenta” (Ibidem).

 

Mondine e filandere avevano trovato un antidoto alla fatica ripetitiva, massacrante e disumana. Cantavano per farsi coraggio e per trovare quasi un sollievo durante il lavoro e nei momenti di riposo. I testi dei canti appartenenti ai due mondi sono però molto diversi. Quelli della filanda sono monotoni e tristi, vivacemente protestatari quelli della risaia, antesignani delle lotte operaie quando il conflitto tra capitale e lavoro si farà più acuto. I canti di filanda erano osteggiati dal datore di lavoro e dai sorveglianti. Con il tempo furono tollerati perché contribuivano a fare gruppo, oggi si direbbe a fare squadra con un termine preso dal calcio. Rimanevano però circoscritti quasi nel mondo del privato. Le mondine invece, pur provenendo anche loro dal mondo contadino, di cui avvertivano tutta la pesantezza di certi rapporti feudali, per due periodi dell’anno vivevano fuori da quel mondo. Erano coscienti di essere sfruttate e mettevano nei loro canti la propria protesta.

 

Canti delle mondine

Sciur padrun da li béli braghi bianchi.

E’ il canto più conosciuto.

Sciur padrun da li béli braghi bianchi / fora li palanchi fora li palanchi / sciur padrun da li béli braghi bianchi / fora li palanchi ch’anduma a cà. // A scüsa sciur padrun /  sa l’èm fat tribülèr / i era li prèmi volti / i era li prèmi volti / a scüsa sciur padrun / sa l’èm fat tribülèr / i era li prèmi volti / ca ‘n saiévum cuma fèr // Sciur padrun da li béli braghi bianchi / fora li palanchi fora li palanchi / sciur padrun da li béli braghi bianchi / fora li palanchi ch’anduma a cà… / E non va più a mesi / e nemmeno a settimane / la va a poche ore / e poi dopo andiamo a cà… / E quando al treno a scëffla /  i mundèin a la stassion / con la cassiétta in spala / con la cassiétta in spala / e quando al treno a scëffla / i mundèin a la stassion / con la cassiétta in spala / su e giù per i vagon / Sciur padrun da li béli braghi bianchi / fora li palanchi fora li palanchi / sciur padrun da li béli braghi bianchi / fora li palanchi ch’anduma a cà…”. Questa canzone s’incominciava a cantarla a metà campagna, a metà monda, perché il contratto della mondatura del riso era sempre di trenta o quaranta giorni. “Noi, dai venti giorni in poi”, raccontava Giovanna Daffini, “continuamente si cantava Sciur padrun da li beli braghi bianchi, (dai bei pantaloni bianchi). Eravamo stanche di monda, tanto che si vedevano le nostre case, anche se distanti tanti chilometri”.

 

Sebben che siamo donne.

Il canto, proprio delle mondine, è diventato con il tempo canzone di protesta sociale di quanti si sentivano sfruttati nel lavoro: “Sebben che siamo donne / paura non abbiamo / per amor dei nostri figli /  per amor dei nostri figli / in lega ci mettiamo / Aoilìoilìoilà / e la lega la crescerà / e noialtri socialisti / e noialtri socialisti / vogliam la libertà. // La libertà non viene / perchè non c’è l’unione / Crumiri col padrone /  son tutti da ammazzar / Aoilìoilìoilà / Sebben che siamo donne / paura non abbiamo / abbiamo delle belle buone lingue / e ben ci difendiamo… // Aoilìoilìoilà / e la lega la lega crescerà / e noialtri socialisti / vogliam la libertà…”.

L’esperienza della cascina risicola ebbe forti conseguenze sullo sviluppo di nuovi rapporti all’interno della famiglia tradizionale con esiti avvertibili nelle coscienze femminili. Le settimane di permanenza nella cascina costituivano una vera e propria sospensione dell’ordine familiare tradizionale. Le donne, maritate o ragazze che fossero si sottraevano alle costrizioni di un sistema patriarcale, organizzato in una serie di controlli assai rigidi sia familiari sia comunitari. Nonostante il lavoro duro, i dormitori pessimi, il vitto cattivo e le punizioni, molte mondine, diventate adulte, ripensavano all’esperienza fatta con sincero rimpianto e rivissuta allegria. Per molte di loro significò anche l’iniziazione alla vita sessuale impensabile nel tradizionale modello patriarcale. La conoscenza di altre mondine, che provenivano da regione e zone diverse, arricchì tutte di nuovi valori. L’immobilità del mondo contadino, dove le occasioni di uscire fuori dai propri orizzonti erano quasi nulle, veniva frantumata. Parlando, conoscendosi, ci si arricchiva di nuove vedute e di scambi culturali. Si può dire che l’esperienza nella cascina risicola rappresentò per la donna l’equivalente del servizio militare maschile. In ambedue le realtà c’era sì costrizione ma nonostante tutto, anche occasioni d’incontri, di relazioni e di conoscenze altrimenti impossibili. Il rancore e il rimpianto che si colgono in molti racconti del servizio militare sono gli stessi che si colgono in alcuni ricordi delle mondariso (R. Leydi, Ibidem).

Terminata la zappatura o la mondatura del riso, il ritorno delle mondine nei propri paesi di origine era salutato con un canto desunto dal repertorio delle marcette militari: O macchinista getta carbone. Nel testo si parla di Castelbelforte, paese vicino a Mantova, dal quale provenivano tante mondine che andavano a lavorare nelle risaie del vercellese.

O macchinista getta carbone / quel macchinone fallo marciar / fallo marciare sempre più forte /  Castelbelforte vogliamo andar / Castelbelforte siamo partiti / Castelbelforte vogliamo andar
Castelbelforte siamo partiti / Castelbelforte vogliamo andar // Quando saremo Castelbelforte
tutta la gente fòri a guardar / quando saremo Castelbelforte / tutta la gente fòri a guardar // Cos’è successo cos’è ‘caduto / son le mondine che vegnu a cà / cos’è successo cos’è ‘caduto /  son le mondine che vegnu a cà / Oilà siamo ‘rivà / oilà siamo ‘rivà / oilà siamo ‘rivà / a goder la libertà”.

La gioia di ritornare a casa traspare nel canto Ecco Lindo, ecco Lindo che si veste. Nell’ultimo giorno di lavoro, il capo delle mondariso andava in stazione per chiedere il biglietto ferroviario. Tutte le mondine, sul treno che le riportava nei propri paesi di origine, intonavano il canto.

Ecco Lindo ecco Lindo che si veste / che si veste da la festa / el va a fare la richiesta / el va a fare la richiesta / ecco Lindo ecco Lindo che si veste / che si veste da la festa /  che va a fare la richiesta / la richiesta d’andare a cà // oilà gh’è de va a cà / oilà gh’è de va a cà / oilà gh’è de va a cà / a veder come la va // E noi andremo a casa / in cima del vapore / evviva l’amore / evviva l’amore / e noi andremo a casa / in cima del vapore / evviva l’amore / chi lo sa far // E chi sa far l’amore / sarà le mantovane / e le piamontése / e le piamontése / e chi sa far l’amore / sarà le mantovane / e le piamontése / no no e no”.

La mondina che ritorna al proprio paese vi ritorna trasformata. Nella cascina risicola ha conosciuto l’amore che deve lasciare. Nel testo Amore mio, non piangere c’è tutto lo struggimento per il distacco dal proprio ragazzo ma anche la felicità di riabbracciare la propria mamma. Il canto per certi versi è vicino alla canzone dei Santo California, Tornerò. Al CAR (Centro Addestramento Reclute) di Siena, B.t.g. F.t.r. Fanteria Venezia, dove ho vissuto il primo mese di naia. Era febbraio 1976. Il Jukebox del bar la replicava in modo ininterrotto. Il ragazzo che partiva per il militare confortava la propria ragazza che presto sarebbe ritornato: “Un anno non è un secolo”. Nel testo Amore mio non piangere è la mondina che si rivolge al ragazzo, che ha conosciuto nella cascina risicola, dicendogli che gli scriverà una lettera per dirgli che lo ama.

Amore mio, non piangere / se me ne vado via, / io lascio la risaia, / ritorno a casa mia. // Ragazzo mio, non piangere / se me ne vò lontano, / ti scriverò una lettera / per dirti che ti amo. // Non sarà più la capa / che sveglia a la mattina, / ma là nella casetta / mi sveglia la mammina. // Vedo laggiù tra gli alberi / la bianca mia casetta / vedo laggiù sull’uscio / la mamma che mi aspetta. // Mamma, papà, non piangere / non sono più mondina. / Son ritornata a casa / a far la signorina. // Mamma, papà, non piangere / se sono consumata, / è stata la risaia / che mi ha rovinata”.

Il canto Se otto ore vi sembran poche, proprio del repertorio musicale delle mondariso, col tempo è diventato l’inno del proletariato maschile e femminile. “Se otto ore vi sembran poche, / provate voi a lavorare / e troverete la differenza / di lavorar e di comandar. // E noi faremo come la Russia / noi squilleremo il campanel, / falce e martel, / e squilleremo il campanello / falce e martello trionferà. // E noi faremo come la Russia / chi non lavora non mangerà; / e quei vigliacchi di quei signori / andranno loro a lavorar “. La rivoluzione d’ottobre, che aveva portato in Russia il Comunismo, era il richiamo per gli sfruttati di tutto il mondo.

Sul lavoro delle mondine, nel 1949 uscì il film Riso amaro, diretto da Giuseppe De Santis, con Silvana Mangano nella parte della protagonista. Fu presentato al terzo Festival di Cannes. E’ uno dei più bei film del Neorealista ed è stato selezionato tra i cento film italiani da salvare.

 

 

Canti di filanda.

I canti di filanda sono prevalentemente scritti in dialetto settentrionale (milanese, bergamasco). Il più conosciuto è La filanda de Ghisalba. E’ possibile ascoltarlo anche su Youtube. Ghisalba è un comune della provincia di Bergamo.

La filanda de Ghisalba / si l’è pientada in mezzo a l’erba / l’è pú tanta la superbia / che la paga che i me dà / l’è piú tanta la superbia / che la paga che i me dà / La filanda de Ghisalba / si l’è una triste filandina / e ‘l cal e ‘l pocch a la mattina / e ‘l provin dopo ‘l mesdé / e ‘l cal e ‘l pocch a la mattina e ‘l provin dopo ‘l mesdé // In filanda de Ghisalba / gh’è de donn mezze malade / per la furia di aspade / si han ciappàa la fugaziun / per la furia di aspade / si han ciappàa la fugaziun // In filanda de Ghisalba / i direttori sono intelligenti / loro fuman le sigarette / sempre ai spall dei lavorator loro fuman le sigarette / sempre ai spall dei lavorator”.

TraduzioneLa filanda di Ghisalba / è piantata in mezzo all’erba / è più tanta la superbia / della paga che mi danno / è più tanta la superbia / della paga che mi danno // La filanda di Ghisalba / è una triste filandina / il cal e il pocch alla mattina / e il provin al pomeriggio / il cal e il pocch alla mattina e il provin al pomeriggio // Nella filanda di Ghisalba / ci son donne mezze malate / per la velocità delle aspe / si son prese un’infiammazione / per la velocità delle aspe / si son prese un’infiammazione // In filanda de Ghisalba / i direttori sono intelligenti / loro fumano le sigarette sempre alle spalle dei lavoratori / loro fumano le sigarette / sempre alle spalle dei lavorator”. Note al testo: Cal e pocch erano prove di quantità sul filato prodotto, in particolare il cal si verificava quando la quantità di scarto superava i limiti consentiti; il pocch invece quando la filandera, pur rispettando la proporzione fra filato e scarto, aveva prodotto poco filato. Il pruvìn era una verifica sulla qualità del filato. Dopo un certo numero di esiti positivi, la filandera poteva guadagnare la mansione di Maestra o Mistra, con un incremento significativo della paga. Aspade (aspo) era uno strumento di lavoro.

Condizioni di lavoro in filanda

La manodopera che lavorava in filanda era per lo più femminile. “Nel 1876 l’industria serica monzese faceva registrare cifre da primato per quanto riguarda l’occupazione femminile e minorile, con 873 operaie (61,5%) e 472 fanciulli (33,2%) su un totale di 1421 occupati, rimanendo su livelli superiori, anche se di poco, alle medie nazionali. L’assunzione di manodopera minorile è continuata nei decenni successivi e la presenza di bambine sotto i dodici anni si è protratta illegalmente anche dopo che la legislazione aveva riconosciuto tale età come limite minimo… Nel primo decennio del Novecento, il numero dei minori impiegati nell’industria serica era andata diminuendo, fino ad arrivare, a livello nazionale, al 16%. Ciò fu dovuto sia alla crisi generale del settore serico, sia alle iniziative legislative che limitarono di molto il lavoro minorile” (Domenico Flavio Ronzoni, Dai campi alla fabbrica, alle origini della Brianza industriale, pag. 55, Bellavite Editore, Missaglia 1994). Il lavoro era anche di quindici ore giornaliere. Ciò era dovuto al fatto che la produzione nelle filande, alla metà dell’Ottocento, si concentrava solo nei mesi estivi, negli altri periodi dell’anno l’umidità esterna danneggiava la qualità della seta durante la trattura. “Solo verso il 1860, con l’introduzione di alcuni accorgimenti, che in Francia erano in atto da diverso tempo, si cominceranno a ridurre i tempi di chiusura delle filande, fino a limitarli a circa trenta giorni, tra maggio e giugno, quando si provvedeva alla stufatura dei nuovi bozzoli per uccidere i bachi, Ancora negli ultimi anni dell’Ottocento, però, non poche filande, nella Brianza milanese e comasca, erano costrette a chiudere nei mesi più umidi” (Ibidem, pag. 58).

La scarsa alimentazione delle filandere, le carenti condizioni igieniche degli stabilimenti, il lavoro fatto quasi sempre in piedi, i controlli maniacali sul lavoro, l’umidità e l’odore sgradevole che emanava dalle bacinelle, contribuivano a maledire quasi il lavoro. Il canto “Mamma mia, mi son stufa” traduce bene questo scoramento. Traspare anche il desiderio di trasferirsi nella bergamasca, dove gli stipendi erano migliori. La canzone, pubblicato genericamente come brianzola, è una delle più note al grande pubblico. E’ un canto di protesta, denuncia la gravosità del lavoro, i controlli continui predisposti dagli imprenditori sulla produttività delle lavoratrici, il trattamento disumano e rileva gli effetti negativi prodotti sul fisico dal lavoro in filanda. Solo ritornando in campagna, la giovane donna riprenderà il colorito.

“Mama mia, mi sun stufa / o de fà la filerina: / ol cal e el poc a la matina, / ol pruvìn du voeult al dì. // Mama mia, mi sun stufa / tutt ol dì a fà andà l’aspa; / voglio andare in Bergamasca, / in Bergamasca a lavorar. // El mesté de la filanda / l’è el mesté degli assassini; / poverette quelle figlie che son dentro a lavorar. // Siam trattati come cani, / come cani alla catena; / non è questa la maniera / o di farci lavorar. // Tucc me disen che sun nera, / e l’è el fumm de la caldera / el mio amor me lo diceva / di non far quel brutt mesté. // Tùcc me disen che sun gialda, / l’è ol filur de la filanda, / quando poi sarò in campagna / i miei color ritornerà”.

Traduzione. “Mamma mia, io sono stufa / di fare la filandina: / il calo e il poco la mattina / e il provino due volte al giorno. // Mamma mia, io sono stufa / tutto il giorno far andare l’aspo; / voglio andare nella bergamasca, / nella bergamasca a lavorare. // Il mestiere della filanda / è il mestiere degli assassini; / poverette quelle ragazze / che ci sono a lavorare. // Siamo trattati come cani, / come cani alla catena; / non è questa la maniera / di farci lavorare. // Tutti mi dicono che sono nera,
è il fumo della caldaia; / il mio amore me lo diceva / di non fare quel brutto mestiere. // Tutti mi dicono che sono gialla, / è il vapore della filanda; / quando poi sarò in campagna / i miei colori torneranno”.

La paga nelle filande

Edmondo Sala, con riferimento alle industrie del Lecchese, osserva che negli anni 1872- 1873, in un momento di forte ripresa dell’industria serica, le paghe andavano dai 35 ai 60- 70 centesimi al giorno nell’incannatura (dove lavoravano molte bambine e ragazze), dai 75 centesimi fino a una lira e dieci nella trattura, da una lira fino a 1,60 nella filatura, attività che poteva contare già allora su una continuità lavorativa pressoché totale, a differenza di quanto avveniva nella maggior parte delle filande” (ibidem, pag. 61). Lo studioso metteva a confronto le paghe percepite e il costo dei generi di prima necessità: “Per valutare quali possibilità di sostentamento consentissero questi salari li mettiamo a confronto con i prezzi di prima necessità: un chilo di pane costava 40- 50 centesimi, un chilo di farina di granoturco 25- 30 cent., un chilo di riso 35- 42 cent.; in tal modo le operaie potevano acquistare in ciascuna giornata lavorativa e dopo un orario di 12- 15 ore circa kg. 1- 1,5 di pane, g. 1 di farina e 1g. di riso” (Pag. 61). Si può ben capire che il lavoro in filanda rappresentava per le operaie un’utile integrazione del reddito agricolo, ma era anche, da parte degli imprenditori, condotto all’insegna dello sfruttamento, spesso camuffato da paternalismo. Religione e istruzione erano viste dalla classe dirigente come strumenti necessari, quindi da promuovere, per avere ai propri ordini lavoratori obbedienti e disciplinati.

Ma il lamento per le dure condizioni di lavoro traspare nel canto “O mamma mia tegnim a cà”.

“O mamma mia tegnìm a cà/ o mamma mia tegnìm a cà / o mamma mia tegnìm a cà / che mi ‘n filanda / mi ‘n filanda mi vöi pü ‘nà // Me dör i pé me dör i man / e la filanda l’è di vilàn // L’è di vilàn per laurà / e mi ‘n filanda mi vöi pu ‘nà // Gh’è giò ‘l sentón ferma ‘l rudón / e la filanda l’è la presón // L’è la presón di presoné / e mi ‘n filanda son stüfa asé”.

Traduzione O mamma mia tenetemi a casa / O mamma mia tenetemi a casa / O mamma mia tenetemi a casa / perché io in filanda non voglio più andarci. // Mi dolgono i piedi mi dolgono le mani e la filanda è per i villani. // Si addice ai villani per lavorare / ed io in filanda non voglio più andarci. // Vi è giù il cinghione, ferma il volano / e la filanda è la prigione. // È la prigione dei prigionieri / ed io della filanda sono stufa a sufficienza.

 

Scrive Roberto Leydi (Ivrea, 21 febbraio 1928 – Milano, 15 febbraio 2003) nel saggio sopra ricordato, sulle differenze tra i canti di filanda e di risaia: “Attorno al massiccio proliferare delle filande non nasce uno spazio culturalmente ampio, con scambi e relazioni, capace di intervenire nel processo culturale di territori contadini di vasta estensione. Quelle testimonianze primarie che sono i repertori di canti di filanda dimostrano in modo assai chiaro come la coesistenza di modi di vita determinati dall’industria e modi di vita condizionati dalla tradizione contadina locale sia segno di una non profonda partecipazione delle operaie di filanda al processo di trasformazione capitalistica della Lombardia, anche se inevitabilmente emergono nuove agglomerazioni comunicative di tipo sociale, con forza protestataria e presenza di coscienza operaia. Ma nell’insieme, il canto di filanda non raggiunge quell’omogeneità rinnovata che presenta quello di risaia, dove pur permangono tanti tratti di antecedente cultura contadina, ma il carattere emergente si esprime in termini sostanzialmente nuovi, sia per quanto riguarda i testi, che per quanto tocca le musiche e, soprattutto, i modi esecutivi”.

Roberto Leydi è stato un etnomusicologo italiano. Fin dalla metà degli anni cinquanta concentrò la sua esperienza di ricerca e di studio sulla musica popolare e sulla storia sociale. Glauco Sanga (Milano 1947), professore in quiescenza, è stato docente di Glottologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. E’ un altro punto di riferimento obbligato per chi voglia fare ricerca etnomusicale. Michele Straniero (Milano, 27 settembre 1936 – Torino, 7 dicembre 2000) è stato un cantautore, musicologo e giornalista. Fondò a Torino il gruppo dei Cantacronache. Umberto Eco, così ha scritto su di lui: “Se non ci fossero stati i Cantacronache e quindi se non ci fosse stata anche l’azione poi prolungata, oltre che dai Cantacronache, da Michele Straniero, la storia della canzone italiana sarebbe stata diversa. Poi, Michele non è stato famoso come De André o Guccini, ma dietro questa rivoluzione c’è stata l’opera di Michele: questo vorrei ricordare” (Wikipedia).

“Povre filandere”. E’ un altro canto di filanda, di struggente malinconia. La vita delle filandere è grama, fatta di povertà e di lavoro.

Povre filandere / non gh’avrì mai ben / dormerì ‘n de paja / creperì nel fen // dormerì ‘n de paja
creperì nel fen / povre filandere / non gh’avrì mai ben // Al suna la campanela / gh’è né ciar né scür
povre filandere / pichi ‘l co nel mür // al suna la campanela / gh’è né ciar né scür / povre filandere
pichi ‘l co nel mür”.

Traduzione. Povere filandere / non avrete mai del bene / dormirete nella paglia / e morirete nel fieno // dormirete nella paglia / morirete nel fieno / povere filandere / non avrete mai del bene // suona la campanella /  non c’è né chiaro né buio / povere filandere / picchiate la testa nel muro // suona la campanella /  non c’è né chiaro né buio / povere filandere / picchiate la testa nel muro.

Altri due canti per chiudere questo piccolo repertorio: In filanda non ci vado, E lee la va in filanda. Il primo, raccolto ad Oggiono, Brianza Lecchese, ripropone il motivo dei danni alla salute prodotti dalla filanda. La filatrice si rasserena però pensando al suo amore. Gli ultimi versi lasciano trasparire la speranza del matrimonio, visto come la liberazione dalla prigione della filanda: “In filanda non ci vado / perché l’acqua mi fa male / mi ritiro in camerella / a cucire e ricamar / a cucire e ricamare / fazzoletto del mio amor / l’è rivato ier di sera / con la corsa dei set or / l’è rivato ier di sera / con la corsa dei set or”. La seconda canzone, E lee la va in filanda, d’origine brianzola, è comune a tutta la Lombardia ed è il più noto dei canti di filanda: “E lee la va in filanda / lavorà, lavorà, lavorà / e lee la va in filanda / lavorà pel suo bel morettin. // E lee la va in giardino / coglie i fior, coglie i fior, coglie i fior, / e lee la va in giardino / coglie i fior pel suo bel morettin. // E lee la va in cantina / cavà el vin, cavà el vin, cavà el vin, / e lee la va in cantina / cavà el vin pel suo bel morettinn. // O morettino mio / morirai, morirai, morirai, / o morettino mio / morirai sotta ai roeud del tranvai. // O morettino mio / morirai, morirai, morirai, / o morettino mi / morirai con le pene nel cuor”.

 

E’ possibile ascoltare anche su Youtube, nell’interpretazione di Nanni Svampa, molti canti di filanda dell’area milanese. La Macina di Mogliano, nell’interpretazione di Gastone Pietrucci ha pubblicato sempre su Youtube un collage di Canti Minori sulla Filanda Jesina.

 

Il repertorio dei canti dedicati al lavoro delle mondine è sconfinato: Giovanna Daffini – Amore mio non piangere.wmv, o macchinista getta carbone, Coro Mondine. Mondine di Novellara, Se otto ore vi sembran poche.wmv, sebbene che siamo donne, Giovanna Daffini – Sciur padrun da li beli braghi bianchi.wmv.

 

Ricordare il lavoro delle mondine e delle filandere con i loro canti di protesta e di struggente malinconia, è un bel modo per festeggiare il primo maggio, la festa dei lavoratori e del lavoro.

Errata Corrige. Nell’articolo dedicato alla coltivazione del gelso, all’allevamento dei bachi da seta, alle filande e alle tessiture, gli autori del libro, la Brianza in un secolo di Storia Italiana 1848- 1945, Toti Editore, Milano, 1980, sono Emilio Diligenti e Alfredo Pozzi.

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