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Giovanna Legatti – Storie di donne, vere non inventate.

Fonte internet

Fonte internet

Tra i materiali messi in una busta da Giovanna Legatti ce ne sono alcuni davvero preziosi, tanto che ho deciso di pubblicarli. Sono scritti a mano con una grafia non sempre comprensibile. Fanno tenerezza i fogli utilizzati. Hanno in alto a sinistra la stampigliatura “Cooperativa della Tipografia a scuola”, così si chiamava agli inizi quello che sarà poi il Movimento di Cooperazione Educativa. Sempre in alto, ma a destra è riportata la sede: Fano, via del Ponte, con il numero di telefono. Sono veline, fogli sottili, ingialliti con il tempo. Raccontano storie di donne prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, le angherie subite e le violenze commesse ai loro danni. Il titolo che ho dato all’articolo è lo stesso che ho trovato nelle minute. Non ho aggiunto nulla di mio. Ho solo riordinato il materiale e corretto alcuni testi, scritti di getto con un italiano vicino alla lingua parlata.

 

Il sillabario

 Il racconto che segue mi è stato riferito da alcuni testimoni. Era il 1930. La figlia di un ortolano che abitava a * frequentava la prima classe elementare e, in un tempo in cui il libro o il giornale rappresentavano un lusso per i cittadini di serie B, la bambina in questione godeva molto nell’osservare le illustrazioni del suo sillabario in cui ogni figura corrispondeva a una lettera dell’alfabeto: A come albero, B come barca, C come cavallo, e così via. Era questo il metodo con il quale allora s’imparava a leggere e scrivere. Un giorno arriva alla lettera L che era rappresentata da un superbo leone. Era incantata ad ammirare la figura maestosa del leone, quando arriva il padre ortolano per niente interessato a ciò che colpiva l’attenzione della bambina. Le strappa il sillabario dalle mani, ritenendola in ozio perché non era intenta alle faccende domestiche e le dice: Per una donna è anche troppo arrivare al leone e aggiunge: una femmina meno ne sa e meglio è” (Luigi Olivi).

Proibito leggere.

“Le zitelle orfane e le figliuole pericolanti ricevute nel Conservatorio di Senigallia, per ordine dell’eminentissimo e reverendissimo cardinale Bernardino Honorati dovevano attenersi a quello che era scritto all’articolo XII riguardante la lettura dei libri. Si scriveva che nessuna donna doveva tenere libri se non quelli spirituali e se qualcuna ne teneva di altri poteva farlo solo su licenza del confessore o della superiora. Si aggiungeva che se una voleva imparare a leggere doveva farlo o nell’ora della ricreazione o in qualche altro tempo mai nel giorno di festa. L’articolo terminava dicendo che si permetteva di imparare a leggere, si proibiva altresì di imparare a scrivere senza la licenza dell’arcivescovo. L’esperienza insegnava che scrivere era di grave pregiudizio per le fanciulle”.

“Questi ostacoli all’emancipazione della donna nell’istruzione nascono da lontano. Nel VII sec. A. C. era largamente condiviso il detto che chi insegnava l’alfabeto a una donna, forniva il veleno a un terribile serpente. Si aggiungeva anche che la donna che imparasse l’alfabeto era permettere che affilasse una spada intinta nel veleno perché un giorno potesse essere scagliata”.

Il cardinale Bernardino Honorati (Jesi, 17 luglio 1724 – Senigallia, 12 agosto 1807) fu vescovo di Senigallia dal 1777 al 1807 e proprio durante il suo mandato promulgò le “Costituzioni per il Venerabile Conservatorio delle zitelle orfane”, istituzione caritatevole nata nel 1781 e chiusa nel 1962 per le mutate condizioni socio economiche. Dalla propria tesi di laurea sul Conservatorio di via Pisacane in Senigallia, Gemma Scarponi ha ricavato il testo teatrale “Come quando il gallo canta”, presentato per la prima volta presso l’auditorium San Rocco di Senigallia, mercoledì 7 dicembre 2016. Lo spettacolo è stato replicato a Serra de’ Conti giovedì 20 luglio 2017. Istituzioni predisposte al recupero di ragazze madri erano molto diffuse in Italia dalla seconda metà del milleottocento, soprattutto in quelle aree geografiche raggiunte dalla prima industrializzazione.

Leggere quanto era scritto nelle Costituzioni del Conservatorio per le zitelle e per le ragazze pericolanti, oggi ci lascia perplessi. Le ospiti potevano solo leggere libri di devozione. L’istituzione era interessata alla loro integrità morale. Forniva insegnamenti utili per un futuro da trascorrere in casa come madri amorevoli e spose sottomesse ai propri mariti. La carità prevaleva sulla giustizia. Ci sono voluti due secoli per capirlo e alcuni testimoni che l’hanno messo in pratica. La carità senza la giustizia è una truffa, scriveva don Milani. La chiesa di allora, con i limiti che oggi riconosciamo, assolveva un compito che doveva essere assunto dallo stato. Le classi al potere avevano ben altro da pensare che ai bisogni delle classi disagiate o alla diffusione della cultura tra le classi popolari.

Il lavoro della donna fuori di casa, come operaia in fabbrica, impiegata, libera professionista, era osteggiato e fino a poco tempo fa anche da tutti quegli uomini che, pur dicendo di essere progressisti, iscritti e militanti in partiti di sinistra, ritenevano che alla donna dovesse stare in casa e fare i lavori domestici. Accettavano tutt’al più che la donna potesse anche lavorare ma nell’ambito di una piccola azienda a conduzione familiare, condotta sempre dal marito. Le scelte fatte dagli amici pesavano anche sulle proprie in una sorta di condizionamento generalizzato. Quali erano le cause di questa chiusura? Le donne che lavoravano, portavano a casa lo stipendio. Sminuivano in questo modo l’autorità del marito che si poneva come custode e arbitro di tutto. Il lavoro della donna fuori di casa non si conciliava con quello di madre e di moglie. La donna, sul lavoro, alla presenza degli uomini era facile bersaglio delle loro mire. C’era in queste posizioni un misto di gelosia accompagnata dalla convinzione che l’indipendenza economica della donna li privasse di un ruolo che pensavano appartenesse solo a loro, quello di essere l’unica guida della famiglia perché portavano a casa lo stipendio. La mentalità non è del tutto scomparsa, anzi è dibattuta anche in convegni la cui organizzazione costa cifre da capogiro. Molti insomma vorrebbero riportare indietro la storia di cent’anni.

Mia madre e la scuola.

“Mia madre si chiamava Mari Emilia. Era nata il 27 settembre del 1897. Era la primogenita di una famiglia di contadini poveri, condizione comune a grandissima parte dei lavoratori della terra. Come in tutte le famiglie contadine di quei tempi, i bambini ancor prima dell’età scolare erano impiegati nei vari lavori in casa e anche nei campi. Mia madre non faceva eccezione alla regola. Anche per lei venne il tempo della scuola e benché allora la frequenza non fosse assolutamente obbligatoria, per i figli di contadini andare a scuola significava non lavorare nei campi, trascorrere parte della giornata con altri coetanei con i quali si poteva anche giocare, per cui la scuola era un luogo e un tempo desiderato. Mia madre portava alle orecchie, forse dono di battesimo, di cresima o eredità familiare, un paio di piccoli orecchini d’oro con pietra di colore celeste. Rappresentavano per lei un grande tesoro, ma anche tra i ragazzi di allora ce n’erano di poco raccomandabili. Un brutto giorno, forse durante i giochi che i ragazzi erano soliti fare prima dell’ingresso a scuola o all’uscita, le furono rubati gli orecchini. I genitori rimasero indignati e decisero di non mandare più la figlia a scuola. Questa decisione addolorò molto mia madre ma data l’età non tardò a dimenticare il dispiacere che il divieto paterno le aveva causato. Raggiunta la giovinezza, l’antico dispiacere tornò a farsi sentire perché non saper leggere e scrivere voleva dire non poter comunicare con chi viveva lontano. Il padre le insegnò a fare la propria firma ma, data la poca dimestichezza con la penna, la firma occupava gran parte del foglio. Mia madre si arrese e continuò a firmare con la croce, un segno ineguaglianza umana e vergogna per la società. Dopo la seconda guerra mondiale, una maestra le propose di partecipare a un corso serale di recupero. Mia madre si vergognava, data l’età, a ritornare sui banchi di scuola. Così, nei lunghi e tristi giorni della vecchiaia non le fu nemmeno concesso il piacere di leggere un libro o la gioia di comunicare con amici e parenti lontani per mezzo di una lettera senza l’intervento di altre persone” (Licia Lucarelli).

Ricordi di guerra

Poco dopo la Liberazione, il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) di Senigallia mi nomina assessore alla Pubblica Sicurezza e alla Sanità, allora abbinati. In città non c’era ancora il commissariato di Pubblica Sicurezza. Il sindaco svolgeva solo la funzione di delegato alla pubblica sicurezza. Non so quale fosse il motivo. Fatto sta che questa funzione fu data a me. In questa veste conobbi molti fatti che accadevano in città. Ne ricordo uno in particolare che a distanza di anni mi riempie l’animo di tristezza.

Un giorno si presentò nel mio ufficio una donna di campagna di mezza età. Era con la figlia, una ragazzina sui quattordici o quindici anni per firmare delle carte. La madre mi racconta subito perché fosse lì. Un ragazzo della sua contrada fa la corte alla ragazza che lo respinge. Il ragazzo, per vendicarsi, denuncia alla Polizia Militare che la casa della ragazza è frequentata da militari alleati che circolavano con la scritta Militare Police portata al braccio. La Polizia Militare, quella vera, fa una retata in diverse case già segnalate che ricevevano a diverso titolo soldati alleati.

Porta le donne arrestate in Ancona alla visita Celtica, compresa la ragazzina risultata nubile. Come avveniva questa visita? Facevano spogliare le ragazze in un camerone, poi una alla volta le facevano sdraiare su un lettino ginecologico per sottoporle all’esame. Quest’operazione è traumatizzante anche per una donna adulta. Ho ancora impresso, dopo tanti anni, lo sguardo angosciato e pieno di rancore della ragazzina. La guerra è anche questo. Gli storici registrano gli avvenimenti con le date ma la storia non è solo questo. Per la povera gente è sempre guerra. Nella veste di assessore alla Sanità mi recavo ogni giorno dall’Ufficiale Sanitario per firmare carte o per prendere visione di circolari. Un giorno mi comunicò con molta preoccupazione che il 18% della popolazione locale adulta era affetta da malattie veneree, dalla blenorragia alla sifilide. Anche questo è la guerra.

Una sera, un maggiore inglese m’invita a una loro festa. Non potevo non andare. Premetto che non so ballare né bevo. La festa si svolgeva nei locali dell’ex collegio Pio IX, in piazza Garibaldi. Per la prima volta ascoltai il boogie – woogie, una musica orribile. La luce della sala era fioca perché il voltaggio era basso per tutta la città. Dopo meno di un’ora ringraziai il maggiore per l’invito e chiesi congedo. Per uscire dovevo attraversare due stanze e una rampa di scale. Non sapevo dove mettere i piedi. Ovunque trovavo delle coppie. Non sono mai stato un moralista ma ricordo quel periodo con disgustosa tristezza. Anche questo è la guerra. Ecco perché dal 1946 sono stato sempre tra quelli che hanno lottato e lottano per la pace nonostante le derisioni ricevute da tanti benpensanti” (anonimo).

Le memorie di Giulietta

“Giulietta, rimasta sola, vecchissima, stava sempre, specie durante la buona stagione, sul balcone della sua villetta. Cercava di parlare con chiunque fosse disposto ad ascoltarla. Un giorno mi chiamò con la scusa di trovarle un artigiano per alcune riparazioni in casa, che non potevano essere dilazionate ancora. Capii subito che più dell’artigiano desiderava parlare con qualcuno. La solitudine è sicuramente la peggiore malattia della vecchiaia. Era nata all’inizio del mille novecento in un paesino, all’interno delle Marche.

Raccontava della sua miseria e di altra gente che viveva in paese. Attorno ai quattordici anni fu inviata, con una lettera di raccomandazione scritta dal parroco del suo paese, a servizio presso un signore di Senigallia. L’accoglienza fu cordialissima. Giulietta raccontava che il signore le disse: ma come fai a lavorare con quelle manine così delicate, – stia tranquillo, rispose Giulietta, che al lavoro ci penso io.

Invece di ospitarla in casa, dove avrebbe dovuto sbrigare le faccende, la mise all’albergo Roma, che si trovava allora dove oggi c’è il Liceo Classico e la biblioteca Antonelliana. Il signore non si fece vedere per qualche giorno, poi andò a trovarla con alcuni suoi amici. Le disse di non preoccuparsi per il lavoro, intanto era bene che si riposasse, del lavoro ne avrebbero parlato in seguito.

Giulietta, quando mi raccontava commossa questi avvenimenti, aveva novant’anni. Nella sua mente, fingeva di non ricordare il mestiere fatto, ma ormai benestante, forse la sorte che le era toccata era stata meno triste se fosse rimasta a pascolare le pecore nel suo paese” (Olivi).

Una storia triste.

“Il padre di A muore per un incidente sul lavoro, cadendo dall’armatura, dopo il terremoto del mille novecento trenta”.

Il terremoto fu del sesto grado della scala Richter. Sconvolse Senigallia e tutte le Marche Settentrionali. Il sisma causò diciotto morti, quattordici a Senigallia e quattro in Ancona. Molti furono i feriti. Ingenti furono i danni. Crollarono trecento diciotto case o divennero inabitabili e duemila furono gravemente lesionate. Crolli e lesioni gravi furono segnalati a Montemarciano, Mondolfo, San Costanzo, Fano, Ancona. Altre quaranta località subirono danni rilevanti.

La famiglia di A non ricevette nessun aiuto a seguito della morte dell’uomo. La povera madre ottenne dalla carità pubblica l’internamento di una sua figlia, A appunto, nel Conservatorio delle orfane. Il personale di servizio, almeno a quei tempi, era reclutato fra gente di scarsa educazione morale e civile. Uno di questi fu accusato di violenza sulla quasi bambina A. Qualche tempo dopo, le autorità vennero a conoscenza dell’episodio. La colpa, ieri come oggi, ricadde sulla ragazza che fu espulsa dal Conservatorio – Orfanatrofio. Si avvicina la guerra. I tempi sono difficili, soprattutto per chi è povero. La povera A finisce sul marciapiede. Giulio ed io avevamo conosciuto A quando, ancora bambina, prima dell’internamento, veniva ad ascoltare musica a scuola. Finita la guerra, rincontrai A senza riconoscerla. Lei si ricordò invece, quando ancora bambina veniva a sentire suonare. Si ricordò di me e di Giulio che avevamo il posto vicino alla porta della scuola. Giulio era morto. Io ero stato costretto a fuggire e non ero in grado di aiutare nemmeno me stesso. A era disperata. Poco dopo si uccise” (Olivi).

La storia è di una tristezza senza fine e di una attualità sconvolgente. Una ragazza di ventiquattro anni, il cinque marzo di quest’anno, ha denunciato di essere stata violentata da tre giovani nella stazione di San Giorgio al Cremano, lungo il tratto della Circumvesuviana. Il Tribunale del Riesame di Napoli, dopo alcuni giorni di arresto, ha rimesso in libertà due dei tre giovani, presumibilmente per mancanza di gravi indizi o di colpevolezza a loro carico. L’amarezza della ragazza ha fatto il giro di tutti i media. E’ stata interrogata per ore dalla polizia, dai magistrati e dagli psicologi. Ha cercato di dare il massimo contributo. Se avesse saputo che la propria deposizione avrebbe avuto questo corso, non avrebbe esposto nessuna denuncia. Questo è stato il suo sfogo. Al momento non si sa quale sarà l’esito di tutta la vicenda. C’è solo da chiedere quasi un intervento dall’alto: “E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / Oh! D’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male!” (G. Pascoli  X agosto). La violenza sulle donne è un crimine tra i più mostruosi.

Clorinda.

Tra i testi raccolti nella busta da Giovanna Legatti mentre frequentava l’Unitre di Senigallia, ce n’è uno slegato nelle parti che lo compongono. Non c’è il nome di chi l’ha scritto. Si tratta più di appunti. Ho scelto solo alcune parti del racconto ma non l’unità perché non ne ha. La donna che racconta gli episodi viene dall’entroterra. Nel testo si parla di Sant’Urbano, paese dell’alto Jesino e della propria famiglia di origine: “In famiglia eravamo in tredici per quattro camere, dormivamo in quattro per ogni letto”. Alcuni membri della famiglia si trasferiscono a Senigallia, molto probabilmente, dopo la seconda guerra mondiale. Si parla, infatti, dell’arrivo dei tedeschi ad Apiro e nei luoghi circostanti, come ricordi di tempi passati. Nella città costiera si stabiliscono anche altri che vengono da Frontale, frazione di Apiro. Nel 1905, Clorinda, la donna di cui si parla nel testo, è ancora una signorina. Ama ballare e una volta trasferitasi a Senigallia non spezza i legami con la propria terra d’origine. Mette alla finestra il quadro di San Giovanni, datole dal prete perché questi temeva che a Sant’Urbano fosse rubato dai ladri. Il santo poi dispensava grazie e miracoli ai suoi devoti.

I ricordi della vita nella casa colonica sono nitidi: “Il pane veniva fatto con la farina bianca. Ogni infornata doveva bastare per otto giorni. Mangiavamo la carne solo quando eravamo ammalati, alcune volte si comprava lo stoccafisso o il baccalà. Nelle case non c’erano furti. Tutto cambia con l’arrivo dei tedeschi. Chiedevano se avevamo il cavallo. Rispondevamo di non averlo perché, abitando vicino al paese, non ne avevano bisogno. I Tedeschi fucilavano tutti gli uomini che trovavano. A casa mia gli uomini si erano nascosti perché i tedeschi, se li avessero trovati, li avrebbero portati via. Una volta, per poco non mi ammazzarono Peppe, uno dei miei figli. Non aveva ancora quindici anni. Ammazzarono invece un altro ragazzo. Mio figlio che era andato per la campagna insieme ad un suo amichetto a caccia di nidi, fu allontanato con il suo amico dal comandante tedesco”.

 

Il lavoro da contadina ritorna nel ricordo di un episodio. Ho dovuto ricostruire il testo, mettendo il verbo alla terza persona: “Le due mucche guidate dal contadino, piegato sulle manichette dell’aratro inferrato, non bastavano ad aprire i solchi sul terreno. Ad esse si aggiungono altre due mucche guidate dal garzone e legate alle prime due. Era la stroppa o vetta, il traino di un mezzo agricolo con più bestie da lavoro. Improvvisamente il cielo diventa nero come la pece. Si scatena un grosso temporale. Un fulmine caduto poco lontano brucia le morse e i finimenti che legavano tra loro le bestie all’aratro. Gli animali si imbizzarriscono e corrono a perdifiato verso casa. La scena è vista dall’alto della collina dal fratello di Clorinda. Si precipita sul luogo, gridando cosa fosse successo. Stando lontano non aveva avuto chiara la percezione di tutto l’episodio. Aveva visto solo le mucche fuggire come se fossero impazzite, le donne che gridavano, il ragazzo che guidava la stroppa scappare terrorizzato per i campi”.

E’ un quadretto di vita materiale che ho voluto mettere perché comune a mille episodi che attraversavano un tempo, le nostre campagne, quando il lavoro del contadino era fatto quasi tutto a mano e con l’aiuto delle mucche o dei buoi. Aratri, erpici, birocci, un tempo erano gli strumenti di lavoro più comuni nelle campagne. Tra tutte le parti meccaniche del biroccio, quella più importante e da controllare periodicamente era la martinicca, un elementare freno  a mano. Una lunga fune permetteva di tirare una leva. Quest’ultima agiva su un rullo attorno al quale si avvolgeva una catena che comprimeva i cerchioni delle ruote. Se la fune si spezzava, specie in discesa, succedeva il disastro. Le mucche non riuscivano a tenere il carico e il biroccio, pesante anche mezza tonnellata, si rovesciava di fianco. Oggi la meccanizzazione agricola ha trasformato il paesaggio agrario. Ma il ricordo del biroccio tramanda una vita grama, fatta di stenti, di miseria e solitudine. Oggi, tanti esemplari di birocci marchigiani è possibile ammirarli nel “Museo del biroccio” di Filottrano, voluto tenacemente dall’ing. Glauco Luchetti; a lui si deve la splendida collezione.

Raimondo Giustozzi

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