di Alessandro Gilioli *
Ieri il leghista Claudio Borghi ha proposto ironicamente di spedire i 47 migranti della Sea Watch in un lussuoso Club Med sulle coste della Tunisia, mostrandone con una mappa la vicinanza al punto di mare in cui sono stati soccorsi.
Nulla di strano, né di nuovo: il linguaggio dell’attuale potere è tutto fatto di irrisione, cattivismo e scherno, insomma siamo in piena continuità con la “pacchia”, i “palestrati” e i “bacioni” di Salvini.
È questa l’egemonia culturale del presente, espressione diretta del governo gialloverde e della caccia al consenso basata sulla canalizzazione della rabbia sociale nei confronti dei migranti. È questa la moneta comune dell’oggi, che ogni giorno si autoalimenta: più i leghisti indicano nei migranti il nemico, più si diffonde l’odio verso i migranti stessi; e più si diffonde l’odio verso i migranti, più i leghisti rincarano la dose per incrementare il proprio consenso.
In questo penoso scenario, tuttavia, l’aspetto più interessante – parlando da analisti della politica – è la posizione del Movimento 5 Stelle.
Il M5S, dalla fondazione, non era mai stato xenofobo né aveva posto la questione delle migrazioni al centro del suo programma, in una direzione o nell’altra.
Non che facesse dell’accoglienza una propria battaglia, ma aveva posizioni sfumate e controverse. Ad esempio, nel 2013 depositò una proposta di legge sullo Ius Soli molto avanzata, perfino migliore di quella del Pd che poi naufragò a fine legislatura. Per contro, Grillo sul suo blog parlava di “sacri confini della patria”.
Ma – appunto – non era questione centrale del programma grillino che si fondava su ben altre colonne: l’ambientalismo e le rinnovabili, la democrazia diretta, la fine dei privilegi dei politici, l’attenzione al precariato etc.
Sull’immigrazione – come si dice in politichese – nel Movimento 5 Stelle c’erano “sensibilità diverse”.
Il suo essere privo di ideologie, portato alle conseguenze estreme, li rendeva privi anche di una visione sistematica: quindi erano assai assertivi nelle loro battaglie verticali (quelle suindicate) ma incerti e tiepidi se non disinteressati su molto del resto, compresi fra l’altro i diritti civili.
Così si è arrivati al Contratto di governo, dove la questione dell’immigrazione è solo al punto 13, il terzultimo.
In altre parole: nemmeno allora i grillini pensavano che questa sarebbe diventata la questione fondamentale su cui il governo si sarebbe caratterizzato mediaticamente (e non solo). La questione che avrebbe “dettato l’agenda”, come si dice sempre in politichese.
Fra l’altro, nel Contratto non si accennava all’ipotesi di chiudere i porti, ma si scivolava tra il contrasto al business e la revisione del Trattato di Dublino, ponendo semmai più direttamente la questione dei rimpatri, che poi col tempo si è rivelata inapplicabile.
Nel tempo si è anche vista la straordinaria maestria mediatica con cui Salvini ha imposto la questione delle migrazioni come centrale, fondamentale, peraltro raccogliendo frutti in un terreno su cui in molti avevano già seminato prima, dalle trasmissioni di Del Debbio ai decreti di Minniti.
Adesso siamo finiti qui: con il M5S incerto se inseguire Salvini al punto di rinnegare i suoi fondamentali principi, cioè opponendo l’arrocco della politica nel suo Palazzo alle richieste della magistratura, accettando il principio che un potente, al contrario dei normali cittadini, può difendersi dal processo anziché nel processo.
Ma questa è solo l’ultima tappa di un percorso che dura da un anno.
Il percorso che ha visto la Lega dilagare con la sua ideologia xenofoba e razzista; e il M5S abbozzare, accettare, poi emulare ed inseguire (ricordate i “taxi del mare” di Di Maio?) insomma farsi complice alla fine dell’egemonia culturale xenofoba, chiusa, incivile, a tratti perfino inumana che ci ha portato oggi al linguaggio derisorio e beffardo verso chi è in balia del mare da settimane dopo aver attraversato il deserto e subito indicibili torture.
In termini astratti – cioè senza entrare nel contenuto politico – la conclusione è che quando un partito con un’ideologia incontra un partito senza un’ideologia, quello senza un’ideologia è morto.
Detta altrimenti: se non hai un sistema di valori “giusto” da opporre a quello “sbagliato”, ti mangiano.
Vale oggi per il M5S sulla questione migranti come è valso per il Pd e la sinistra sulle questioni economico-sociali, quando per trent’anni ha emulato i liberisti trovandosi infine vuoto, senza identità – e senza voti.
In termini contenutistici la resa culturale del M5S allo stronzismo della Lega è una delle pagine più tristi della pur ricca storia di derive italiane.
Così com’è assai triste il pavido silenzio del medesimo movimento sul revanscismo patriarcale e ultrà cattolico con cui i suoi sodali Fontana e Pillon vorrebbero cancellare mezzo secolo di conquiste di diritti civili. E più in generale è tristissima l’acquiescenza nei confronti di questa nuova egemonia culturale di estrema destra. Acquiescenza che a volte diventa compartecipazione, come nel caso delle allucinanti posizioni antisemite dell’onorevole Lannutti su cui i vertici grillini non hanno ritenuto di prendere posizione (per molto meno, un partito che vuol dirsi civile fa partire un’immediata pratica di espulsione).
Fino a due o tre anni fa (non un secolo) il Movimento 5 Stelle aveva tra i propri numi tutelari anche Dario Fo, Stefano Rodotà e Gino Strada. Oggi con Strada siamo agli insulti reciproci, Fo e Rodotà purtroppo non sono qui a poter dire la loro.
Chissà se è per pavidità, per potere o per assenza di una visione sistematica che così tanto è cambiato da quando il M5S si ispirava a loro tre, o a Occupy Wall Street, e l’eurodeputato Corrao da Bruxelles mi diceva che loro erano il Podemos italiano.
* da Piovono Rane – L’Espresso
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