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Recanati. “Mock’ n’ troll: satira, bufale e altri comfort”. Domenica 3 febbraio ore 17,00 incontro con “Lercio”: la verifica è un optional.

Foro internet

Foro internet

Il 23 gennaio del 2013, sulla pagina facebook di Repubblica XL apparve una notizia un po’ strana. A causa di un errore nel sistema operativo di Radio Maria, diceva il post in questione, l’emittente ha trasmesso per errore alcune canzoni dei Megadeth, dei Cannibal Corpse e dei System of a Down – pezzi non esattamente nel solco della linea editoriale della radio cattolica – che si trovavano nella chiavetta USB di un dipendente. Nel post, come è abitudine consolidata di Repubblica, non viene citata la fonte della notizia.

Se l’autore del post in questione avesse contraddetto la consolidata abitudine di Repubblica e avesse cercato la fonte originale di quella strampalata notizia, quel post non l’avrebbe pubblicato. Perché quella notizia viene dalle pagine del Lercio.it, un blog collettivo di satira giornalistica nato nel 2012 e in forte ascesa negli ultimi mesi. Quella notizia era un fake, una notizia che non lo è mai stata, una cosa che nel mondo anglosassone si chiama hoax, o prank, e sta per presa in giro, scherzo o, giornalisticamente parlando, bufala.

Le notizie che non lo erano sono una da sempre una costante nel giornalismo, in tutto il mondo. E chiaramente l’Italia non fa eccezione, soprattutto per la cattiva abitudine di non controllare la veridicità delle fonti – quella cosa che ora si chiama, con un anglicismo elegante, fact-checking, ma che da sempre è parte fondamentale del lavoro del giornalista. E così, le «notizie che non lo erano» sono talmente certe, frequenti e regolari che per molti è diventato una specie di rito la lettura della rubrica omonima, curata dal 2007 da Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, sulle pagine della Gazzetta dello Sport.

Fonte internet

Fonte internet

Non è il caso di fare gli ingenui, però, non c’è niente di cui stupirsi. E nemmeno è il caso di dare la colpa alla rete, a quest’internet che ad ascoltare qualcuno avrebbe mutato antropologicamente sia i lettori che gli autori. Non è vero. E a dimostrarlo è un’indiscutibile verità: la storia delle bufale giornalistiche è lunga all’incirca quanto la storia del giornalismo.

L’elenco delle testate che, ben prima del Lercio, si sono cimentate nello splendido esercizio intellettuale della parodia giornalistica è tanto lungo e la pratica in questione è tanto consolidata che si merita il battesimo tassonomico di un’etichetta, magari anglofona, che fa più figo. Usando una crasi incompiuta del verbo to mock (che in italiano significa prendere in giro, perculare) e del sostantivo journalism potremmo chiamarlo mock journalism.

Due storielle delle origini

A Boston, nel 1722, usciva un giornale intitolato The New England Courant. Sulle sue pagine venivano pubblicate delle lettere scritte da una vedova di mezza età con tre figli a carico che si firmava Silence Dogood. Erano lettere che attaccavano il malcostume della città, lo sfruttamento delle donne, l’alcoolismo dilagante e che fecero diventare la signora Dogood una mezza celebrità, tanto che qualche lettore avanzò addirittura delle proposte di matrimonio per la povera vedova.

 

Ma dietro quella firma strampalata non c’era una vedova, e non c’era neppure una donna. Dietro quello pseudonimo si nascondeva il fratellino dello stampatore, che recapitava le lettere di notte al fratello maggiore lasciandole sotto la porta. Il nome del ragazzino, che all’epoca aveva 16 anni, era Benjamin Franklin. Negli anni successivi sarebbe diventato uno dei padri fondatori degli Stati uniti d’America.

Un’altra storia: più di un secolo dopo, il 4 ottobre del 1862, sulle pagine del Territorial Enterprise, il più importante quotidiano del Nevada, venne pubblicato un articolo che raccontava della scoperta di un uomo pietrificato. La notizia, naturalmente falsa, fece scalpore e venne presa molto sul serio, tanto che venne ripresa nei mesi a venire su molti quotidiani americani e non, arrivando – a quanto si dice – fino al vecchio continente, sul London Lancet.

«A petrified man was found some time ago in the mountains south of Gravelly Ford». L’articolo cominciava così ed era corredato un’illustrazione, visot che all’epoca la teconolgia fotografica era ancora ferma ai dagherrotipi. La firma, in fondo all’articolo, era quella di un nuovo collaboratore del giornale, arrivato l’anno prima dalla Florida, un ragazzo di 27 anni che aveva accettato quel posto da giornalista dopo aver tentato senza successo di lavorare per una miniera. Il suo nome era Samuel Langhorne Clemens, ma per la Storia della letteratura, il suo nome sarà per sempre Mark Twain.

Tempi moderni

Facciamo un altro salto nel tempo. Un altro secolo abbondante dopo l’uscita dell’articolo dell’uomo pietrificato, più esattamente nel 1988, due ragazzi che frequentavano l’Università del Wisconsin-Madison, Tim Keck e Christopher Johnson, fondarono una pubblicazione satirica e la chiamarono, su suggerimento dello zio di uno di loro, The Onion. Negli anni successivi la pubblicazione crebbe e si espanse. Venne fondato un sito internet, nel 1996, e The Onion divenne sempre più popolare. Ora è un vero e proprio punto di riferimento del settore.

La caratteristica identitaria che ha reso The Onion un prodotto di culto, anche in rete, è la capacità di pubblicare contenuti talmente ben confezionati da essere presi sul serio, sia da qualche lettore, sia da qualche improvvido giornalista. Esempi non ne mancano, e tra le vittime c’è anche il Corriere della Sera, che nel febbraio del 2010 pubblicò, prendendola per vera, la notizia che la Danimarca aveva puntato, per rilanciare il turismo, su alcuni strazianti cortometraggi affidati alla regia di Lars Von Trier. Ma tra le vittime di The Onion ci sono quotidiani di tutto il mondo.

Nel 2002 il Beijing Evening News prese per vera una notizia il cui titolo era «Il Congresso minaccia di lasciare Washington D.C. se non verrà costruito un nuovo Campidoglio». Nel 2006 la televisione danese TV2 ripubblicò nella sezione gossip la notizia «Sean Penn vuole sapere chi è lo stronzo che si è preso l’indirizzo seanpenn@gmail.com». E se alcune volte finisce tutto in risate, altre volte The Onion è stato costretto a chiedere scusa. Come dopo gli Oscar dell’anno scorso, quando in un tweet definirono una ragazzina di 9 anni «a cunt» (in italiano testa di cazzo o troia) dovendo poi chiedere ufficialmente scusa.

Di siti come The Onion ne esistono moltissimi in tutto il mondo, e in molti si sono resi protagonisti di dinamiche simili a quelle fin qui raccontate. Un ultimo esempio francese, prima di tornare in Italia. Le Gorafi, anagramma di Le Figaro, che si fece conoscere anche in Italia per aver perculato l’agenzia di stampa italiana Ansa, che pubblicò prendendola per vera questa notizia: «L’89% degli uomini francesi pensano che il clitoride sia un modello di Toyota». A dimostrazione di quanto il fact-checking sia un’attività poco diffusa, questa strampalata notizia – vogliamo dire “stronzata”? diciamolo pure – venne ripresa, tra gli altri, dal Corriere della Sera e da Il Giornale.

La satira e la parodia sono generi letterari che hanno radici antichissime e, a differenza di quel che si può credere, non sono generi di puro intrattenimento, non sono conservativi della realtà che prendono di mira. Al contrario, sono generi di rottura, di critica, di cambiamento: mostrando i paradossi e le contraddizioni del mondo, ne implicano il loro riconoscimento, un riconoscimento che sottindende una presa di coscienza, che è poi la prima tappa di qualsiasi tentativo di cambiamento dello statu quo.

La satira giornalistica non fa certo eccezione, almeno negli scopi. Il problema sorge quando questa non viene più capita dal pubblico, che la scambia con la realtà. Ed è quello che sta succedendo sempre più spesso negli ultimi tempi. Al di là delle cantonate prese da qualche giornalista maldestro, che rivelano – questa volta sì – i limiti di un baraccone che sta cadendo a pezzi e che sempre più spesso sembra aver perso la bussola, il ragionamento che dobbiamo fare, forse, riguarda anche il pubblico.

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