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Libri. Va’ dove ti porta il cuore

Fonte internet

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Va’ dove ti porta il cuore” è uno dei romanzi più conosciuti di Susanna Tamaro.  Pubblicato nel 1994, ha appassionato fin da subito lettrici e lettori di ogni età. Dal libro è stato tratto nel 1996 l’omonimo film diretto da Cristina Comencini e interpretato da Virna Lisi e Margherita Buy. Del romanzo sono stati venduti sedici milioni di copie in tutto il mondo.  E’ stato inserito fra i cento cinquanta “Grandi libri” che hanno segnato la storia d’Italia. L’elenco dei “Grandi libri”, stilato da una giuria di giornalisti e studiosi, è stato comunicato al Salone del Libro di Torino in occasione delle celebrazioni del 2011 per i cento cinquanta anni dell’unità d’Italia.

Susanna Tamaro, nata a Trieste nel 1957, vive a Orvieto. Suo è anche un altro romanzo: “Per sempre” (2011) che, nella forma del genere scelto, il romanzo epistolare, richiama il libro oggetto della presente recensione. Ambedue i libri sono un canto alla vita, pur nelle diverse sfaccettature che questa ci presenta nel corso della stessa. Gioie, dolori, sofferenze e la morte sono i nostri compagni di viaggio. Ci si accorge del cammino fatto, quando la vita che abbiamo davanti è estremamente più corta di quella che abbiamo vissuto: “Verso i sessanta, quando la strada alle tue spalle è più lunga di quella che hai davanti, vedi una cosa che non avevi mai visto prima: la via che hai percorso non era dritta ma piena di bivi, ad ogni passo c’era una freccia che indicava una direzione diversa; da lì si dipartiva un viottolo, da là una stradina erbosa che si perdeva nei boschi. Qualcuna di queste deviazioni l’hai imboccata senza accorgertene, qualcun’altra non l’avevi neanche vista; quelle che hai trascurato non sai dove ti avrebbero condotto, se in posto migliore o peggiore; non lo sai ma ugualmente hai rimpianto. Potevi fare una cosa e non l’hai fatta, sei tornata indietro invece di andare avanti” (Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore, pag. 63, Milano, Rizzoli, 2003).

Lessi il romanzo appena uscì in libreria. Era il 1994. Ero curioso di leggerlo perché un collega delle superiori ne aveva parlato con i propri studenti, facendone una presentazione a dir poco superficiale.  Secondo lui, il romanzo era il racconto di un’anziana signora, zoccola in gioventù, che racconta alla propria nipote lontana alcuni segreti della propria storia e quelli di sua figlia, zoccola anche lei, mamma della nipote che è in America per motivi di studio. “Il primo livello di sapienza è saper tacere, il secondo è saper esprimere molte idee con poche parole, il terzo è saper parlare senza dire troppo e male. Si deve parlare solo quando si ha qualcosa da dire, che valga veramente la pena, o, perlomeno, che valga più del silenzio” (Hernan Huarache Mamani). Troppi non amano per niente il silenzio. Trovai il libro molto bello. L’ho riletto in questi giorni dopo ventiquattro anni e lo trovo ancora più bello. Si sa che con il passare dell’età si riflette di più e si fanno anche dei bilanci della propria vita. Tutto il romanzo, scritto come una lunga lettera in forma di diario, ripercorre circa ottant’anni di vita: “Se mai arriverai a ottant’anni, capirai che a quest’età ci si sente come foglie alla fine di settembre” (pag.24). La destinataria di queste lettere è la nipote di chi scrive. Si trova lontana, in America per perfezionare i propri studi. Della nipote, che ha cresciuto fin da piccola, le rimangono una rosa e il cane Buck. La prima l’ha piantata nel giardino assieme a lei prima che partisse, il cane esce ed entra in casa quando vuole.

 

 

Il tempo nel romanzo

Le lettere scritte vanno dal 16 novembre 1992 al 22 dicembre dello stesso anno. La prima lettera riporta anche la località, dove è stata scritta: Opicina, un quartiere del comune di Trieste situato sull’altipiano del Carso. Il tempo usato nella narrazione è il presente, quando la nonna racconta alla nipote Marta che cosa sta succedendo in casa mentre scrive, come per ricordarle i luoghi dove lei è cresciuta. La nonna usa il passato quando parla della propria vita. La storia di Olga, questo il nome della nonna, s’intreccia con quella della grande storia. Non dice precisamente quando è nata, ma scrive: “Quando è scoppiata la rivoluzione d’ottobre (1917) io avevo sette anni” (pag. 176). Quando scrive, ha allora ottantadue anni. Si sposa il 1 giugno del ’40: “Dieci giorni dopo l’Italia entrò in guerra. Per ragioni di sicurezza, mia madre si rifugiò in un paesino di montagna, in Veneto, mentre io, con mio marito, raggiunsi L’Aquila” (pag. 117). Precisi anche se rapidi sono gli accenni al periodo fascista. Il tempo di nascita della propria figlia, Ilaria è il dopoguerra, quello della sua crescita e delle prime e violente ribellioni è il ’68: “C’era stato il maggio francese, le università occupate, il movimento studentesco” (pag. 58). Anche di questo periodo storico ci sono nel romanzo flash di rara bellezza. I tempi presenti, quelli che vive Olga sola nella propria casa, sono quelli della guerra nella vicina Iugoslavia: “La presenza di una guerra così vicina e così primordiale provoca in me un grande turbamento. Da quando è scoppiata vivo come una spina conficcata nel cuore. Da quando sono nata l’erba alta e gialla del Carso è stata attraversata da profughi ed eserciti vittoriosi o allo sbando: prima le tradotte dei fanti della Grande guerra con lo scoppio delle bombe sull’altipiano; poi lo sfilare dei reduci della campagna di Russia e di Grecia, gli eccidi fascisti e nazisti, le stragi delle foibe; e adesso, ancora una volta il rumore dei cannoni sulla linea di confine, questo esodo di innocenti in fuga dalla grande mattanza dei Balcani” (pag. 130).

I luoghi del romanzo

Sono quelli legati a Trieste, dove Olga ha vissuto la propria infanzia, l’adolescenza e il suo presente di nonna. Le pagine dedicate al Carso, l’altipiano poco lontano da Trieste, sono di rara bellezza: “Amo questo paesaggio e quest’amore forse mi impedisce di risolvere la questione, l’unica cosa di cui sono certa è l’influsso dell’aspetto esterno sul carattere di chi vive in questi luoghi. Se sono spesso così aspra e brusca, se lo sei anche tu, lo dobbiamo al Carso, alla sua erosione, ai suoi colori, al vento che lo sferza. Se fossimo nate, chessò, tra le colline dell’Umbria, forse saremmo più miti, l’esasperazione non avrebbe fatto parte del nostro temperamento. Sarebbe stato meglio? Non lo so, non si può immaginare una condizione che non si è vissuta” (pag. 132). E’ evidente il riferimento all’Umbria verde, dove Susanna Tamaro vive da anni.

Dal 1940 al 1945, gli anni della seconda guerra mondiale, la protagonista li ha vissuti a L’Aquila, la città di Augusto, il marito. “A L’Aquila andammo ad abitare nella casa della famiglia d’Augusto, un grande appartamento al primo piano di un palazzo nobiliare del centro. Vedendo quelle montagne così belle, quei paesi arroccati su cucuzzoli come nei presepi mi ero un po’ rasserenata, in qualche modo mi sembrava di non aver lasciato il Nord, la mia casa” (pag. 118).

Altro luogo descritto nei particolari è quello di Porretta Terme, dove Olga si reca su consiglio del medico per un periodo di cure termali. Qui incontra l’amore della sua vita, Ernesto, il vero padre di Ilaria: “Mi fermai alle terme tre settimane, in quelle tre settimane vissi di più e più profondamente che in tutto il resto della mia vita. Un giorno, mentre Ernesto era al lavoro, passeggiando per il parco pensai che la cosa più bella in quell’istante sarebbe stata morire. All’improvviso mi trovavo sulla cima di un monte, da poco era sorto il sole e davanti a me con sfumature diverse altri monti degradavano verso l’orizzonte; tutto era blu azzurrino, una brezza leggera sfiorava la vetta, la vetta e la mia testa, la mia testa e i pensieri dentro. Ogni tanto da sotto saliva un rumore, l’abbaiare di un cane, lo scampanio di una chiesa” (pag. 145).

La Trama del romanzo

Olga, nonna ultra ottuagenaria, dalla sua casa triestina, dove abita da sola, inizia a scrivere delle lettere alla nipote Marta, che vive in America. Terminato il Liceo, Marta chiede alla nonna di finanziarle il soggiorno negli Stati Uniti d’America, per completare i propri studi. La partenza della nipote lascia un grande vuoto attorno a Olga, per questo le scrive delle lettere. La corrispondenza epistolare è l’occasione per raccontarle la propria storia, rivelandole anche dei segreti di famiglia che ha tenuto sempre nascosti un po’ per pudore un po’ per vergogna.

Incipit del romanzo: “Sei partita e due mesi, a parte una cartolina nella quale mi comunicavi di essere ancora viva, non ho tue notizie. Questa mattina, in giardino, mi sono fermata a lungo davanti alla tua rosa. Nonostante sia autunno inoltrato, spicca il suo color porpora, solitaria e arrogante, sul resto della vegetazione ormai spenta. Ti ricordi quando l’abbiamo piantata? Avevi dieci anni e da poco avevi letto il Piccolo Principe. Te l’avevo regalato io come premio per la tua promozione. Eri rimasta incantata dalla storia. Tra tutti i personaggi, i tuoi preferiti erano la rosa e la volpe; non ti piacevano invece i baobab, il serpente, l’aviatore, né tutti gli uomini vuoti e presuntuosi che vagavano seduti sui loro minuscoli pianeti. Così una mattina, mentre facevamo colazione, hai detto: Voglio una rosa. Davanti alla mia obiezione che ne avevamo già tante, hai risposto: Ne voglio una che sia mia soltanto, voglio curarla, farla diventare grande. Naturalmente, oltre alla rosa, volevi anche una volpe. Con la furbizia dei bambini avevi messo il desiderio semplice davanti a quello quasi impossibile. Come potevi negarti la volpe dopo che ti avevo concesso la rosa? Su questo punto abbiamo discusso a lungo, alla fine ci siamo messe d’accordo per un cane” (Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore, pag. 15, 16, RCS Libri, Milano 2003).

Olga ha avuto, nel corso di una notte, un infarto. Se non fosse accorsa la moglie di Razman, un signore che abita vicino a lei, sarebbe morta e Marta sarebbe rimasta orfana della nonna: “Si dice così quando muore una nonna? Non ne sono proprio sicura. Forse i nonni sono considerati così accessori da non richiedere un termine che ne specifichi la perdita. Dei nonni non si è né orfani né vedovi. Per moto naturale non si lasciano lungo la strada così come per distrazione, lungo la strada, si abbandonano gli ombrelli” (pag. 18). Olga ha seguito la crescita della nipote dalla nascita fino all’adolescenza, trovandosi a fare da madre già in là negli anni, nell’età in cui si è di solito soltanto nonni. Questa esperienza le fa dire che “L’infanzia e la vecchiaia si somigliano. In entrambi i casi, per motivi diversi, si è piuttosto inermi, non si è ancora – o non si è più – partecipi della vita attiva, e questo permette di vivere con una sensibilità senza schemi, aperta. E’ durante l’adolescenza che comincia a formarsi intorno al nostro corpo un’invisibile corazza. Si forma durante l’adolescenza e continua a ispessirsi con l’età adulta. Il processo della sua crescita somiglia un po’ a quello delle perle, più grande e profonda è la ferita, più è forte la corazza che si sviluppa intorno. Poi però con il passare del tempo, come un vestito portato troppo a lungo, nei punti di maggiore uso inizia a logorarsi, fa vedere la trama, ad un tratto per un movimento brusco si strappa” (pag. 23). Quando la corazza della nipote si andava formando, quella della nonna era già a brandelli. “A ottant’anni – scrive la nonna Olga – ci si sente come foglie alla fine di settembre. I pensieri di un vecchio non hanno futuro, sono per lo più tristi, se non tristi, malinconici” (pag. 31- 32).

La nipote lontana la fa sentire vicino a sé, quando abitava con lei. Marta voleva andare in America per fare esperienza, per non perdere tempo, irritandosi con la nonna che la voleva vicino a sé: “Il massimo dell’irritazione l’hai raggiunto nel momento in cui ti ho detto che la vita non è una corsa ma un tiro al bersaglio. Non è il risparmio di tempo che conta, bensì la capacità di trovare un centro” (pag. 32). Anche Olga, da ragazza non aveva avuto un centro dentro di sé, di conseguenza non sopportavo di vedere all’esterno ciò che non aveva all’interno. Questa riflessione le fa venire in mente la propria famiglia e si pone anche delle domande: “Esiste uno spiraglio per liberarsi dal destino che impone l’ambiente di origine, da ciò che i tuoi avi ti hanno tramandato per via del sangue? Chissà. Forse nel susseguirsi claustrofobico delle generazioni a un certo punto qualcuno riesce a intravedere un gradino un po’ più alto e con tutte le sue forze cerca di arrivarci. Spezzare un anello, far entrare nella stanza aria diversa, è questa, credo, il minuscolo segreto del ciclo delle vite. Minuscolo ma faticosissimo, pauroso per la sua incertezza” (pag. 42).

La famiglia di Olga era di estrazione borghese, il padre dedito al commercio, la mamma chiusa dentro le quattro mura di casa: “Mia madre si è sposata a sedici anni, a diciassette mi ha partorito. In tutta la mia infanzia, anzi, in tutta la mia vita, non le ho mai visto fare un solo gesto affettuoso. Il suo matrimonio non era stato d’amore. Nessuno l’aveva costretta, si era costretta da sola perché, più di ogni altra cosa, lei, ricca ma ebrea e per di più convertita, ambiva a possedere un titolo nobiliare. Mio padre, più anziano di lei, barone e melomane, si era invaghito delle sue doti di cantante. Dopo aver procreato l’erede che il buon nome richiedeva, hanno vissuto immersi in dispetti e ripicche fino alla fine dei loro giorni. Mia madre è morta insoddisfatta e rancorosa, senza mai essere sfiorata dal dubbio che almeno qualche colpa fosse sua. Era il mondo a essere crudele perché non le aveva offerto delle scelte migliori. Io ero molto diversa da lei e già a sette anni, passata la dipendenza della prima infanzia, ho cominciato a non sopportarla. Ho sofferto molto a causa sua. Si agitava in continuazione e sempre e soltanto per delle cause esterne. La sua presunta «perfezione» mi faceva sentire cattiva e la solitudine era il prezzo della mia cattiveria. All’inizio facevo anche dei tentativi per provare a essere come lei, ma erano tentativi maldestri che naufragavano sempre. Più mi sforzavo, più mi sentivo a disagio. La rinuncia di sé conduce al disprezzo” (pag. 42- 43).

Estranea ai genitori, la piccola Olga, così come oggi scrive da nonna, si era rifugiata in un mondo tutto suo dove poteva fantasticare e sognare di dover fare da grande delle cose importanti. Le era riuscito soltanto di strappare al padre il permesso di frequentare il Liceo ma non l’università. “Non ne voleva sentire parlare, diceva che non serviva a niente, che, se proprio volevo studiare, era meglio che imparassi le lingue. Alla fine, però, la spuntai. Nel momento in cui varcai il portone del ginnasio, ero assolutamente certa di aver vinto. Mi illudevo. Quando alla fine degli studi superiori gli comunicai la mia intenzione di fare l’università a Roma, la sua risposta fu perentoria: «Non se ne parla neanche». E io, come si usava allora, obbedii senza neanche fiatare. Per mio padre, come per mia madre, i figli prima di ogni altra cosa erano un dovere mondano. Tanto trascuravano il nostro sviluppo interiore, altrettanto trattavano con rigidità estrema gli aspetti più banali dell’educazione. Dovevo sedermi dritta a tavola con i gomiti vicino al corpo. Se, nel farlo, dentro di me pensavo soltanto al modo migliore per darmi la morte, non aveva nessuna importanza. L’apparenza era tutto, al di là di essa esistevano soltanto cose sconvenienti. Così sono cresciuta con il senso di essere qualcosa di simile a una scimmia da addestrare bene e non un essere umano, una persona con le sue gioie, i suoi scoramenti, il suo bisogno di essere amata” (pag. 44- 45).

Olga cresce senza nessun affetto da parte dei genitori ma non per questo dice che i suoi erano dei mostri. No, per quei tempi, erano delle persone assolutamente normali. La mamma di Olga era morta quando lei “era ancora bambina e prima di lei aveva avuto un maschio stroncato a tre anni da una polmonite. Lei era stata concepita subito dopo e aveva avuto la sventura di nascere non solo femmina, ma anche il giorno stesso in cui il fratello era morto. Per ricordare questa triste coincidenza, fin da lattante era stata vestita con i colori del lutto. Sulla sua culla troneggiava un grande ritratto a olio del fratello. Serviva a farle presente, ogni volta che apriva gli occhi, di essere solo un rimpiazzo, una copia sbiadita di qualcuno migliore. Capisci? Come incolparla allora della sua freddezza, delle sue scelte sbagliate, del suo essere lontana da tutto? Persino le scimmie, se vengono allevate in un laboratorio asettico invece che dalla vera madre, dopo un poco diventano tristi e si lasciano morire. E se risalissimo ancora più su, a vedere sua madre o la madre di sua madre, chissà cos’altro troveremmo” (pag. 48 – 49). Questa esperienza vissuta comunque la fa riflettere sulla propria condizione di donna: “L’infelicità abitualmente segue la linea femminile. Come certe anomalie genetiche, passa di madre in figlia. Passando, invece di smorzarsi, diviene via via più intensa, più inestirpabile e profonda. Per gli uomini quella volta era molto diverso, avevano la professione, la politica, la guerra; la loro energia poteva andare fuori, espandersi. Noi no. Noi per generazioni e generazioni, abbiamo frequentato soltanto la stanza da letto, la cucina, il bagno; abbiamo compiuto migliaia e migliaia di passi, di gesti, portandoci dietro lo stesso rancore, la stessa insoddisfazione. Sono diventata femminista? No, non temere, cerco soltanto di guardare con lucidità ciò che sta dietro” (pag. 49).

In vena di confidenze, la nonna racconta alla nipote lontana le furiose discussioni con la propria figlia Ilaria, la mamma della nipote. Olga viveva in una villetta scelta in fretta e furia dal marito Augusto, dopo il rientro a Triste dall’Abruzzo. La colpa della mamma era di essere borghese:  “Avevo il torto di vivere in una villetta con il giardino invece che in una baracca o in un appartamento di periferia. A quel torto s’aggiungeva il fatto che avevo avuto in eredità una piccola rendita che permetteva a entrambe di vivere. Per non fare gli errori che avevano fatto i miei genitori, mi interessavo a quello che diceva o perlomeno mi sforzavo a farlo. Non l’ho mai derisa né mai le ho fatto capire quanto fossi estranea a qualsiasi idea totalizzante, ma lei doveva percepire ugualmente la mia diffidenza verso le sue frasi fatte” (pag. 58). Il rapporto con Ilaria diventa sempre più burrascoso. Ritornerà più avanti e raccontare altri particolari che la nipote non conosce.

Il maggio francese, le università occupate, il movimento studentesco, Padova, facoltà di Psicologia. Sono gli anni e i luoghi vissuti da Ilaria che non combina nulla di buono in fatto di studi, persa dietro le ideologie totalizzanti del periodo storico. Dopo questo piccolo excursus su questo passato, Olga ritorna indietro nel tempo e racconta alla nipote i propri primi cinque anni di Scuola Elementare, vissuti all’Istituto del Sacro Cuore gestito dalle suore. Fu una scelta sbagliata ma così aveva deciso sua mamma. Tutto rispondeva al conformismo dominante respirato in famiglia. La gioia prorompente di una bambina veniva mortificata dall’ossequio alle regole imposte in famiglia e nella scuola. Bisognava appoggiare bene le mani quando si mangiava a tavola, non cantare. Il risultato di tutto questo si era trasformato in un odio profondo verso sua madre: “Detestavo mia madre, il suo modo di fare superficiale e vuoto. La detestavo, eppure lentamente e contro la mia volontà, stavo diventando proprio come lei. Questo è il ricatto grande e terribile dell’educazione, quello a cui è quasi impossibile sfuggire. Nessun bambino può vivere senza amore. È per questo che ci si adegua al modello richiesto, anche se non ti piace per niente, anche se non lo trovi giusto. L’effetto di questo meccanismo non scompare con l’età adulta. Appena sei madre riaffiora senza che tu te ne renda conto o lo voglia, plasma di nuovo le tue azioni. Così io quando è nata tua madre, ero assolutamente certa che mi sarei comportata in modo diverso. E, in effetti, così ho fatto, ma questa diversità era tutta di superficie, falsa. Per non imporre un modello a tua madre, così com’era stato imposto a me in anticipo sui tempi, l’ho sempre lasciata libera di scegliere, volevo che si sentisse approvata in tutte le sue azioni, non facevo altro che ripeterle: «Siamo due persone diverse e nella diversità dobbiamo rispettarci” (pag.73). La nonna Olga confessa alla propria nipote che per gran parte della propria vita più che nuotare ha annaspato.

Nella lettera del ventinove novembre, Olga ritorna a parlare della propria figlia Ilaria, madre di Marta, la nipote. Quest’ultima, prima di partire per l’America, le aveva detto di essere ad un bivio: o andava da uno psicanalista o partiva per gli Stati Uniti e continuare gli studi. Olga si era istantaneamente opposta alla prima ipotesi. Nella lettera racconta a Marta come sua mamma si fosse rovinata proprio seguendo uno pseudo psicanalista di Padova al quale si era affidata per curare il suo male di vivere. Dopo la dipendenza dalla politica si era rovinata con la psicanalisi. I pochi incontri che avevano si risolvevano sempre in una sorta di interrogatorio che la figlia faceva alla mamma. Voleva sapere perché lei e suo marito le avevano tarpato le ali. Ilaria andava sempre più alla deriva: “Ormai da diversi anni aveva finito i suoi studi e non faceva niente, si era allontanata dai pochi amici che aveva, l’unica sua attività era scrutare i moti interiori con l’ossessione di un entomologo. Il mondo girava intorno a quello che aveva sognato la notte, a una frase che io e suo padre le avevamo detto vent’anni prima” (pag. 81). Olga non riesce più ad avere alcun colloquio con la propria figlia. Quei pochi incontri che ha con lei si trasformano sempre in un interrogatorio, tanto che al colmo della disperazione, la mamma rivela ad Ilaria che il suo vero padre non era quello che, secondo lei, le aveva causato tanti guai. La figlia, presa la macchina, si va a schiantare contro un albero, morendo sul colpo.

La nipotina, Marta, all’epoca era troppo piccola per capire e ricordare. Cresce con la nonna che le rivela anche in un’altra lettera come era stata concepita: “Ignoro chi sia tuo padre, forse lo ignorava persino tua madre”, scrive alla nipote e ancora: “Erano gli anni della liberazione sessuale, l’attività erotica veniva considerata come una normale funzione del corpo; andava fatta ogni volta che se ne aveva voglia, n giorno con uno, un giorno con un altro. Ho visto comparire al fianco di tua madre decine di giovanotti, non ne ricordo uno solo che sia durato più di un mese” (pag.106). Era ritornata da un viaggio con la pancia di tre mesi. La nipote, molto probabilmente era stata concepita in un villaggio della Turchia, nel corso del viaggio di sua figlia Ilaria. La nonna ha molto da dire sugli anni della liberazione sessuale vissuta da sua figlia: “Da questa precarietà amorosa Ilaria, già instabile di per sé, era rimasta travolta più di altri. Anche se non le ho impedito mai nulla, né l’ho mai criticata in alcun modo, ero piuttosto turbata da questa improvvisa libertà nei costumi. Non era tanto la promiscuità a colpirmi, quanto il grande impoverimento dei sentimenti. Caduti i divieti e l’unicità della persona, era caduta anche la passione. Ilaria e le sue amiche mi sembravano delle ospiti di un banchetto afflitte da n forte raffreddore, per educazione mangiavano tutto quello che veniva loro offerto senza però sentirne il gusto: carote, arrosti e bignè per loro avevano lo stesso sapore” (pag. 106).

Svelato il segreto di sua figlia, la mamma di Marta, la nonna Olga racconta sempre alla propria nipote, in pagine molto belle e struggente il proprio infelice matrimonio con un uomo, Augusto, di origine abruzzese, vedovo e senza figli. Aveva rapporti commerciali con la ditta del proprio papà. Superata da tempo l’età di maritarsi, Olga, rimasta quasi sola, con la mamma assente nel processo della sua formazione, il padre colpito da un attacco apoplettico, coglie al balzo di unirsi in matrimonio con Augusto: “Ci sposammo con una cerimonia sobria il primo giugno del ’40. Dieci giorni dopo l’Italia entrò in guerra. Per ragioni di sicurezza, mia madre si rifugiò in un paesino di montagna, in Veneto, mentre io, con mio marito, raggiunsi l’Aquila” (pag.117). A l’Aquila vanno ad abitare nella casa della famiglia di Augusto, in un grande appartamento al primo piano di un palazzo nobiliare del centro. Ambedue amanti delle escursioni, fanno grandi passeggiate per le montagne abruzzesi, tanto che ad Olga sembra di stare ancora al Nord nella propria casa. Ma i giorni, i mesi, gli anni passano inesorabili. Augusto è sempre lontano da casa per lavoro, quando vi ritorna si chiude nel proprio studio a riordinare la collezione di coleotteri: “Il suo grande sogno era di scoprire un insetto che ancora non fosse noto a nessuno, così il suo nome si sarebbe tramandato per sempre nei libri di scienze. Io il nome l’avrei voluto tramandare in un altro modo, cioè con n figlio, ormai avevo trent’anni e sentivo il tempo scivolarmi alle spalle sempre piò svelto” (pag. 120).

I giorni del corteggiamento diventano un lontano ricordo per Olga che vive sempre sola in casa. Naturalmente trasmette alla propria famiglia lontana notizie rassicuranti ma non è così: “Quando sentivo i miei genitori naturalmente dicevo che andava tutto bene, mi sforzavo di fare la voce della giovane sposa felice” (pag. 121). La mamma ha solo parole di retorica. Aspetta la novità di tutte: l’arrivo di un nipotino, ma questo non arriva. Con Augusto il rapporto diventa solo formale, Dormono in stanze e letti separati. La giovane sposa vive giornate monotone e sola, quasi sul punto di impazzire: “Perché non mi ribellavo, perché non prendevo la mia valigia per tornare a Trieste? Perché allora non c’era la separazione, né il divorzio. Per rompere un matrimonio ci dovevano essere gravi maltrattamenti, oppure bisognava avere un temperamento ribelle, fuggire, andarsene per sempre raminghi per il mondo. Ma la ribellione, come sai, non fa parte del mio carattere e Augusto con me non ha mai alzato non dico un dito, ma neanche la voce. Non mi ha mai fatto mancare niente. La domenica, tornando dalla messa, ci fermavamo alla pasticceria dei fratelli Nurzia e mi faceva comprare tutto ciò di cui avevo voglia. Non ti sarà difficile immaginare con quali sentimenti mi svegliavo ogni mattina. Dopo tre anni di matrimonio avevo un solo pensiero in mente ed era quello della morte” (pag. 123). Olga sempre più sola, un giorno trova per caso in uno dei tanti cassetti delle trecce che appartenevano alla prima moglie di Agusto: “Della sua moglie precedente Augusto non mi parlava mai, le rare volte che, con discrezione, l’avevo interrogato, aveva cambiato discorso. Con il tempo, camminando nei pomeriggi di inverno tra quelle stanze spettrali mi ero convinta che Ada –  così si chiamava la prima moglie –  non era morta di malattia o di disgrazia ma si era suicidata. Quando la domestica era fuori passavo il mio tempo a svitare assi, a smontare i cassetti, cercavo con furore una traccia, un segno che confermasse il mio sospetto. Un giorno di pioggia, nel sottofondo di un armadio, trovai dei vestiti da donna, erano i suoi. Ne tirai fuori uno scuro e lo indossai, avevamo la stessa taglia. Guardandomi allo specchio, cominciai a piangere (pag. 123). Olga trova in tutti i modi di uscire dalla solitudine che l’opprime ma non trova niente e nessuno che la possa aiutare. Ritrova anche il bisogno di pregare: “In un angolo della casa c’era un inginocchiatoio di legno massiccio che era appartenuto alla madre di Augusto, una donna molto devota. Quando non sapevo cosa fare mi chiudevo in quella stanza e stavo per ore lì, con le mani giunte. Pregavo? Non lo so. Parlavo o cercavo di parlare con Qualcuno che supponevo stare più in alto della mia testa. Dicevo, Signore fammi trovare la mia via, se la mia via è questa aiutami a sopportarla. La frequentazione abituale della chiesa –  alla quale ero stata costretta dal mio stato di moglie –  mi aveva spinto a pormi di nuovo tante domande, domande che avevo sepolto dentro di me fin dall’infanzia. L’incenso mi stordiva e così la musica dell’organo. Ascoltando le Sacre Scritture qualcosa vibrava debolmente dentro di me. Quando però incontravo il parroco per la strada senza i paramenti sacri, quando guardavo il suo naso a spugna e gli occhi un po’ porcini, quando ascoltavo le sue domande banali e irrimediabilmente false, non vibrava più niente e mi dicevo ecco, non è che un imbroglio, un modo per far sopportare alle menti deboli l’oppressione nella quale si trovano a vivere. Ciononostante, nel silenzio della casa, amavo leggere il Vangelo. Molte parole di Gesù le trovavo straordinarie, mi infervoravano al punto da ripeterle più volte a voce alta”(pag. 124). Sono pagine belle, piene di amore e di tristezza indicibili, scritte da un’anima in preda alla disperazione ma che anela ad un Assoluto che possa guarirla dal proprio male.

Olga e Augusto raggiungono il quinto anno del loro matrimonio, come la seconda guerra mondiale: “Come il mio matrimonio, anche la guerra era al suo quinto anno, nel mese di febbraio le bombe erano cadute anche su Trieste. Durante l’ultimo attacco la casa della mia infanzia era stata completamente distrutta. L’unica vittima era stato il cavallo da calesse di mio padre, l’avevano trovato in mezzo al giardino privo di due zampe. A quei tempi non c’era la televisione, le notizie viaggiavano in modo più lento. Che avevamo perso la casa l’ho saputo il giorno dopo, mi aveva telefonato mio padre. Già da come aveva detto «pronto» avevo capito che era accaduto qualcosa di grave, aveva la voce di una persona che da tempo ha smesso di vivere. Senza più un luogo mio dove tornare mi sentii davvero persa. Per due o tre giorni vagai per casa come in trance. Non c’era niente che riuscisse a scuotermi dal torpore, in un’unica sequenza, monotona e monocroma, vedevo svolgersi i miei anni uno dopo l’altro fino alla morte” (pag. 126).

Olga si trasferisce a Trieste, raggiunta pochi mesi dopo da Augusto che rileva la ditta del padre e acquista un villino dove va a vivere con sua moglie e i genitori di lei. Alla morte della mamma, Olga accarezza l’idea di avere un figlio e dorme di novo con Augusto e nonostante questo tra di loro, di notte, succedeva poco o niente: “Passavo molto tempo seduta in giardino in compagnia di mio padre. Fu proprio lui, durante n pomeriggio assolato, a dirmi: Al fegato e alle donne, le acque possono fare miracoli” (pag. 128). Due settimane dopo, Augusto accompagna Olga in treno per Venezia. Da qui, la moglie prende un altro treno per Bologna. Dalla città felsinea, con un altro treno, arriva a Porretta Terme. E’ proprio in questa località termale che Olga conosce Ernesto, il medico delle terme: “Tuo nonno l’ho incontrato già la prima sera, mangiava nella sala da pranzo della mia pensione assieme a un’altra persona” (pag. 134). Al momento non ne ha una buona impressione. Parla con un altro signore di politica con un tono della voce forte e indisponente. Ernesto, essendo medico, le misura la pressione. La colonnina di mercurio schizza ai valori massimi. Il dottore le dice che l’ipertensione si guarisce con il riposo. Olga, frequentando Ernesto scopre che la sua vita sta cambiando: “Stando vicina a Ernesto in quei giorni per la prima volta ho avuto la sensazione che il mio corpo non avesse confini. Intorno sentivo una sorta di alone impalpabile, era come se i contorni fossero più ampi e quest’ampiezza vibrasse nell’aria a ogni movimento” (pag. 136).

Tra i due nasce un’affinità elettiva quale Olga non aveva trovato mai in Augusto: “Nell’ultima settimana del mio soggiorno a Porretta Terme siamo stati sempre assieme, facevamo lunghe passeggiate, parlavamo fino ad avere la gola secca. Com’erano diversi i discorsi di Ernesto da quelli di Augusto! Tutto in lui era passione, entusiasmo, sapeva entrare negli argomenti più difficili con una semplicità assoluta. Parlavamo spesso di Dio, della possibilità che, oltre la realtà tangibile, esistesse qualcos’altro. Lui aveva fatto la Resistenza, più di una volta aveva visto la morte in faccia. In quegli istanti gli era nato il pensiero di qualcosa di superiore, non per la paura ma per il dilatarsi della coscienza in uno spazio più ampio. Non posso seguire i riti», mi diceva, «non andrò mai in un luogo di culto, non potrò mai credere ai dogmi, alle storie inventate da altri uomini come me. Ci rubavamo le parole di bocca, pensavamo le stesse cose, le dicevamo allo stesso modo, sembrava che ci conoscessimo da anni anziché da due settimane” (pag. 140).

L’amicizia con Ernesto si va trasformando, a seguito di altri soggiorni a Porretta Terme in una vera e propria relazione. Ernesto è sposato e ha già un figlio, Olga ha un marito ma ciò non toglie che non possa amare Ernesto: “Da lì alla vecchiaia avevo ormai previsto tutta la mia vita, il fatto che irrompesse qualcosa che non avevo calcolato mi metteva addosso una grande ansia. Non sapevo come comportarmi. Il nuovo al primo impatto spaventa, per riuscire ad andare avanti bisogna superare questa sensazione di allarme. Così un momento pensavo: «È una grande sciocchezza, la più grande della mia vita, devo dimenticare tutto, cancellare quel poco che c’è stato». Il momento dopo mi dicevo che la sciocchezza più grande sarebbe stata proprio quella di lasciar perdere perché per la prima volta da quando ero bambina mi sentivo di nuovo viva, tutto vibrava intorno a me, dentro a me, mi sembrava impossibile dover rinunciare a questo nuovo stato. Oltre a ciò naturalmente avevo un sospetto, quel sospetto che hanno o perlomeno avevano tutte le donne: cioè che lui mi prendesse in giro, che volesse divertirsi e basta. Tutti questi pensieri si agitavano nella mia testa mentre stavo da sola in quella triste stanza di pensione. Quella notte non riuscii a prendere sonno fino alle quattro, ero troppo eccitata. La mattina dopo però non mi sentivo per niente stanca, vestendomi cominciai a cantare; in quelle poche ore era nata in me una tremenda voglia di vivere. Al decimo giorno di permanenza mandai una cartolina ad Augusto: Aria ottima, cibo mediocre. Speriamo, avevo scritto e l’avevo salutato con un abbraccio affettuoso. La notte prima l’avevo trascorsa con Ernesto. In quella notte all’improvviso mi ero accorta di una cosa, e cioè che tra la nostra anima e il nostro corpo ci sono tante piccole finestre, da lì, se sono aperte, passano le emozioni, se sono socchiuse filtrano appena, solo l’amore le può spalancare tutte assieme e di colpo, come una raffica di vento” (pagg. 138- 139).

Dalla relazione nasce Ilaria, la mamma di Marta: “Ilaria fu subito figlia mia e di Augusto. La cosa più importante per me era che Ilaria fosse il frutto dell’amore e non del caso, delle convenzioni o della noia” (pag. 150). Olga non pensa mai all’aborto: “Capii subito, paradossalmente, che abortire sarebbe stato molto più difficile che tenere in figlio. Ad Augusto un aborto non sarebbe sfuggito. Come potevo giustificarlo ai suoi occhi dopo che per tanti anni avevo insistito sul desiderio di avere un figlio? E poi io non volevo abortire, quella creatura che mi cresceva dentro non era stato uno sbaglio, qualcosa da eliminare al più presto. Era il compiersi di un desiderio, forse il desiderio più grande e più intenso di tutta la mia vita. Quando si ama un uomo – quando lo si ama con la totalità del corpo e dell’anima – la cosa più naturale è desiderare un figlio. Non si tratta di un desiderio intelligente, di una scelta basata su criteri di razionalità. Prima di conoscere Ernesto immaginavo di volere un figlio e sapevo esattamente perché lo volevo e quali sarebbero stati i pro e i contro dell’averlo. Era una scelta razionale insomma, volevo un figlio perché avevo una certa età ed ero molto sola, perché ero una donna e se le donne non fanno niente, almeno possono fare i figli. Capisci? “ (pag.149). Il papà di Olga non riesce a vedere la nipotina perché muore qualche mese prima della sua nascita. Ernesto riconosce la piccola frutto del loro amore. I problemi nascono nel rapporto con Augusto, ma anche qui, Olga trova un equilibrio: Mi sentivo un mostro? Lo ero? Non lo so. Durante la gravidanza e per molti degli anni che sono seguiti non ho mai avuto un dubbio né un rimorso. Come facevo a fingere di amare un uomo mentre nel ventre portavo il figlio di un altro che amavo davvero? Ma vedi, in realtà le cose non sono mai così semplici, non sono mai o nere o bianche, ogni tinta porta in sé tante sfumature diverse. Non facevo nessuna fatica a essere gentile e affettuosa con Augusto perché gli volevo davvero bene. Gliene volevo in modo molto diverso da come lo volevo a Ernesto, lo amavo non come una donna ama un uomo, ma come una sorella ama un fratello maggiore un po’ noioso. Se lui fosse stato cattivo tutto sarebbe stato diverso, non mi sarei mai sognata di fare un figlio e vivergli accanto, ma lui era soltanto mortalmente metodico e prevedibile; a parte questo, nel profondo era gentile e buono. Era felice di avere quel figlio e io ero felice di darglielo. Per quale motivo avrei dovuto svelargli il segreto? Nel farlo avrei precipitato tre vite nell’infelicità permanente. Così almeno pensavo quella volta. Adesso che c’è libertà di movimento, di scelta, può sembrare davvero orribile quello che ho fatto, ma allora – quando mi sono trovata a vivere questa situazione –  era un caso molto comune, non dico che ce ne fosse uno in ogni coppia ma certo era piuttosto frequente che una donna concepisse un figlio con un altro uomo nell’ambito di un matrimonio. E cosa succedeva? Quel che è successo a me assolutamente niente. Il bambino nasceva, cresceva uguale agli altri fratelli, diventava grande senza che lo sfiorasse mai neppure un sospetto. La famiglia a quei tempi aveva fondamenta saldissime, per distruggerla ci voleva molto più di un figlio diverso. Così andò con tua madre” (pag.150).

Dopo la nascita di Ilaria, Olga riesce a vedere Ernesto solo poche volte. Questi intanto, lasciato l’impiego stagionale delle terme, apre uno studio privato a Ferrara. Può muoversi liberamente anche se è sposato e ha avuto nel frattempo un altro figlio da sua moglie. Non è la stessa cosa per Olga che non ha nessun lavoro e i suoi spostamenti possono destare dei sospetti in Augusto. Decide allora di iscriversi insieme ad Ernesto ad un corso di latinisti.  Possono vedersi solo poche volte. Ilaria cresce e arriva all’età di quattro anni. I due amanti possono scriversi solo delle lunghe lettere. All’ultima lettera, Olga non ha nessuna risposta. Si allarma e parte alla volta di Ferrara con la scusa di frequentare il corso per latinisti. Si reca presso lo studio medico di Ernesto ma trova tutto chiuso. Va in biblioteca e, su un giornale di qualche mese, prima legge un trafiletto dove è riportato l’incidente nel quale Ernesto aveva perso la vita. Di ritorno da una visita ad un ammalato, di notte era andato a schiantarsi con la propria macchina addosso ad un grande platano. Vent’anni dopo succede la stessa cosa a Ilaria.

Olga sprofonda nella depressione più cupa, dopo la perdita dell’omo che amava. Perde anche Augusto, il marito, colpito, per un lungo periodo, da “una forma non lieve di arteriosclerosi, girava per casa parlando come un bambino e lei (Ilaria) non lo sopportava. Cosa vuole questo signore? Gridava non appena, lui ciabattando, compariva sulla porta di casa. Quando se ne è andato, lei aveva sedici anni, da quando ne aveva quattordici non lo chiamava più papà. E’ morto in ospedale un pomeriggio di novembre” (pag. 168).  Augusto, appena l’infermiera dell’ospedale aveva portato la cena, alzatosi all’improvviso, come se avesse visto qualcosa, va verso la finestra e dice: “Le mani di Ilaria. Così non ce l’ha nessuno in famiglia, poi, ritornato a letto, muore. Ho guardato fuori dalla finestra. Cadeva una pioggia sottile. Gli ho accarezzato la testa. Per diciassette anni, senza mai far trasparire niente, si era tenuto quel segreto dentro” (pag. 168). Olga, dopo la perdita di Ernesto si rifugia nella preghiera per cercare di lenire le proprie sofferenze. Le è di aiuto un gesuita tedesco, padre Thomas, che inizia a frequentare nel corso di escursioni in montagna di cui ambedue sono appassionati. Il prete non esprime giudizi di condanna verso Olga che gli si apre, raccontandole la propria vita. Dai colloqui che ha con lui e dai libri che le suggerisce di leggere, Olga riesce a venire fuori dalla depressione. La verità è dentro di noi, le ripete il religioso tedesco. Olga aveva sentito lo stesso invito dal prete quando era sposa infelice a L’Aquila e dal confessore di una sua amica. Ambedue i religiosi non erano credibili ai suoi occhi, perché “le loro parole erano dolciastre, inneggiavano alla forza della fede come se la fede fosse un genere alimentare in vendita nel primo negozio della strada” (pag.158). Ora è tutto diverso: “Dopo l’incontro con padre Thomas qualcosa era cambiato, continuavo a non vedere niente, ma non era più una cecità assoluta, in fondo al buio cominciava a esserci un chiarore, ogni tanto, per brevissimi istanti riuscivo a scordarmi di me stessa. Era una luce piccola, debole, una fiammella appena, sarebbe bastato un soffio per spegnerla. Il fatto che ci fosse però mi dava una leggerezza strana, non era felicità quella che provavo ma gioia. Non c’era euforia, esaltazione, non mi sentivo più saggia, più in alto. Quel che cresceva dentro di me era soltanto una serena consapevolezza di esistere” (pag. 172).

Superata la crisi personale, Olga ne deve affrontarne un’altra ben più grave, quella con sua figlia Ilaria che, diventata grande, va sempre più alla deriva. Nonna Olga si va preparando al Natale nella propria casa. E’ sempre più sola. Ha accompagnato al cimitero la mamma, il papà, il marito Augusto, Ernesto, la propria figlia Ilaria. Ha raccontato tutto alla propria nipote lontana. Giunta al termine di questa confessione non sa cosa suggerire a Marta che sta affrontando anche lei la vita. Le suggerisce di ascoltare sempre la voce del cuore e di vedere dentro di sé cosa deve e non deve fare. Conclude la lunga corrispondenza, scrivendole: “Ogni volta che ti sentirai smarrita, confusa, pensa agli alberi, ricordati del loro modo di crescere. Ricordati che un albero con molta chioma e poche radici viene sradicato al primo colpo di vento, mentre in un albero con molte radici e poca chioma la linfa scorre a stento. Radici e chioma devono crescere in uguale misura, devi stare nelle cose e starci sopra, solo così potrai offrire ombra e riparo, solo così alla stagione giusta potrai coprirti di fiori e frutti. E quando poi davanti a te si apriranno strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va dove lui ti porta” (pag. 187). E’ la conclusione del romanzo che va letto con passione.

Raimondo Giustozzi

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