Articolo tratto dalla rivista “Gli Asini”
“Nell’abbrutimento della vita politica e sociale italiana dei nostri anni, non pensate che una delle poche speranze di uscirne sia quella che i cattolici – beninteso, una minoranza pensante e responsabile – dovrebbero dar vita a una qualche forma di organizzazione politica che abbia il fine di contrastare, con una forte visione etica della politica, il preoccupante degrado attuale?”
Abbiamo posto questa domanda ad alcune persone autorevoli, cattolici e non, ed ecco cosa ci hanno risposto:
Lorenzo Fazzini
È un segno dei tempi, si direbbe con espressione conciliare, che una rivista di critica militante come “Gli asini” evochi la necessità di una “forma di organizzazione politica” di stampo cattolico nell’Anno Domini 2018. Cattolico senza tessere, zero appartenenze, cane sciolto. Vizio e virtù di provare a pensar da me, con maestri sapienti che non mi sono stati guru. Provo allora ad accennare una risposta dal mio personale punto di vista.
La mia risposta alla provocazione degli amici degli “Asini” è un no secco e preciso. Meditato, direi. Per varie ragioni. Primo, quella anti-strumentale. Il grande Michel de Certeau, gesuita che nel ’68 guardava con simpatia alle barricate della Sorbona, era convinto però che il cristianesimo fosse come una casa disabitata e che ormai tutti (da destra e da sinistra) ci entrassero dalle finestre e dalle porte, senza ordine, ognuno a suo modo e parere. E questo non è bene. Non è bene usare una stagione millenaria come il cattolicesimo per risanare la visione etica della politica oggi ormai sbeffeggiata da un “tutto è show”, anche farsi fotografare per un po’ di voti a un funerale di Stato. Non è cosa buona. Anche per le più nobili intenzioni.
Secondo. E argomento più ragionato, spero. Lo so che può sembrare deviare dal tema, ma io penso seriamente – mi ci sto dedicando da ormai dieci anni, professionalmente parlando – che il mondo cattolico oggi in Italia disponegadi una delle poche reti sociali ancora rimaste in piedi nella desertificazione operata prima dalla tv e poi, in questi ultimi anni, dalla prepotenza disarmata ma disarmante della rete. Tanto per dire: le Case del popolo oggi sono meno di 50 in Italia; solo a Bergamo ci sono 300 oratori. Le parrocchie in Italia sono 23mila, i conventi qualche migliaio, le case di spiritualità qualche migliaio, associazioni, gruppi, centri di ricerca, luoghi di incontro altrettanto, qualche migliaio. Ecco. Questo dovrebbe essere il ruolo, secondo me, di chi crede nell’incarnazione di Dio nella storia: tornare a far pensare la gente. Alla fine Cristo non ha posto domande a chi lo seguiva? Non ha provato a far ragionare la gente di Galilea 2000 anni fa?
Timothy Radcliffe, già maestro generale dei domenicani (gente seria, Tommaso d’Aquino, Bartolomé de Las Casas, Yves Congar) ricorda sempre quello che gli diceva un suo formatore: “Ragazzi, pensate, pensate, a qualsiasi cosa, ma, per Dio, pensate!”. Radcliffe, di ritorno da un viaggio in Iraq (l’Iraq dell’Isis!) racconta che i domenicani, oggi, anche nei campi profughi fondano scuole e riviste culturali. Riviste culturali nei campi profughi? Sì, avete letto bene.
L’azione politica più importante che oggi il mondo cattolico può fare è, secondo il mio modestissimo e parziale punto di vista (vivo di libri e cultura da quando ho uno stipendio, per cui sono di parte, lo ammetto), quello di far tornare a far pensare la gente. Come? Sfruttando, sì, sfruttando (so che la parola è brutta, ma è così) questa rete capillare che è fatta di parrocchie che hanno delle sale, delle università che hanno professori, di conventi che hanno arte, storia e memoria, di gruppi, anche piccoli, che hanno ancora passione. Tutto questo, per tornare a pensare. Perché pensare significa mettere uno iato tra me e la realtà.
Attenzione, lo dico soprattutto per chi, da cattolico, rischia di mettere mano alla fondina quando sente parlare di cultura. La memoria può andare al recente Progetto culturale, tentativo ventennale – fallito ampiamente, visti i risultati elettorali e sondaggistici: 75% dei cattolici starebbero con Salvini – di matrice ruiniana: visto che politicamente non li possiamo unire, almeno i fedeli laici intruppiamoli in un pensiero. Che poi significava ragionare, scrivere, pubblicare sui (non più assoluti, Deo gratias) “princìpi non negoziabili”: vita, famiglia, scuola. Sia chiaro: chi scrive non condivide l’aborto, non condivido il matrimonio gay, sono meno “dogmatico” sulle scuole pubbliche non statali (il “senza oneri per lo Stato” comunque è tutto tranne quello che ha passato la vulgata degli ultimi 70 anni). Epperò. Mentre ho queste convinzioni sono sempre stato alla scuola di Martini, di don Milani, di Mazzolari, ho letto de Lubac, amo Guardini, ho avuto in casa missionari e missionarie che mi hanno aperto cuore e testa sul mondo. Lavoro per la casa editrice di padre Zanotelli e penso che la sua critica al sistema della finanza, delle armi e della privatizzazione spinta sia seriamente e provvidenzialmente evangelica. Non è questione di ideologia, qui, ma di interesse e di metodo: tornare a far pensare, integralmente.
Che vuol dire: far ragionare la gente informando, facendo incontrare chi conosce il mondo veramente e chi va avanti a conoscerlo solo tramite i post e i tweet di quanti voglion solo propaganda. La resistenza di oggi è far parlare i missionari e missionarie che davvero li aiutano a casa loro, che sanno cosa c’è dietro la parola (e i volti di) Eritrea o Gambia quando i nostri giornalisti non sanno neppure mettere dritta una cartina dell’Africa. Resistere a questa deriva del menefreghismo cosmico significa iniziare a far sentire i problemi degli altri come i propri, e sortirne insieme (don Milani). Significa usare le parrocchie per spiegare cosa è il commercio d’armi oggi, come funziona la finanza becera e sfruttatrice, cosa sia il losco mercato della gestazione per altri, cosa si sta facendo in varie parti del mondo per cambiare la storia: università aperte ai fuori casta in India, miracoli nella cracolandia di San Paolo in Brasile, un gesuita che fa fare la pace a paramilitari e guerriglieri in Colombia.
Utopia? Be’, sì, certo. Ma se non si prova ad avere uno sguardo lungo, e tutto si riduce a Salvini no, non penso si possa andare avanti granchè. È tempo di traversate nel deserto. Lunghe, anche. Ma anche il deserto ha il suo fascino. Ci ridà il gusto dell’essenziale, di quel che veramente conta. E ci fa abbandonare il superfluo. Che sarebbe già una gran cosa e un gran dono, in questi tempi in cui la fede ci deve vedere spregiudicati, mai timorosi ma umilmente spavaldi e soprattutto liberi. La libertà, alla fin fine, è il regalo della verità. Ce lo disse Uno che per questo ci ha rimesso la vita. Con amicizia.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 58-59 de “Gli asini”: acquistalo, abbonati o fai una donazione per sostenere la rivista.
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