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Libri. Narrativa Italiana del Novecento Il Podere, Federigo Tozzi

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Il Podere, altro romanzo di Federigo Tozzi (Siena 1883- Roma 1920), è pubblicato, nello stesso anno della morte dell’autore, da Treves nella rivista “Noi e il mondo”. Il racconto “Ricordi di un impiegato” è pubblicato invece sulla “Rivista letteraria”. Ambedue i racconti sono molto autobiografici. Nel libro “Ricordi di un impiegato” si nasconde lo stesso Tozzi che vinse un concorso per un posto nelle Ferrovie. Resta a Pontedera dal 5 marzo al 26 aprile 1908; ottiene il trasferimento a Firenze, ma lascia l’impiego per la sopraggiunta morte del padre (15 maggio 1908). Il lavoro nella ferrovia, come racconta nel libro, gli consente di sposare Emma senza troppe difficoltà economiche. Ereditati la trattoria e i poderi paterni alla morte del padre, iniziano per Tozzi i guai economici. La moglie così scrive: “Eredita la trattoria e i poderi; ma siccome odia la trattoria, che ritiene causa di litigi col padre, e perché ci sono le persone che hanno contribuito a mettere tra loro la discordia, così non ha che un desiderio: liberarsene al più presto. Raggiunge lo scopo in due o tre giorni, facendosene spogliare, quasi per nulla, da alcuni speculatori che gli si sono messi alle costole. Rinuncia all’impiego perché è certo che i poderi basteranno a dargli da vivere, poi spera di riuscire a guadagnare, presto, con la propria intelligenza” (F. Tozzi, Il podere, notizie biografiche, pag. 14, Fabbri Editore, BUR, Milano 1995).  Si ritira con Emma nel podere di Castagneto, dove incontra gravi difficoltà economiche nella gestione del fondo, causa non ultima la sua incapacità quale amministratore. Remigio Selmi, il protagonista del romanzo “Il podere” è la maschera letteraria di Federigo Tozzi stesso. Di diverso c’è solo la fine tragica di Remigio che viene ucciso con un colpo d’accetta da Berto, il salariato che vede in lui solo il padrone e quello che non era riuscito a fare col padre lo fa con lui, considerato inetto e incapace.

 

Il podere copertina libro

 

Trama, personaggi e luoghi del romanzo.

Remigio Selmi ha vent’anni. E’ impiegato presso la stazione di Campiglia. Sa che il padre è malato. Una ferita a un piede, causata da un chiodo, si è trasformata in cancrena. Remigio non ha un buon rapporto col padre. Da casa non arriva nessuna notizia. Improvvisamente, una sera riceve una cartolina dal chirurgo che aveva in cura il padre. Nello scritto gli comunica che ormai non c’è più nulla da fare. Remigio chiede e ottiene dal capostazione di recarsi al capezzale del genitore. Parte col diretto e arriva di notte alla “Casuccia”, l’abitazione del padre che è a tre miglia da Siena, fuori Porta Romana. Trova l’uscio aperto della casa, entra nella camera del padre senza essere visto da nessuno. Il padre è a letto, assistito da due salariate, Gegia e Dinda, che gli tirano su la coperta se occorre o lo girano sul letto quando il paziente non riesce a stare più nella stessa posizione. Remigio vuole farsi riconoscere dal padre e si avvicina al letto. Le due donne lo rimproverano perché è entrato senza avvertire.  Se mai il malato dovesse morire, Remigio non potrà mai perdonarsi di non aver potuto parlare col padre: Vorrei che mi riconoscesse. Giacomo alzò, a poco a poco, faticosamente, il volto; e guardò il figlio ma non se ne fece caso: le sue labbra si erano afflosciate e screpolate, deformando la bocca; gli occhi non erano più neri; ma, con le sclerotiche gialle e segose, le pupille parevano vizze. Le mani, che le due donne avevano lasciato, appoggiate dalla parte del dorso e aperte, cercavano di chiudersi senza riuscirci. Remigio, perché non lo brontolasse di essergli andato così vicino, gli chiese un’altra volta, pur non avendone più voglia, per quell’indifferenza che, a rivederlo, gli era tornata: Non mi riconosci? Il malato, come se avesse voluto fargli capire che non gliene importava nulla, rispose: Non ti devo riconoscere? Non sei Remigio? E ricominciò subito a gridare. Allora, le due donne lo voltarono di fianco, strascinandolo in proda” (pag. 48). La proda è la sponda del letto. Nella cultura contadina è il linite di un campo.

Remigio è una persona educata, desidera avere rapporti cordiali con tutti, e si dimostra tale per tutto il romanzo ma è circondato, in casa dalla matrigna, Luigia, la seconda moglie di Giacomo, da Giulia, la convivente del padre, Ilda, la figlia dodicenne di una nipote: “Giacomo era abbastanza ricco. Nato da un fattore, che gli aveva lasciato circa ventimila lire, era riuscito a triplicarle. Mortagli la moglie, madre di Remigio, prese con sé una ragazza di campagna facendola passare per serva. Poi, per mettere in pace i pettegolezzi, sposò Luigia, che allora era una zitella piuttosto matura: doveva ereditare un poderetto ed era stata la sarta della prima moglie. Prese anche, perché gli avrebbe fatto comodo, la figlia d’una sua nipote: aveva, allora, dodici anni e si chiamava Ilda. La sera stessa del matrimonio, Luigia si raccomandò a Remigio di volerle bene e di dirle tutta la verità delle chiacchiere che si facevano; e il figliastro le confermò i sospetti su Giulia. Ella pianse e si fece promettere da Giacomo che l’avrebbe mandata via; ma, invece, dopo pochi mesi, Giulia prese sempre di più il sopravvento; e Giacomo si divise di letto dalla moglie” (pag. 49- 50).

Va d’accordo con la matrigna che ha per lui tutte le attenzioni, ricambiate da Remigio, ma odia profondamente Giulia, l’amante del padre: “Erano più di sette anni che Remigio la sopportava; ma, sempre di più, la sua avversione cresceva; e, d’altra parte, l’odio di Giulia faceva altrettanto; perciò quasi tutti i giorni, Giacomo e Remigio questionavano. Alla fine, il figlio dovette andarsene; e, dopo aver patita anche la fame, era riuscito ad avere quel piccolo impiego” (pag. 50).

Al capezzale di Giacomo morente viene per più giorni il chirurgo Umberto Bianconi, solo per spillare quanti più soldi possibili a Remigio ma non perché volesse bene al padre: “Intanto venne il chirurgo Umberto Bianconi; uno dei più reputati a Siena, ma non valeva gran che: aveva fatto carriera presto, perché suo padre insegnava all’università. Piccolo e magro, una barbetta castagna, brutta, quasi cappuccinesca, con gli occhi neri, dov’era un sorriso di astuzia, da scimmia, un poco miopi, mai fermi, quand’egli parlava si baloccava a lisciare con l’unghia d’un pollice quella dell’altro; e non guardando mai in viso, ma sempre intorno. Maligno e maldicente, anche senza ragione, a motivo della sua falsa gentilezza, s’era fatto nome di buono e di modesto; e faceva pagare tali conti che gli procuravano un rispetto sempre maggiore. Quando c’era un moribondo abbastanza ricco, magari come Giacomo, non aveva nessuno scrupolo a raddoppiare le visite; ordinando rimedi che non servivano a niente. Sapeva che il disgraziato doveva morire; ma egli mostrava di sperare sempre, proponendo cure costosissime, chiamando a consulto altri medici con i quali fingeva le più coscienziose preoccupazioni” (pag. 52- 53).

Avvocati, Giulio Sforzi, Neretti, Renzo Boschini, notai, Pollastri, scritturali, Roberto Lenzi, medici, Umberto Bianconi, sensali, Pietro Carletti, detto Chioccolino, Bubbolo, salariati, Berto, Picciòlo, marito di Dinda si dimostrano tutti per quello che sono: infingardi, falsi e cattivi. Tutti vogliono far pagare al figlio quello che non sono riusciti a far pagare al padre. Remigio, tranne i continui consigli dati a lui dalla matrigna ha tutti contro. E’ ritornato in un ambiente dal quale si era allontanato. Non sa niente della campagna. Non sa amministrare il fondo perché il padre – padrone l’ha tenuto sempre lontano. Tutto si complica terribilmente alla sua morte, quando deve assumere la conduzione del podere e regolare la posizione della matrigna e dell’amante del padre riguardo all’eredità che spetta loro. Il protagonista, alla morte del padre, incontra alcuni salariati, tra i quali Berto. “Remigio, vestitosi in fretta, scese le scale; evitando di parlare con quelli di casa; e si trovò con Berto. Il saluto dell’assalariato gli destò simpatia per tutti gli altri; e, perché si sentiva arrossire d’essere ormai il padrone, non gli rispose. L’assalariato, credendo che fosse per superbia, gli voltò le spalle; e se n’andò nel campo, fischiettando. Quando fu in fondo allo stradone, tra i due filari delle viti più belle di tutte le altre, si fermò; e, guardando Remigio sorrise di scherno; poi, prese lungo una fossacciola. Berto era curioso di conoscere come Remigio si sarebbe comportato e avrebbe fatto; sapendo che non s’intendeva di agricoltura; e che, secondo le voci di tutti, purtroppo vere, si trovava senza denaro e con parecchi debiti del padre” (pag. 57).

Il più infingardo, subdolo e cattivo, campione di disonestà è il notaio Pollastri: “Il Pollastri, uno dei più vecchi notai di Siena, era molto rispettato e tenuto in conto. Bassotto, con il buzzo a pera, e sempre con il bastone e con il bocchino per fumare il sigaro, aveva una carnagione scura; i baffi biondicci, con le punte come due spaghi untuosi e sottili; gli occhi chiari che diventavano subito fissi e cattivi; una voce che lusingava; un sorridere serio e pacato che faceva esclamare: Dev’essere onesto! Siccome la cenere del sigaro gli andava sempre addosso, molte volte seguitava a parlare ripulendosi il vestito con tutte e due le mani; e poi, specie quando voleva ascoltare, le teneva stese sopra lo scrittoio e i pollici appuntellati sotto. Remigio era andato da lui come da un padre, contento di confidarcisi; Luigia aveva cercato, anche per mezzo di un avvocato, di capire ch’egli non sarebbe stato parziale a favore del figliastro. E il Pollastri, accontentando ugualmente Luigia e Remigio, trovava sempre qualche motivo per cui era necessario che tornassero da lui. E così le loro chiacchiere, attraverso una imbriacatura legale, diventavano pretese eccessive o addirittura impossibili, in contrasto tra sé e irreconciliabili; proponendo egli, ora all’uno ora all’altro, accomodamenti che non potevano soddisfare nessuno dei due. Con quel suo sorriso, che gli faceva raggrinzare tutta la faccia, diceva a Remigio: Sì, lei ha ragione; ma, d’altra parte, dovrebbe essere più generoso, meno tirato intendo dire, più buono verso la matrigna. Ma io voglio darle soltanto quel che le si spetta. Non le pare giusto? Soltanto quel che le spetta? Ma se le fa vedere che lei è disposto a più, la matrigna, in compenso, sarà più affezionata. Non m’importa! Il Pollastri rideva, come se avesse detto una cosa da far ridere, e rispondeva: Ah, non gliene importa! Remigio, che credeva di avere risposto da furbo, come se avesse da farsi scusare di una bricconata, lo guardava ridendo; sotto quegli enormi scaffali d’incartamenti, a volumi, tutti con la costola nera, con un cartellino numerato. Più su della poltrona, la cui stoffa era stinta e strappata, un crocefisso d’avorio, d’un avorio scivolevole; e sopra la scrivania, ricoperta d’incerato nero, righelli e penne, bene in ordine, accanto a un enorme calamaio di vetro” (pag. 73- 74).

Pollastri è interessato solo al denaro. Annota con scrupolo meticoloso ogni volta che Luigia, la matrigna di Remigio si reca da lui per consultarsi: “Il Pollastri, rimasto solo, prendeva un foglio di carta, in cima al quale era il suo nome fatto con un timbro di gomma a inchiostro violetto; e scriveva con quella calligrafia grossa e aggrovigliata, tra le finche diritte e perpendicolari: Altra mansione per colloquio con la vedova, durato un’ora, lire venti. Faceva la somma, con il lapis, sopra un pezzetto di carta, di tutte le mansioni; poi, spargeva il polverino rosso su lo scritto; lo rimetteva nel cassetto, si dava una sfregatina alle mani, una scossa al vestito ceneroso; e passava subito ad altro. Ma al suo scritturale, che chiamava quando non c’erano più i clienti, per fargli ricopiare gli atti notarili in carta bollata, disse una volta: Per un’eredità di dieci lire, non vogliono mettersi d’accordo. Peggio per loro! Se la mangeranno e basta; ma non devono credere di sacrificare me, non pagandomi il conto!” (pag. 77). Pollastri, in combutta con il proprio scritturale, convince Remigio a firmare delle cambiali, dandogli in anticipo un acconto. Remigio non sa che le cambiali vanno pagate alla loro scadenza. E’ del tutto sprovvisto di senso pratico. Accumula debiti su debiti: “La matrigna, che fu l’ultima a convincersi, fu però la più risoluta; e gli giurò di far tutto nel modo più chiaro possibile. Intanto, però, pur promettendosi di non farsi più mettere su l’uno contro l’altro, decisero d’incaricare lo stesso il Pollastri dell’inventario; temendo che egli, se non gli avessero fatto fare né meno quello, avrebbe mandato un conto da milionari. Del resto, tutto quel denaro che si sentiva mettere a sua disposizione, a Remigio faceva piacere. Giacomo lo aveva tenuto sempre come un poveraccio, e lo stipendio dell’impiego non gli era bastato né meno a pagare tutta la retta alla padrona di casa. Quel denaro, più sognato che posseduto, ma che poteva procurarsi, non importa a quali conseguenze, lo incoraggiava” (pag. 83).

Remigio si sente solo nell’affrontare tutto. Vive quasi in un mondo tutto suo, triste e incupito. Non sa cosa fare: “Remigio, il più delle volte, si sentiva sperso; e gli faceva caso di poter scendere nell’aia e andare dove volesse. Il cancello della strada era tutto fuor di posto, con i gangheri strappati e arrugginiti; schiantato, con la vernice che veniva via a pezzi. Il settembre dell’anno avanti ci avevano legacciato i pruni e le marruche, perché non passassero a rubare l’uva; e le siepi ora avevano i getti nuovi” (pag. 83). Molti salariati, pur avendo lavorato, non avevano ricevuto da mesi il salario, quando viveva ancora il padre. Sanno che Remigio non ha polso. Non capisce nulla della campagna. Si approfittano della sua bontà, gli sottraggono balle di fieno che rivendono come se il podere fosse loro. La matrigna non manda più Ilda nelle diverse botteghe per pagare gli arretrati. Le difficoltà economiche aumentano. Pietro Carletti, il sensale, detto Chiocciolino, l’avvocato Giulio Sforzi, Neretti, Bubbolo, un sensale di vino e di grano, tutti congiurano contro di lui. Vogliono rovinarlo, convincendolo di chiedere un prestito alla banca per pagare i debiti. Berto, il salariato, con sua moglie Cecchina, “la donna più maldicente che ci fosse fuor di Porta Romana” vogliono rovinarlo. Giulia, l’amante di Giacomo, trova in Chiocciolino e in Corradino Crestai, il tipografo, soprannominato Ciambella, i due testimoni che davanti al proprio avvocato, Renzo Boschini, sostengono il falso. Giacomo, prima di morire aveva lasciato scritto che la Casuccia doveva andare in eredità all’amante. Remigio non ha nessuno che possa testimoniare il contrario: “Il Selmi era morto senza lasciare amici. Il suo carattere aspro e cupo gli aveva dato fama di cattivo; ed egli, sapendolo, s’era allontanato sempre più anche dagli amici” (pag. 67). Il figlio è chiamato a pagare le colpe del padre suo malgrado. Il podere non produce più nulla. I salariati fanno quello che vogliono e trattano male il povero Remigio che rimane allibito davanti alla loro violenza verbale. Lo definiscono cretino, stupido e incapace. L’avvocato e il notaio rincarano la dose. Trova conforto solo nella matrigna Giulia che reclama tuttavia anche lei la propria parte di eredità. Le cose precipitano con il passare dei mesi. Un’alluvione improvvisa e devastante rovina tutti i raccolti.

Remigio si chiude sempre più in se stesso: “Una mattina, per non piangere, Remigio uscì di casa; e, per due o tre ore, sfaticò facendo di tutto. Accatastò la legna, ripulì certi stanzini dove stavano i soffietti da zolfo, gli stai, i sacchi e gli annaffiatoi; poi andò in cantina, a raschiare la muffa alle botti, a cambiare i sugheri vecchi, a sdiragnare le travi (ripulirle dalle ragnatele); sciacquò i fiaschi, accomodò l’imbottitoia (aggiustò l’imbottavino, il grosso imbuto di legno), buttò fuori dell’uscio le cose inservibili: granatini consumati, tappi rotti, cenci, bottiglie incrinate, stoppacci” (pag. 120). Fa tutto per non sentirsi del tutto inutile e per non passare come un incapace agli occhi della matrigna. Questa lo rimprovera perché Remigio non sa farsi rispettare come suo padre. Remigio non è avvezzo a trattare con imbroglioni e ruffiani che gli dicono una cosa, poi ne fanno un’altra. Tutto il piccolo mondo della borghesia cittadina viene messo sotto la lente di ingrandimento dall’autore, che vi trova solo arroganza, menzogna ed egoismo diffuso. Remigio che non ha gli artigli è destinato a soccombere.

Anche i salariati lo rimproverano perché il podere sta andando alla malora. Picciòlo si sostituisce a lui nell’acquisto di un vitellino alla fiera di bestiame vicino a Porta Camollia, dentro le mura di Siena. Il vitellino viene portato nella stalla. E’ gracile ma le cure di Picciòlo lo salvano. Remigio lascia fare. E’ sempre come inebetito. Gli altri lo invitano a spendere di più per il podere anche se sanno che non ci sono soldi: “Remigio sentiva la sfiducia; ma non sapeva bene di che si trattava. Gli dicevano: «Per il podere, bisognerebbe spendere di più!» E avevano l’aria di dirgli anche: «Lo sappiamo che i denari non ci sono!». Dopo questi discorsi, egli ricordava certe giornate; quando, guardando il turchino, gli era parso di vedervi l’immutabilità della sua tristezza. Ma, mentre allora gli restava come un compenso dentro la coscienza, ormai si trovava di fronte alle cose, come una inimicizia. Anche il suo podere era un nemico; e sentiva che perfino le viti e il grano si farebbero amare soltanto se egli impedisse a qualunque altro di diventarne il proprietario. La casa stessa gli era ostile: bastava guardare gli spigoli delle cantonate. Se non aveva l’animo di distruggerla e di ricostruirla, anche la casa non ce lo voleva. Da tutto, la dolcezza era sparita” (pag. 182).

La cattiveria degli uomini si abbatte sul povero Remigio. Vampate di fuoco distruggono in breve la bica di grano ammassato sull’aia:  “Non ci si vedeva più; con un’ombra così fitta, come se non esistesse più niente. Egli non sapeva che fare; e gli pareva che l’incendio della mucchia fosse già di un tempo lontano. Quando ricominciò a poter pensare, si faceva giorno; e, benché nelle vallate fosse nebbia, un chiarore umido e fresco si allargava sempre di più sopra i campi. Il cielo impallidiva e pareva che l’aria lo lavasse; e le caligini, che prima erano grigie, diventavano leggere e bianche. Allora, apparve la prima luce dell’alba; e tutte le cose ripresero colore: da prima sbiadite, ma poi con luccichii che abbagliavano. Su l’aia egli vide il monte della cenere e della paglia nera. Perché non era fuggito? Perché non fuggiva prima di rivedere qualcuno? Ma, chi sa da dove, un gallo cantò: allora, sentì che cominciava un’altra giornata: ne sentì, chiaramente, lo stacco e la differenza. Il gallo cantò un’altra volta; e Remigio quasi ebbe paura di non essere più in tempo a ricominciare la vita con tutti gli altri uomini. Verso la mezzanotte, Chiocciolino era passato davanti alla Casuccia; con un branco di vitelli, che portava di Maremma per conto di un mercante. Briaco e mezzo stordito dal vino, vide la mucchia del grano; e l’ombra sua fino nella strada: allora, pensò di darle fuoco. Lasciò andare avanti i vitelli; che, scalpicciando, alzavano una strisciata di polvere splendente in mezzo alla luce della luna. Nell’aia cavò la scatola dei fiammiferi, e ne accese uno; ma lo spense, soffiandoci. Stette lì almeno un quarto d’ora; poi accese un altro fiammifero e lo mise tra le manne: la paglia s’accese subito” (pag. 188- 189).

Il tribunale condanna Remigio perché non riconosce Giulia come erede della proprietà lasciata da Giacomo. Berto, in combutta con Giulia, è pieno di rancore verso il nuovo padrone nel quale vede il vecchio tiranno di Giacomo che lo aveva angariato per anni. E’ deciso di farla pagare al figlio. Di comune accordo, decidono di inoltrarsi nei campi per abbattere un’acacia. Porta con sé un’accetta. Luigia, la matrigna aveva scongiurato Remigio di non andare. Remigio non l’ascolta e si incammina con il salariato. “Ma l’odio di Berto s’era fatto sempre più forte; e, quando vedeva Remigio nel campo, gli veniva voglia di avventarglisi. Il lunedì mattina, Remigio gli disse di prendere l’accetta e di andare con lui a buttare giù una cascia, con la quale voleva rifare il timone del carro. Berto aveva il cuore grosso e gli tremava: il respiro pareva che glielo spezzasse. Cecchina gli disse: Non andare tu: digli che vada con Tordo. Ci vado io, invece! La donna non osò guardarlo in faccia, e non gli disse altro. Si mise a sedere, perché le girava la testa; e non poteva stare sola. Remigio aspettava Berto in mezzo all’aia; e, quando lo vide, gli disse: Possiamo andare. Si guardava attorno, come se qualcuno dovesse venire a chiamarlo; e gli venne in mente di dire a Luigia che egli andava giù con Berto alla proda del confine. Perciò si soffermò; ma cambiò subito pensiero. Camminava avanti all’assalariato, e voleva voltarsi per sorridergli; ma non poteva, ed aveva paura. In certi momenti, non l’udiva né meno, benché gli si avvicinasse sempre di più. Quando furono alla proda, pensò: Quest’altre cascie, tra due anni, saranno cresciute! Vide un pero giovane, che ancora non aveva il pedano forte, e pensò: Farà presto le pere, e sono di qualità buona!. Berto guardava il ferro dell’accetta e lo lisciava con una mano: il ferro, arrotato da poco, luccicava. Intanto, non c’erano più le zolle dell’aratura, e su la proda i piedi ci spianavano bene. Remigio seguitava a camminare avanti. Allora, infuriatosi, Berto gli dette l’accetta su la nuca. Qualche ora dopo, venne una grandinata. I pampini e l’uva acerba si sparpagliarono su la terra; insieme con le rame dei frutti schiantati. Luigia, piangendo abbracciata ad Ilda, mandò Picciòlo e Lorenzo a coprire Remigio con l’incerato del carro” (pagg. 220- 221). E’ il finale del romanzo.

La campagna senese

Molte pagine del romanzo hanno come protagonista la campagna senese. La Tressa, il torrente che è poco distante dalla Casuccia di Remigio, viene descritto ampiamente e con dovizia di particolari: “In mezzo a un prato, dall’altra parte della Tressa, c’era steso in terra il tronco di un melo, nero e marcio; che però aveva messo alcune foglie stente e di un verde patito. Mentre larghe prese di granturco luccicavano su per il poggio; e le ombre delle nuvole, rapide come se avessero fretta, passavano sopra l’erba e sopra le groppe di una mandria di bovi; salendovi come se le saltassero. La rugiada bagnava ancora le piante. I ciuffi dell’erba, specie del setolino, erano gremiti d’insetti. Su le cime dei pioppi, facendole tentennare, le passere andavano via e tornavano, a brancate fitte. Una fattoria era tutta chiusa e segregata dai suoi cipressi” (pag. 209). Le strade sono attraversate da fattori, sensali, salariati: “Sui prati, che cominciavano a fiorire, passavano gli uccelli quasi sempre lungo la Tressa; e una brancata, almeno di una quarantina, si posò sopra un salcio; empiendolo. Le anatre uscirono dall’acqua del fontone, dentro il quale s’erano capovolte e rovesciate le fronde più lunghe degli altri salici già con le foglie verdi. Le diligenze di Murlo e di Buonconvento arrivavano cariche di gente e di fagotti; e quelli dentro guardavano tutti insieme nella strada. Nell’aria c’era la giovinezza; e Remigio sentiva attaccarsi ad essa. Dopo poco, dimenticò del tutto ch’aveva questionato; ma, senza volere, dava occhiate di rammarico a quel ciliegio che il giorno avanti era tanto bello” (pag. 102). L’alluvione che distrugge tutti i coltivi ha come protagonista ancora una volta la Tressa: “La Tressa dette di fuori, allagando tutte le parti più basse dei poderi. Perfino su i poggi, il fieno era stato sparpagliato e interrato. Era impossibile riporlo, perché nella creta ci s’entrava con tutti i piedi. Il giorno dopo ripiovve, benché si fosse levato un vento che faceva travolgere la fila dei pioppi; un vento che buttava giù le frutta come se crollasse le piante”. Superba è la descrizione della mietitura del grano (pagg. 132 – 134). Fino ad una sessantina d’anni fa era possibile assistere alle stesse scene nelle nostre campagne. Bella è anche la descrizione della fiera di bestiame. Anche questo spaccato faceva parte dei nostri paesi.

Raimondo Giustozzi

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