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Libri. Il valore economico come prodotto collettivo

MicroMega

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di Nicolò Bellanca

La distinzione tra la produzione e l’estrazione di valore è apparentemente ovvia. Così Luciano Gallino la presenta all’inizio del suo Finanzcapitalismo: «L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo più efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si distrugge un bosco per farne un parcheggio»[1].

 

Non appena però si esaminano i singoli passaggi di un brano come quello appena riportato, i dubbi sorgono numerosi. Costruire una casa è sempre positivo, anche quando nessuno è in grado di comprarla, o anche quando viene edificata sulla collina panoramica? Fino a che soglia una variazione dei tassi d’interesse deriva da dinamiche mercantili, e da che punto in poi è invece una manipolazione speculativa? Se per creare un posto retribuito occorre che il lavoratore intensifichi i ritmi di lavoro, cosa è preferibile per il disoccupato? E così via. Malgrado i dubbi, una qualche distinzione tra attività che creano valore e attività che lo sottraggono e lo redistribuiscono non è evitabile. L’importante è che una tale distinzione sia resa esplicita e sorretta dalle migliori argomentazioni. In caso contrario, è probabile che i gruppi più forti e organizzati facciano surrettiziamente adottare dall’intera collettività una versione della distinzione a loro favorevole.

 

Il libro più recente di Mariana Mazzucato ruota intorno all’esigenza di chiarire chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo, e chi invece si limita a redistribuire, se non talvolta ad espropriare, il valore ottenuto da altri[2]. La ricerca viene introdotta dall’autrice richiamando un’altra distinzione: quella tra l’uso informativo o performativo di un messaggio. Informativo è l’avviso apposto sui pacchetti di sigarette: “Nuoce gravemente alla salute”. Se non seguo l’avviso il rischio è mio, ma posso far divergere l’azione dal messaggio. La performatività si realizza, piuttosto, quando la parola e il comportamento coincidono, ossia quando il messaggio si traduce immediatamente in una pratica sociale. Se il cartello segnala “Vietato fumare”, esprime un divieto che, se non lo rispetto, mi rende perseguibile. Ancor meglio, se il Sindaco proclama “Siete sposati”, rende con ciò stesso esecutivo il mio matrimonio. Mazzucato sostiene che i messaggi elaborati e trasmessi dalla scienza economica hanno in prevalenza un carattere performativo, puntando a modificare direttamente la realtà sociale[3]. Tra questi messaggi performativi, spicca il metodo adottato per misurare il flusso di nuova ricchezza delle nazioni: il PIL, ossia il valore totale dei beni e servizi prodotti nel sistema economico. Poiché la misurazione del PIL prende le mosse da un modo preciso con il quale valutiamo le attività economiche, essa contribuisce all’incremento di certe attività a scapito di altre[4]. Più esattamente, «la moderna nozione contabile di PIL è influenzata dalla teoria del valore sottostante che è usata per calcolarlo»[5]. Se dunque vogliamo rimettere in discussione i criteri di costruzione del PIL, che peraltro sono già cambiati più volte nel tempo, dobbiamo riesaminare la teoria del valore economico.

 

Torniamo quindi alla domanda iniziale: chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo? Mazzucato dedica una parte sostanziosa del libro a ripercorrere alcune tra le impostazioni teoriche storicamente più importanti. Una prima tesi risale ai fondatori dell’economia politica, gli economisti classici: per essi la creazione di valore economico è legata inestricabilmente alla produzione di nuovi beni e servizi, anziché alla circolazione di merci già prodotte. Il valore si forma lungo un processo che, combinando varie risorse, ottiene nuovi beni e servizi, mentre il valore si redistribuisce quando risorse e merci già esistenti vengono trasferite da un soggetto all’altro, e quando la loro commercializzazione comporta guadagni sproporzionati[6]. Una seconda posizione, denominata neoclassica, si afferma dalla fine del XIX secolo, mantenendosi dominante fino ad oggi: essa sostiene che è il prezzo di mercato a determinare il valore. Basta che qualcuno sia disposto a pagare per un bene o per un servizio, affinché l’attività che fornisce quella merce aggiunga valore; e basta che chi svolge quell’attività riscuota un reddito, affinché il guadagno di quel reddito sia giustificato. Dunque secondo i neoclassici ogni attività economica crea valore, purché il mercato la retribuisca; e ogni retribuzione è legittima, purché vada ad un’attività creatrice di valore. Questo approccio considera non generative di valore unicamente le attività prive di una domanda in grado di pagare, anche qualora esse soddisfino bisogni personali e sociali di decisivo rilievo; le attività del settore pubblico, che sono alimentate dalle tasse; e, infine, le attività che percepiscono un reddito «nella forma di trasferimenti, come i sussidi alle imprese o i contributi assistenziali alle famiglie»[7].

 

La terza e ultima tesi sulla creazione del valore che qui richiamo deriva dalle teorie keynesiane: per essa, a differenza dei neoclassici, le spese statali possono contribuire all’espansione dell’economia. Nella prima versione del Sistema di contabilità nazionale delle Nazioni Unite, risalente al 1953 e plasmata da questa tesi, il settore pubblico fu trattato non soltanto in termini di spesa, bensì pure come un fattore di crescita del reddito, il cui contributo al PIL (misurato solo con i salari da esso versati, senza contare gli acquisti statali di beni e servizi da privati) varia per gli Stati Uniti, dal dopoguerra ad oggi, fra l’11 e il 15%[8]. D’altra parte la finanza rientrò nel PIL soltanto come input intermedio, che contribuisce al funzionamento di altri settori economici. Tuttavia, dagli anni Settanta dello scorso secolo, gli attivi del settore finanziario (prestiti, obbligazioni, azioni e derivati bancari) iniziarono a crescere fino a diventare un multiplo dell’economia reale. Ecco che, sulla spinta della natura performativa dell’economics, ciò rovesciò i criteri di calcolo del PIL: mentre il settore pubblico venne riclassificato come improduttivo, nota Mazzucato, la finanza diventò produttiva[9]. La giustificazione avanzata fu che la “intermediazione finanziaria”, svolta dalle banche commerciali, e le “assunzioni di rischi”, affrontate dalle banche d’investimento, sono entrambe attività produttive in quanto muovono il capitale verso un’allocazione efficiente. Quando però, come spesso accade, l’allocazione dei capitali rimane ben lontana dall’efficienza, o addirittura scatena una crisi finanziaria provocando gravi perdite, il settore finanziario non perde la produttività che gli è stata conferita e non viene tolto dal calcolo del PIL[10].

 

Nell’illustrare dettagliatamente le convenzioni che presiedono al calcolo del PIL, Mazzucato documenta che esse vengono scelte non soltanto per giustificare un determinato assetto del potere economico, ma, soprattutto, per crearlo. Proponendosi di scardinare quelle convenzioni, ella persegue un programma politico, nel senso più alto del termine. La sua tesi è che la creazione di valore richiede sempre uno sforzo collettivo. Non sono i proprietari dell’impresa (gli shareholders, nel caso di una società per azioni) a generare da soli il valore economico; piuttosto, sono gli stakeholders (tutti i soggetti a vario titolo coinvolti) a innescare i percorsi innovativi, a sostenerli ripartendone i rischi, a rafforzarli con gli investimenti di lungo periodo e infine a beneficiarne con la distribuzione dei proventi. Accanto agli imprenditori e ai lavoratori, è lo stato l’altro cruciale stakeholder che partecipa alla produzione di valore istituzionalizzando i mercati, migliorando la produttività e la futura capacità di crescita dell’economia (con investimenti in educazione, innovazione, infrastrutture e salute), assumendosi rischi (con il finanziamento della ricerca di base e delle nuove tecnologie). Senza lo stato, il capitalismo semplicemente non potrebbe riprodursi.

 

Un primo limite del libro riguarda, a me pare, il modo semplificato con cui Mazzucato usa il concetto di performatività nel discutere le posizioni sull’origine del valore economico. È indubbio che nell’economics i messaggi intellettuali diventano azioni politiche, ma l’impatto di un messaggio dipende anche dalla sua robustezza, e questa a sua volta deriva da una filosofia sociale e da una modellizzazione analitica. Quando ad esempio Adam Smith o Karl Marx s’interrogano sulla “causa della ricchezza delle nazioni”, essi rispondono appellandosi ad «un’idea precisa sulla posizione che l’uomo occupa nell’ambito della natura: solo l’uomo è vivo, la natura è morta; solo il lavoro umano crea dei valori, la natura è passiva».[11] Si tratta di una filosofia nella quale il lavoro umano costituisce l’unico costo sociale reale dei beni,[12] e che, traducendosi nel modello del valore-lavoro, giustifica, nel XIX e in parte del XX secolo, le rivendicazioni politiche della classe operaia. Questo approccio perde forza per il convergere di tre motivi: le sconfitte politiche del movimento dei lavoratori, il ridursi della centralità del lavoro umano nel sistema economico e le difficoltà scientifiche del valore-lavoro. Se non teniamo adeguatamente conto dell’intreccio di motivi per i quali un messaggio intellettuale può avere impatto sociale, non capiamo perché il brano di Gallino riportato in apertura suona, allo stesso tempo, così seducente e così ambiguo. Esso seduce per il retroterra filosofico, analitico e politico che ce lo fa sembrare “ovvio”; quando però iniziamo a districare un filo dall’altro, cominciamo a coglierne l’ambiguità. Nel trattare le varie posizioni, e nel presentare la propria, Mazzucato evita di confrontarsi con questo complesso intreccio di motivi, e tende a enfatizzare le sole ripercussioni politiche, riferendosi ad un’accezione ristretta della performatività.

 

L’altro limite consiste, a mio avviso, nel ridurre la natura collettiva della creazione del valore alla partnership tra privato e pubblico[13]. Per Mazzucato, il contributo collettivo passa esclusivamente dal settore pubblico dell’economia. Tuttavia, secondo una diversa linea di pensiero, la produttività è, dentro l’impresa, espressione di una squadra (composta da lavori con vario livello di qualifica, beni strumentali e capitali di rischio), e gli apporti individuali non sono quasi mai calcolabili; a livello sociale, la produttività non dipende soltanto, come afferma Mazzucato, dai beni collettivi forniti dalle istituzioni politiche, poiché ad essa contribuiscono pure beni collettivi che si formano nell’ambito di altre sfere istituzionali (ad esempio, il capitale sociale che si sedimenta grazie ad una determinata tradizione civica, oppure il capitale culturale ereditato dalla storia locale) e che vengono resi disponibili dall’ecosistema (ad esempio, la terra fertile oppure l’acqua pulita). Se dunque adottiamo la concezione secondo cui il valore economico è un processo collettivo, la sua creazione va attribuita ad una molteplicità di fonti: private, pubbliche, sociali e ambientali. O, comunque, non va ridotta alla coppia imprese-stato.

 

Infine, Mazzucato ha ragione nell’osservare che la politica progressista non può limitarsi a propugnare la tassazione di redditi e ricchezze, e ad “aggiustare” le imperfezioni dei mercati esistenti. La sua proposta è che la sinistra ripensi «come dirigere a lungo termine l’economia»[14]. Si tratta di un’indicazione che recupera le ragioni profonde dell’intervento pubblico, il quale non è soltanto anticiclico, come in Keynes, bensì plasma intensità e qualità dello sviluppo. Ma non basta, a mio parere: collocandosi interamente dentro il binomio privato-pubblico, questo suggerimento trascura la problematica del cambiamento del rapporto tra economia e società, e quindi del distacco dall’orizzonte capitalista. Un tempo “uscire” dal capitalismo era la parola d’ordine di “frange estremiste” e di inguaribili utopisti. Oggi è una prospettiva inevitabile, per provare a salvare le collettività umane e il pianeta.

 

NOTE

 

[1] Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011, p.6.

 

[2] Mariana Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza, Roma-Bari, 2018.

 

[3] Su questi aspetti vedi Nicolò Bellanca, “La scienza economica dominante come religione pubblica” (2016), all’indirizzo http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-scienza-economica-dominante-come-religione-pubblica/

 

[4] Quello che misuriamo ha delle conseguenze su ciò che facciamo, e se misuriamo la cosa sbagliata faremo la cosa sbagliata. Vedi al riguardo il recente rapporto OCSE, Beyond Gdp: measuring what counts for economic and social performance (2018), diretto da Joseph Stiglitz e altri: vedi all’indirizzo http://www.oecd.org/corruption/beyond-gdp-9789264307292-en.htm

 

[5] Mazzucato, Il valore di tutto, p.84.

 

[6] Entro il filone dell’economia classica, ma con significative differenze, si colloca la posizione di Marx. Assumendo l’esclusiva produttività del lavoro vivo, per Marx è produttivo il lavoro che, essendo pagato dal capitale, genera prodotto netto nella forma specifica del plusvalore. Al contrario, è improduttivo il lavoro che, pagato dalla spesa del reddito, non genera plusvalore perché non è inserito in un rapporto capitalistico. Questa posizione prima costruisce una teoria del modo di produzione capitalistico, per poi dedurre che sono produttivi soltanto i lavori che rientrano nell’oggetto teorico. Invece di interrogarsi sui requisiti del lavoro “vero” e di quello fasullo, essa classifica i lavori secondo un semplice e coerente criterio in-out: se essi rientrano o meno nei rapporti capitalistici di produzione.

 

[7] Mazzucato, Il valore di tutto, p.73.

 

[8] Ivi, p.94.

 

[9] Ivi, p.21.

 

[10] Il bersaglio polemico dell’autrice è, dalla prima all’ultima pagina, la finanziarizzazione dell’economia. Analogamente a Gallino nel brano riportato all’inizio, Mazzucato ritiene che sia ovvio dichiarare improduttivo il settore finanziario. Nonostante la simpatia che molti di noi possono nutrire verso questa tesi, occorre rimarcare che essa richiederebbe una solida fondazione di filosofia sociale e teorica, che sembra mancare nel libro. Riporto qui due tra i passaggi più espliciti. «I servizi bancari sono certamente necessari per far girare gli ingranaggi dell’economia. Ma ciò non significa che gli interessi, e le altre commissioni applicate agli utenti dei servizi finanziari, costituiscano un “output” produttivo. Se tutte le aziende potessero finanziare i loro investimenti tramite utili non distribuiti (il profitto che non distribuiscono agli azionisti) e tutte le famiglie potessero finanziare i loro investimenti tramite i risparmi, il settore privato non dovrebbe chiedere prestiti, non si pagherebbe alcun interesse e il credito bancario sarebbe superfluo» (Ivi, p.118). Si tratta di un’argomentazione che lascia perplessi, poiché varrebbe per un’economia in cui il risparmio alimenti il credito, diversamente da quella capitalista, nella quale, come Mazzucato ben sa, sono invece i prestiti ad alimentare i depositi (Ivi, p.128). Dato che viviamo nel capitalismo, quell’argomentazione finisce, suo malgrado, per giustificare la finanza. Non più robusto appare un altro argomento: «bisogna dire che certe attività bancarie non sono produttive, specie quando diventano troppo complesse e troppo grandi per i reali bisogni dell’economia» (Ivi, p.165). Ma quando è che il troppo è “troppo”? E cosa sono i “reali” bisogni dell’economia? L’autrice sta legittimamente invocando criteri politici. Essi non vanno però spacciati come ovvietà. Al contrario, ogni criterio politico è una presa di posizione partigiana e tendenziosa, che necessita di forti ragioni.

 

[11] Gunnar Myrdal, L’elemento politico nello sviluppo della scienza economica (1929), Sansoni, Firenze, 1974, p.88.

 

[12] Vedi Marco Lippi, Marx, il valore come costo sociale reale, Etas, Milano, 1976.

 

[13] Mazzucato, Il valore di tutto, pp.294-295.

 

[14] Ivi, p.284.

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