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Libri. Con gli occhi chiusi.

con-gli-occhi-chiusi

Analisi del titolo: probabilmente il titolo del romanzo deriva in parte dal fatto che Tozzi tra il 1904 il 1905 soffrì di una grave malattia agli occhi che lo costrinse a restare chiuso al buio per molti mesi, e quando guarì non ne volle sapere di vedere né amici o altre persone, tanto che fu creduto pazzo. E’ anche vero però che il titolo può riferirsi a una frase del romanzo riguardante Pietro: “Stava seduto sul letto con gli occhi chiusi“; incapace di partecipare attivamente alla vita, il personaggio ha la sensazione di essere cieco per forza, di essere tagliato fuori dal mondo esterno, prigioniero. Il titolo quindi può avere un doppio significato: un primo allude all’incapacità di vedere la verità; il secondo è da collegarsi con un rifiuto e una paura di vedere.

federico tozzi

Federigo Tozzi, dopo le elementari al seminario, frequentò per tre anni le scuole tecniche e, accanto agli studi saltuari e disordinati, cominciò a frequentare la biblioteca comunale per leggervi autori moderni e classici, sviluppando una cultura frammentaria e autodidattica, ma anche vivace e aperta alle suggestioni più disparate, come la psicologia di William James e i moderni studi sull’isteria.

Dopo l’esordio con i componimenti in versi di Città della Vergine e la curatela di antologie di antichi scrittori senesi, fondò nel 1913 con l’amico Domenico Giuliotti il quindicinale “La Torre”; poi, volendo allontanarsi da Siena, andò a lavorare nelle ferrovie, a Pontedera e a Firenze, e da quest’esperienza nacque una sorta di diario, Ricordi di un impiegato. Lo richiamò a Siena la morte del padre, che non l’aveva capito e amato. Da quel ritorno traumatico venne l’ispirazione per le numerose novelle e gli importanti romanzi che avrebbe scritto: Con gli occhi chiusiIl podere, Tre Croci e, soprattutto, Bestie, che resta forse il suo libro migliore.

Si era intanto trasferito a Roma, con l’intenzione di guadagnarsi da vivere collaborando a giornali e riviste letterarie, mentre l’Italia entrava in guerra. Benché cominciasse ad affermarsi e fosse in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali, da Alfredo Panzini a Luigi Pirandello, da Alfredo Oriani a Giuseppe Antonio Borgese, la sua vita non fu facile. La fama lo raggiunse quando Borgese salutò come un capolavoro, il suo ultimo libro, Tre croci. Era l’inizio del 1920; poco dopo, si ammalò di polmonite e morì.

Il romanzo fu scritto nel 1913, ma prima di essere stampato e pubblicato ebbe dietro di sé una storia laboriosa e pluriennale che comprendeva la prima Guerra Mondiale e altre vicende editoriali che si conclusero nei primi mesi del 1919.

Punti nodali:

  • La trattoria a Siena e il conto dell’incasso
  • I dispetti di Pietro verso Ghisola
  • Pietro cattivo studente
  • Antonio e Pietro, rivali per Ghisola
  • La morte di Anna
  • Problemi tra Domenico e Pietro
  • Pietro incapace di aderire alla vita e di studiare
  • La cattiva fama di Ghisola a Radda
  • Ghisola e l’accordo con il commerciante
  • Un amore quasi finto
  • Pietro apre gli occhi

 

Siena, la città di Pietro Rosi e di Federigo Tozzi

Se Praga è la città di Kafka, Trieste è anche di Italo Svevo, perché lo è di James Joice, Umberto Saba, Giani Stuparich, Scipio Slataper, Siena è la città dove Tozzi è nato e Pietro del romanzo “Con gli occhi chiusi” ne è il suo alter ego. Tozzi e Rosi sono preda della complessità insondabile e misteriosa dell’ambiente e di Siena in particolare di cui Tozzi dà prova di uno straordinario esempio di descrizione cubista: “Ma a Firenze, in quelle poche ore, gli pareva d’esser sempre a Siena, in cima alla via di Camporegio, dove era andato tutti i giorni quando faceva la scuola tecnica. È breve la distanza tra la mole rude e rossiccia di San Domenico e le case che s’arrampicano alla rinfusa, un’altra volta, in ogni direzione attorno al Duomo, fermandovisi sotto a pena che lo toccano; ma, a guardare di lì la profondità vuota di Fontebranda, ci si sente mozzare il respiro.

L’Ospedale, alto su le mura, rosso sangue, lo vedeva doventare del colore della terra bruciata; il turchino del cielo, bigio. E poi le prime stelle, qua e là, così sparse che gli facevano angoscia.
I vicoli, simili a spaccature e a cretti enormi, s’anneravano.

Tra i giardini e gli orti, l’uno più alto dell’altro, chiusi dentro i muri rettangolari, che spesso hanno a comune, nelle insenature o nelle sporgenze delle colline, e seguendo i loro pendii diseguali, il barlume della notte gli sembrava che cadesse come quando piove a dirotto.

Un briaco cominciava a cantare e poi smetteva. La Costaccia come il parapetto d’un abisso, e il Costone quasi a picco; con il suo arco greve e largo che lo tiene fermo perché sopra ci passi un’altra strada, salgono di squincio verso le case.

Non due tetti della stessa altezza, anche se accanto. Grumoli piccoli e grandi di case che s’allungano parallelamente obliqui e storti: alcune volte le case stanno a due e tre angoli l’uno dentro l’altro, a cerchio, a nodi, serrate insieme, mescolate, aggrovigliate, con curve rotte o schiacciate, sempre con improvvisi cambiamenti; obbedendo alle forme delle colline, ai pendii e alle svolte delle vie, alle piazze che dall’alto paiono buche.

Ad un tratto, uno stacco tra due case, e poi le altre che s’afferrano e si tengono ancora, con forza, pigiandosi e abbassandosi e poi risalendo e girando per sparire leste leste dietro quelle che hanno un movimento affatto diseguale e che vengono incontro dalla parte opposta; salite su; ma anche queste s’interrompono quasi subito per doventare una raggiera più larga, irregolare, tutta piana oppure contorta; dentro la quale si mettono e s’avventano case, di sghembo, a traverso, come riescono e possono; spinte da altre che fanno l’effetto di volersi accomodare meglio ed assestarsi, ciascuna per conto proprio.

Le case, bassissime, quasi per affondare nella campagna, da Porta Ovile, da Fontebranda, da Tufi, sorreggono quelle che hanno a ridosso, le trattengono dalla loro voglia di sparpagliarsi più rade; i punti più alti sono come richiami alle case costrette ad obbedire per non restare troppo sole.
Nei rialzi sembra che ci sia un parapiglia a mulinello, negli abbassamenti le case precipitano l’una addosso all’altra; come frane. Oppure si possono contare fino a dieci file di tetti, lunghe lunghe, sempre più alte; di fianco, altre file che vanno in senso perpendicolare alle prime.

La Torre del Mangia esce fuori placida da tutto quell’arruffio. E attorno alla città, gli olivi e i cipressi si fanno posto tra le case; come se, venuti dalla campagna, non volessero più tornare a dietro” (F. Tozzi, con gli occhi chiusi, pagg. 148- 149, I grandi classici della letteratura italiana, Milano, 1995).

 

 

 

Il mondo di Pietro, la sua psicologia

 

Pietro incontra Ghisola nel podere Poggio a’ Meli. Ghisola è una ragazza molto carina e graziosa. Rappresenta una persona vera esistita nella vita di Tozzi, della quale si invaghì. Quando il padre se ne accorse la cacciò e questa andò a lavorare a Firenze e tutto corrisponde al romanzo. Dopo essere andata via dal suo paese perché vista come la donna di tutti, a Firenze fa la “mantenuta” in casa di un notaio più anziano di lei del quale rimane anche incinta. Il tutto finisce in una casa chiusa, dove la ragazza è scoperta da Pietro. Nei suoi confronti, Pietro rimane come inebetito, incapace di prendere iniziative.

 

“Pietro, con gratitudine, sentiva vicino a Ghìsola le sue prime emozioni delicate. Ammirò un fiore quando gli venne voglia di coglierlo per lei; e, non arrischiandosi, lo buttava via; quando era ancora per non crederci, provando una diminuzione di se stesso. E come tutta la natura gli apparve a un tratto misteriosa, con violenza! Qualche cosa da disperarsene!

Era stato bocconi in terra, chiudendo tra le braccia un pulcino per tenerlo con sé! Aveva aiutato le formiche, togliendo dal loro cammino un bastone che dovevano valicare esitando e poi disperate: tremolando con un chicco troppo grosso, che le faceva cadere capovolte! Teneva con tenerezza un indovinello in mano, e lo rimproverava quando volava via!

Cercava di superare le sue malinconie; ma non poteva dimenticarle quanto avrebbe voluto. Talvolta ne era distaccato di soprassalto; e allora gli veniva uno stato mentale confuso e torbido che pareva sempre per andarsene. E aveva l’illusione che il suo spirito assumesse così enormi proporzioni che i suoi pensieri vi si smarrivano dentro, insieme con i loro echi improvvisi, come in una stanza troppo grande. Quante volte non s’era considerato perduto, mentre le immagini esteriori lo invadevano senza tregua! Ora gli pareva di avere la propria anima; ora diminuiva; mentre questi movimenti gli davano un malessere come quello delle vertigini. Talvolta gli pareva di trovarsi a scuola dove tutto a un tratto entrava una grancassa; e allora si sentiva tanta voglia di ridere che si spaventava, soffocando il grido dell’incubo. Anna credeva che avesse male; e gli metteva una mano su la fronte, dicendogli: – Ti viene la febbre? Egli gridava, allora: – No! No! Lasciami stare!” (pagg. 40- 41).

Un’altra caratteristica di Pietro è l’inadattabilità alla realtà che lo circonda che vede sempre e comunque come nemica e ostile. Il padre Domenico Rosi è il tipico padre padrone che ha fatto fortuna dal nulla e che pretende di sapere tutto solo perché è il padre. Egli non accetta il figlio malaticcio e incombe su di lui fino a schiacciarlo. Disprezza la cultura. Quando vede il figlio con un libro in mano avrebbe voglia di dargli uno scapaccione. Solo alla fine Pietro, vedendo il grembo di Ghisola vede la vera realtà, apre gli occhi e se ne va: “Allora egli, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto, vide il suo ventre. Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghisola, egli non l’amava più” (pag. 183).

Pietro ascoltava, ma gli pareva che le persone intorno a lui agissero come nei sogni; e la mamma, rivolgendosi a lui, doveva ripetere due o tre volte la stessa cosa: – Ma perché sei così distratto? E pure tu capisci quel che si dice! Egli, con un’apprensione strana, temeva di rispondere. E dalla sedia andò sul canapè, incapace di sottrarsi a una specie di spavento a cui s’era abituato; subendo quel fascino di allontanamento, che talvolta gli dava un terribile benessere; finché il sonno non gli fece ciondolare la testa su le ginocchia. Ghìsola, ad un cenno della padrona, gli si avvicinò e gli bucò, appena, con un ferro della calza, una mano, perché si smuovesse. Pietro finse prima di non sentirla, ancora immerso in quel suo abisso schiacciato. Poi, senza alzare gli occhi, la maltrattò. Ora Ghìsola apparteneva a quella brusca realtà meno forte delle sue astrazioni. Sentì tale differenza, con pena acre” (pag. 34).

 

Pietro, piccolo, fragile, magro, debole è l’immagine opposta del padre, assomiglia sia fisicamente sia psicologicamente alla madre. Pietro è condannato a vedere il mondo “con gli occhi chiusi”: ipersensibile, afflitto da una serie di sintomi patologici, figlio di una donna epilettica, presenta tutti gli elementi necessari per la compilazione di una cartella clinica; ma il sintomo che prevale tra tutti è l’inibizione, derivata dalla paura del padre. Nel personaggio di Pietro c’è una grande analogia con Franz Kafka: infatti, in entrambe le vicende ci sono un padre dominatore e una madre remissiva, vittima rassegnata dei tradimenti del marito, da lui confinata a un ruolo di poca importanza nella famiglia. Il padre è egocentrico e dispotico, violento e lussurioso, attaccato alla “roba“. Non per niente, il romanzo comincia con il conto che il padre fa della giornata appena trascorsa. La trattoria “Pesce Azzurro” è come una catene di montaggio. Vi lavorano donne, uomini, cuochi, camerieri, guardarobieri, sguatteri.

Anna è la mamma di Pietro. Si dedica molto a suo figlio e lo ama con un affetto quasi ossessivo, insieme condividono il destino di cecità. Si può affermare che hanno quasi lo stesso punto di vista. E’ una donna molto malata, soffre infatti di crisi epilettiche, ma si accontenta di così com’è. Viene dalla povertà più estrema. Domenico l’aveva sposata quando Anna aveva vent’anni. Era bastarda e senza dote, piuttosto bella e più giovane di lui. Vede il figlio debole e fragile e sempre da proteggere; questo amore però non è ricambiato. Anna e Pietro sono succubi di Domenico, lei come moglie, lui come figlio.

Anna è una vinta. Somiglia in alcuni suoi tratti a molti personaggi del Verga. Non ha avuto niente dalla vita, solo Pietro verso il quale nutre tanto affetto che non sa però manifestarle: “Quando Anna aveva avuto le convulsioni, restava tutto il giorno stesa nella poltrona; dentro la trattoria. Il suo volto doventava bianco; e Rebecca, assistendola, le slacciava il busto. Ma siccome i cuochi e i camerieri avevano sempre qualche cosa da chiederle, ella riapriva gli occhi, guardava fisso; e poi, scuotendosi tutta, rispondeva. Perché il marito non s’inquietasse di più, non voleva andare a letto. Ma in quei momenti sentiva una grande angoscia, perché era incapace di badare a Pietro. Le sembrava di non appartenere più alla vita, di non avere mai fatto niente per lui. E allora quella specie di quiete, che le dava l’agiatezza, era sempre sciupata dal ricordo della sua miseria. Ella diceva: – È impossibile esser contenti come vorremmo! E la stanchezza di esser vissuta era così amara che aveva paura di non sentirsi più buona. Il sentimento della morte le era sempre presente, e non le bastava credere in Dio. Ella si metteva a guardare Pietro con questo sentimento, e ne provava uno sconforto che le faceva perfino paura. I suoi nervi scossi dalla convulsione le prolungavano un senso indefinibile di dolore desolato; perché era avvezza a dover guarire da sé, senza sentire mai che gli altri potevano farle qualche cosa. Ma sperava di guarire, non perché credesse al medico, ma perché aveva Pietro. Ella non gli sapeva parlare; capiva ch’egli cresceva senza che riuscisse a farselo proprio suo, a dirgli almeno una di quelle parole che avrebbero dovuto consolarla. Anche quando l’aveva vicino, restavano come due che avessero l’impossibilità d’intendersi. Pietro evitava sempre di farle sentire che le voleva bene, per paura di doventare troppo obbediente; ed ella si disperava troppo e senza ragione di qualche sua scappata” (pag.64, 65). Rimasto solo a seguito della morte della mamma, Pietro incupisce sempre più. Nemmeno l’amore che nutre verso Ghisola riesce a salvarlo.

Tra gli altri personaggi c’è da ricordare il piccolo Agostino, rivale in amore di Pietro. Alberto è l’amico e il protettore di Ghisola a Radda, quando la ragazza viene allontanata da Domenico dalla sua casa. Masa, Giacco, Rebecca e Adamo e tutti gli altri sono gli “assalariati” di Poggio a’ Meli.

Anche a scuola, Pietro colleziona insuccessi, affatto interessato allo studio: A scuola Pietro motteggiava i più vicini di banco con la sua ilarità nervosa; li costringeva a dargli retta, li chiamava con soprannomi faceti, li offendeva se non gli davano retta. E anche quando tutti tacevano, né meno udiva la voce dell’insegnante; quantunque qualche risposta dei compagni gli arrivasse agli orecchi con un rammarico strano. Stava per prendere la licenza elementare, ed era il più grande e il meno bravo; e i seminaristi lo canzonavano. Qualche volta, dopo aver cercato di comprendere, si sforzava a badare a tutta la lezione rimanente; e sentiva quasi gusto ad aumentare la disistima di tutti, benché se ne compiangesse. Quando era stato attento, usciva con la mente quasi stravolta, con un peso dentro le tempie, incapace di mettersi a studiare; stanco sfinito; senza aver fatto nulla: lasciava un libro e ne prendeva un altro, lasciava anche questo e non leggeva; non s’accorgeva né meno più d’averli dinanzi” (pag. 45). Pietro frequenta la scuola annessa al seminario come esterno. Anche Federigo Tozzi frequentò la scuola annessa al seminario come sterno, ma venne cacciato. La vita reale viene trasferita nel romanzo: “Pietro era doventato così negligente, che verso il mese di maggio il rettore non lo volle più alla scuola. Domenico lo percosse con lo scheggiale dei calzoni, fino a far piangere anche Anna. Ma, il giorno dopo, nessuno gli disse più niente” (pag. 57). Scheggiale è la cintura dei pantaloni.

 

Le ossessioni di Pietro sconfinano nella paranoia. Il ragazzo è chiuso dentro ad una malattia dell’animo che non gli lascia scampo: “Gli altri facevano di lui quello che volevano, e a lui si stringeva la gola dall’emozione. Arrossiva, si sgomentava; sentivasi perso. E nessuna cosa era adatta per lui: le strade troppo faticose, il sole troppo caldo, gli abiti tagliati male, le mani troppo grosse; affannandosi a non riflettere a ciò, di convincersi del contrario; stordendosi; mentre gli orecchi gli rombavano, e credeva di dover cadere da un momento all’altro. Gli sembrava che la sua faccia non fosse capace a nascondere la lealtà troppo aperta e ostinata; provandone una violenza che gli dava il malessere. Si sentiva debole sotto il suo spirito affannato, che egli stesso voleva cambiare” (pag. 67).

 

Ghisola e Pietro si cercano, ma anche quando stanno assieme non riescono a dirsi nulla, anzi si fanno i dispetti l’uno verso l’altro; in questo è sempre il ragazzo a prendere l’iniziativa e chiudersi poi nel silenzio. Una costante in tutti i romanzi di Federigo Tozzi è la partecipazione della natura al male di vivere dei personaggi problematici. Pietro vive male il confronto con Antonio che nutre un qualche affetto verso Ghisola, anche se lo fa solo per un gesto di sfida verso l’amico: “Ghìsola sembrava più lieta, si mandava in dietro i capelli; toccava il laccio del grembiule, come per invitare a farselo sciogliere. Ma Pietro credeva che se ne volesse andare, perché non riesciva a dirle niente. Il ciliegio aveva il pedano nero e rossiccio, aperto da profonde screpolature come spacchi, ripieni di resina dura e lucente; una fila di formiche saliva, ed un’altra, accanto, scendeva, brulicanti; pareva di sentirsele camminare addosso. Vicino, su l’erba acciaccata, c’era rimasta una pozzanghera di solfato di rame incalcinato. Sopra un fragolaio pendeva un fico, senza né meno una foglia, tutto liscio, con i rami quasi arruffati insieme; e la sua buccia era di un bianco roseo. Qualche rospo s’udiva dai fondi dei borri, tra i salci potati e rossi. Pareva che non ci fosse nessun’ombra; ma le nebbioline, che restavano basse come le piante, salivano dalle terre vangate” (pag. 70). Pietro si isola e si allontana sempre più: “Talvolta, le veniva voglia di nascondere tutto il viso; e di restare così; di non essere veduta che dall’aria; di non mangiare più, di morire senza accorgersene. Le veniva anche voglia di gridare; e aveva paura” (pag. 74).

 

Terminata la scuola elementare, poiché il ragazzo manifestava un qualche interesse verso il disegno, viene iscritto alle belle arti. Anche Tozzi seguì la stessa trafila. Ma sia per Pietro che per Tozzi, la nuova scuola si risolse in un fallimento. Ambedue approdano alle Scuole Tecniche: “Per non tenere Pietro proprio in ozio, Anna lo mise alle belle arti; perché aveva sempre avuto una certa tendenza al disegno, che a lei e a qualche avventore era sembrata da non trascurare. Una mattina, in casa, ricopiando un brutto ritratto a stampa, Pietro si chiese perché provasse quell’indefinitezza per Ghìsola. Allungava e piegava il collo per veder meglio gli effetti; ma il disegno, a malgrado de’ suoi sforzi, era incerto e sbagliato, Si stupiva di non riescirci; e arricciava in giù e in su le labbra, fino a toccarsi la punta del naso. I libri di quando andava a scuola, sporchi e slegati, erano tra i suoi piedi. Urtandoli provò un lieve malessere, che lo distrasse. Anche il disegno lo irritò. Una specie di struggimento a lui noto assalì il suo cervello come una polla diaccia, che non gli permetteva mai di fare qualche cosa. Anche gli sembrava strano d’esistere; perciò ebbe paura di se stesso, e cercò di dimenticarsi, fissando lungamente le palme delle mani finché riuscì a non scorgerle più. Allora percepì un dolore dietro la scapola sinistra; al quale gli parve ridotto tutto il suo essere. E dopo un pezzo, si avvide che il tavolino sul quale lavorava, essendo troppo basso, gli aveva aiutato quell’assopimento. Si alzò. La matita cadde, spezzandosi. Raccattò i pezzettini con un vivo dispiacere quasi superstizioso: «Perché è caduta?». Esaminò il ritratto e poi la copia; e si sentì tanto scoraggiato che ne provò quasi affanno, come il culmine dell’indecisione e del dubbio che mai lo lasciavano in pace. E in tanto, un raggio di sole, un raggio pieno di sonno, aveva invaso tutto il foglio di carta. E Pietro pensò: «È finita. Non vado più avanti” (pag. 77).

 

La morte della mamma è per Pietro una tragedia, anche se non ne è affatto cosciente, per Domenico è un qualcosa che irrompe nella sua vita di piccolo borghese, intento solo a far soldi. Sarebbe stato meglio che non fosse mai avvenuta. Prova quasi fastidio, anche se per la circostanza non può fare a meno di piangere in presenza degli altri che sono accorsi: “ – Domenico, questa volta… Quella povera donna! Egli gridò: – Mi lasci! È una convulsione. Ma si sentì gelare tutto, con un gelo che gli veniva a ondate, dalla cima delle dita e si fermava nel mezzo del capo. Credette, lì per lì, che si trattasse di un turbamento della sua intelligenza; ma il respiro affannoso, a lui che respirava così bene, gli ricordò che la cosa quasi presentita era ormai venuta. Come affrontarla? Come vedere Anna morta? Doveva proprio andarci lui? E quando entrò nella camera, i muri e le porte traballavano e si spalancavano da sé, credette di non vedere niente. Poi toccò il volto già freddo e un po’ rigido; e allora chiuse gli occhi, si buttò sopra la moglie e cominciò a piangere. I suoi gridi stessi lo facevano tremare. A poco a poco sentì il suo dolore. Tutta la sua enorme violenza, ora, gli pareva cambiata in paura; gli pareva che Poggio a’ Meli fosse trascinato via lontano ed egli non aveva il tempo di far qualche cosa; gli pareva che gli usci della sua trattoria si chiudessero da sé e non volessero esser riaperti; e che Anna avesse tanto sofferto per non poter parlare; e tutto crollava in lui” (pag. 84). Pietro assiste come inebetito alla morte della mamma: “Pietro, senza provar niente, all’infuori di una vaga inquietudine, si appoggiò ai guanciali e cercò di piangere: dentro di sé chiedevasi se anche gli altri sentissero così poco e provò una consolazione indefinibile quando il padre fu allontanato in modo ch’egli non vide e non udì il suo dolore; che gli era antipatico come le sue collere” (pag. 85). Domenico non si risposa. La morte della moglie è per lui un danno economico. Vorrebbe che Pietro si sposasse anche per sostituire in casa una donna che stia dietro anche alla trattoria. Ma il figlio non ci pensa proprio a sposarsi.

Il rapporto tra padre e figlio, dopo la morte di Anna, diventa sempre più burrascoso: “ – Tu non saprai mai essere un padrone. Come farai a comandare se tu stesso non impari? Ora parlava con il figliolo per sfogarsi; e il suo rimprovero era pieno di bontà. Poi, presi in mano tutti i mazzi degli uccelli da cuocere allo spiedo, gli disse: – Questo è un tordo, e questa un’allodola: aiutami a pelare. E si sedé dinanzi a un gran paniere, dove andavano le penne. Ma Pietro era così distratto che canticchiò un poco, sottovoce; e poi rispose: – Se tu sei contento, vado a leggere un libro. Domenico finì d’infilare in uno spiedo gli uccelli già spennati, pose in ordine il girarrosto; poi gli chiese: – Che libro è? – Quando te l’ho detto, non capirai lo stesso. Domenico, tenendo una mano alzata, sentenziò con la sua aria di padrone: – Io me ne intendo più di tutti gli scienziati, perché sono tuo padre. Nessuno meglio di me sa quello che ci vuole per te(pag. 92).

“Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d’avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque! Toccava il suo collo esile, con un dito sopra le venature troppo visibili e lisce; e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una colpa. Ma questa docilità, che sfuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva voglia di canzonarlo. Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia. Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato da mangiare a credito. E intanto Pietro gli aveva fatto spendere le tasse tre anni di seguito per la scuola tecnica! Dopo averlo guardato, a lungo, su un orecchio o su la nuca debole e vuota, faceva gesti belluini, mordendosi il labbro di sotto, piantando all’improvviso un coltello su la tavola e smettendo di mangiare. Pietro stava zitto e dimesso; ma non gli obbediva. Si tratteneva meno che gli fosse possibile in casa; e, quando per la scuola aveva bisogno di soldi, aspettava che ci fosse qualche avventore di quelli più ragguardevoli; dinanzi al quale Domenico non diceva di no” (pag. 105).

 

Pietro, anche per far torto al padre non si reca mai a messa, bestemmia e si iscrive al partito Socialista ma non perché ne sa qualcosa ma solo per ribellione verso le ingiustizie: “Entrò nel partito socialista, e fondò perfino un circolo giovanile. Prima di nascosto, e poi vantandosene con tutti quelli che capitavano nella trattoria. La sua ambizione doventò, allora, quella di scrivere articoli in una Lotta di classe, che usciva tutte le settimane. E se la polizia lo avesse fatto arrestare, sarebbe stato contento. Sognava processi, martirii, conferenze ed anche la rivoluzione. Quando un altro lo chiamava «compagno», si sarebbe fatto a pezzi per lui; senza né meno pensarci” (pag. 106). Tutti gli inviti anche violenti del padre che lo aiuti in trattoria o nel podere rimangono lettera morta, mentre Domenico raddoppia le forze per stare dietro a tutto. Belle le pagine dedicate ai diversi mendicanti che passano per la trattoria (pagg. 112- 115). Domenico segue tutti i lavori del cuoco, dei camerieri, rimproverando un po’ tutti, anche per far sentire la presenza del padrone.

 

Pietro si iscrive all’Istituto Tecnico di Firenze, dopo aver fatto privatamente, quasi da sé, il primo corso a Siena. Anche  questi nuovi studi si risolvono in un nulla di fatto: “Tra i compagni, si sentiva un giovane che aveva già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e volentieri, li chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli insegnanti gli dava un senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel che li divertiva; e, molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava. Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi” (pag. 119). Dopo quattro mesi di scuola, decide di ritornare a Siena. Il padre pensa che sia stato un miracolo. Pietro invece pensa a Ghisola che è a Radda nel proprio paese di origine assieme alle sue due sorelle. Intanto vive giorni sempre uguali in preda ad una stanchezza infinita senza fare nulla di importante: “Talvolta, all’improvviso, pensava a Firenze e a Ghìsola che forse, aspettandolo, gli avrebbe fatto un rimprovero che lo esaltava; all’Arno scrociante; a tutte le colline sempre belle; a quelle nebbie che lasciano i muri bagnati, annerendo le pietre delle strade che sembrano rappezzature. Il padre, parlando, gli produceva una malinconia invidiosa: e si allontanava per non udirlo, per non vederlo; con un brivido. Perché nessuna parola era proprio per lui? Perché lo trattavano come se lo tollerassero, anche ora? Perché tentare invano di essere come gli altri? Come erano fatti gli altri? Ripensava ai compagni di Firenze, ad uno per volta. E perché loro, forse, non lo ricordavano né meno? Da quanto tempo era morta la mamma? Gli parevano cento anni. E tutte le cose s’erano svolte senza bisogno di lui; a sua insaputa. I suoi occhi, che avevano una mansuetudine mistica, contrastavano con le linee magre e sfuggenti del volto; sì che subito se ne notava la differenza. Aveva quelle indefinitezze profonde e persistenti, senza nome e senza mèta; che lasciano una traccia anche quando sono passate, come si vede se è passata l’acqua su la rena. Credutosi inferiore ai suoi amici di Siena, ora conosceva lo sbaglio acre; che poteva aver conseguenze anche nell’avvenire simile ad un’espiazione arida. Ma perché aveva sperato di poter doventare un pittore? Che significava quel tentativo inutile, dinanzi al suo amor proprio? Poteva non tenerne conto, per credere ancora a se stesso? Si confortava, sognando un’esistenza nuova e insolita” (pag. 121).

Ghisola, a Radda fa parlare molto di sé. E’ contesa  da due amanti: Borio di Sandro, un vedovo amico di famiglia. “Borio ci si era perso, e l’avrebbe sposata. Ma anche il suo fattore la possedette; e ambedue, per gelosia, ne sparlavano con tutti; allora molti di quei giovanotti, da lei respinti, non la lasciavano più in pace” (pag. 128). Pietro sa che lei è a Firenze. Ritorna allora nella città dove aveva studiato qualche anno prima: “Pietro si commoveva fino a pensare: «Se anche fosse disonesta per necessità di non patire la fame, io non potrei approfittarne. Piangerei. L’aiuterei a fare in modo che si cambiasse. Qualcuno, allora, potrebbe stimarla e sposarla. Ma me lo avrebbe detto. Perché non me lo dovrebbe dire?», E, per contrasto al dubbio, gli pareva d’una purità mirabile. Allora ne era geloso e piangeva. «Deve esser mia! Voglio amarla io! Perché non dovrei amarla?» Non era anche il suo dovere morale? Ma come trovare il modo di star meglio che in casa del padre? Ghìsola gli aveva detto: – È ricco; dipende tutto da lui. Ma egli non vorrà di certo. Domenico, quando Pietro, tornato da Firenze, gli disse ch’era innamorato di Ghìsola e che, se fosse stato contento, aveva deciso di sposarla, non gli rispose né meno; ma si sentì aizzato contro di lui come la volpe quando le hanno accesa la paglia dentro la tana (pag. 147).

 

Un giorno, arriva a Pietro una lettera dove era scritto” Ghisola lo tradisce. Se vuole la prova, vada in via della Pergola” (pag. 179). Pietro decide di andare per verificare di persona quello che lo sconosciuto scriveva. Trova Ghisola in una casa d’appuntamento con la pancia gonfia. E’ incinta. Finalmente è costretto a guardare in faccia alla realtà con gli occhi aperti lui che l’aveva vista sempre con gli occhi chiusi.

Civetta: in questo romanzo il ritratto del protagonista è in realtà un autoritratto disegnato nei minimi particolari dalla morte della madre al rapporto con il padre, fino con la storia con Isola, fa da primo ideale al racconto di un amore infelice e di una rovina finanziaria.

Temi: i temi qui principalmente trattati riguardano la vita contadina della società dei primi del Novecento. In particolare l’esempio di credenza superstiziosa, riguardo a Masa e il lume a olio versato e il rapporto col cibo, con il risparmio assoluto e con nessun tipo di spreco e il terribile atto della castrazione degli animali. Si può notare anche la vita nella trattoria con il comportamento degli avventori, oppure come pranzavano coloro che ci lavoravano o ancora con i mendicanti che vengono per cercare qualche avanzo e il loro odio reciproco.

Contesto storico: l’ambiente storico dell’autore va da una situazione in cui l’Italia è stata appena unificata fino allo scoppio della Grande Guerra nel nostro Paese scoppiata tra il 1915 e il 1918. Per quanto riguarda il romanzo invece non ci sono precisi riferimenti storici eccetto questo: “Entrò nel partito socialista, e fondò perfino un circolo giovanile [.] La sua massima ambizione doventò, allora, quella di scrivere articoli in una Lotta di classe; che usciva tutte le settimane.“. Ciò ci fa capire che le vicende del romanzo si svolgono oltre la seconda parte dell’Ottocento.

Tempo: La storia dura parecchi anni, in sostanza tutta la giovinezza di Pietro. Da quando ha 13 anni e c’è la presentazione di tutta la famiglia e della trattoria, e poi quando ha 15 anni e si rivela un cattivo studente a scuola, incapace di concentrazione e di determinazione, fino ai 22 anni quando Pietro va a studiare in un istituto tecnico a Firenze e poi rinuncia per tornare a Siena. Quindi la storia dura intorno ai dieci anni. Inoltre durante la storia c’è un piccolo flash-back quando Ghisola ritorna a Radda dai suoi genitori.

Luoghi: il luogo più importante è sicuramente il podere di Poggio a’ Meli: “.si trovava fuori di Porta Camollia per quella strada piuttosto solitaria che dal Palazzo dei Diavoli va a finire poco più in là del convento di Poggio al Vento. C’era una vecchia casetta rintoccata di rosso, a un piano solo; e congiunta al vinaio e alle abitazioni degli assalariati fatte sopra le stalle. [.] Si entrava subito nell’aia; con il pozzo da una parte e un pergolato a cerchio, sotto il quale Domenico teneva, a stagione buona, una dozzina di conche con le piante di limone: il solo lusso invece del giardino [.] Il podere era di qualche ettaro, con la siepe di murrache e di bianco spini su la strada: un piccolissimo appezzamento pianeggiante e coltivato bene; il resto a pendice, fino al fosso di un’altra collinetta che regge le mura della Porta Camollia.”. Altro luogo principale è la trattoria a Siena: “Quando il Rosi era diventato padrone del Pesce Azzurro, c’era un ingresso solo, quello da Via dei Rossi, con un’insegna di ferro, a banderuola; del quattrocento. [.] Poi furono aperti anche due ingressi dalla Via Cavour. Ed ad uno di questi, dietro il cristallo della porta, una vetrina a due piani, foderata con la carta che cambiavano una volta tutte le settimane; piena di polli già pelati, di carni arrostite, e d’altre delizie“. Fra gli altri luoghi ci sono Firenze dove Pietro va a studiare e si innamora di Ghisola, e Radda, il paese d’origine di quest’ultima.

Messaggio dell’autore: probabilmente il massaggio sta nel punto centrale del romanzo, rappresentato dalla castrazione del cane Toppa da parte di Domenico: in lui si manifesta pienamente l’atteggiamento di superbia, l’atteggiamento castrante, in senso materiale nei confronti degli animali, in senso psicologico nei confronti di Pietro. Identificandosi con gli animali offesi, quest’ultimo non apre gli occhi perché è paralizzato dal padre. Tutta questa visione va comunque vista dal punto di vista di Tozzi, riguardo al suo rapporto con il padre e con il mondo; in sostanza ci vuole insegnare che non curarsi e non aver voglia di preoccuparsi della realtà può portare a conseguenze nel futuro.

Nel 1994 uscì un film con lo stesso titolo del romanzo “Con gli occhi chiusi” ad opera della regista Francesca Archibugi, con Stefania Sandrelli nella parte di Anna e Sergio Castellitto in quella di Alberto. Rocco Papaleo è uno dei tanti braccianti che lavorano al podere di Poggio a’ Meli.

Raimondo Giustozzi

 

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