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Cinema. Dopo “Roma, “Cold war”: perché in bianco e nero è più bello

fonte internet

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Teresa Marchesi  Giornalista e regista

Spero di non litigare con nessuno, ma i film davvero imprescindibili di questo nostro Natale per me sono solo due, e guarda caso tutt’e due in bianco e nero. Pura coincidenza, naturalmente. Ma è un fatto che evadere dal colore dà un senso di libertà ritrovata. È come riassaporare quel mood pascoliano, qualcosa di nuovo, anzi d’antico. Fa parte della magia che accomuna “Roma”di Alfonso Cuaròn (per chi non l’avesse acchiappato nei pochi benedetti giorni di uscita in sala, è su Netflix, e vale l’abbonamento) e “Cold War” di Pawel Pawlikowski, che esce con Lucky Red il 20 dicembre.

Per quel poco o tanto che conta, questo nuovo gioiello in b/n del regista polacco (Oscar per il miglior film straniero nel 20015 con “Ida”, è di nuovo in lizza quest’anno) ha vinto la Palma per la Regia a Cannes e ha fatto il record di nomination agli europei Efa. Mi sa che non sono la sola ad esserne stata incantata sulla Croisette e ad averlo rivisto in questi giorni con la stessa delizia. Racconta un ‘amour fou’ negli anni ’50 della cortina di ferro, e per qualche ragione mi ha fatto pensare a “Jules e Jim”. “Jules e Jim” senza Jules.

Sarà perché la passione bruciante tra il pianista Wiktor e la cantante Zula, come nel capolavoro di Truffaut, viene scandita nel corso di 15 anni da siparietti essenziali, senza un orpello o una parola di troppo ? Sarà perché anche questo è un amore più forte del tempo, delle frontiere e della morte stessa ? Sarà perché la sensualità- cinematograficamente parlando- non è un’opinione ? Sarà perché i due amanti non possono vivere l’uno senza l’altra, ma nemmeno insieme?

1949: Wiktor (Tomasz Kot) batte le campagne polacche del dopoguerra alla ricerca di canti e talenti popolari . La ‘mission’politica è un ensemble folkloristico di rappresentanza. Tra le prescelte c’è Zula, sfrontata e speciale ( Joanna Kulig, magnifica, al terzo film con Pawlikowski ), un’ex carcerata che ha ammazzato suo padre: “Mi aveva confuso con mia madre, ho usato il coltello per mostrargli la differenza”. 1951: a Varsavia, i due sono amanti, il gruppo diventa uno strumento di propaganda staliniana e Zula, ricattata, viene usata per spiare le simpatie occidentali del musicista. 1952: a Berlino Est, Wiktor scappa, ma Zula non lo segue. 1954: a Parigi, lui suona jazz in un club, breve incontro lancinante con l’amata in tournée. 1957: grazie al matrimonio di comodo con un italiano, i due possono finalmente vivere e lavorare insieme a Parigi, ma lui, assaggiato un po’di successo, la usa per fare carriera. Delusa, Zula torna in Polonia. Per inseguirla, Wiktor rimpatria e viene condannato a 15 anni in un campo di detenzione. Lei lo scova e promette: “Ti libero”. 1964: Zula canta robaccia in un’orchestrina, ha comprato la libertà di Wiktor sposando il viscido manager ( leggi commissario politico) del vecchio gruppo. C’è un solo modo per non lasciarsi mai più, e Jeanne Moreau fa scuola…

La scansione temporale è importante, perché è materia da feuilleton, addirittura da fotoromanzo, ma risolta con un rigore e un’eleganza formale da grande cinema. C’è il Potere a dividere-simboleggiato dal faccione baffuto di Stalin e dalla delazione come prassi corrente – ma anche il successo corrompe e separa. L’intelligenza dei ‘traslochi’ musicali da un universo all’altro, dal folklore rurale al parigino ‘all that jazz’, è un godimento nel godimento. Dedica del regista ai suoi genitori (stessi nomi dei protagonisti) e al loro tormentato rapporto d’amore attraverso la cortina di ferro.

Conta anche il format ridotto (1:1.33, praticamente quadrato) ma il bianco e nero, se sai usarlo a dovere, è una spada nel cuore. Spero tanto che “Roma” e “Cold War” facciano da battistrada per un rilancio, contro i pregiudizi dei network che lo disdegnano come nemico dell’audience e ‘roba da vecchi’.

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