
Po_sies choisies
di Lino Palanca
Si esce disorientati dalla lettura del Testament, opera ricca come poche di figure, situazioni, allusioni percorse da un brivido di morte e dal lamento lungo, ossessionante dell’uomo povero, tradito, abbandonato quale spesso Villon si sentì, e fu; insieme, avverti costante la presenza di una vena di sapiente ironia, pronta il più delle volte a scivolare nell’aperto sarcasmo.
È in questa costante ambiguità che risiede, credo, il maggior fascino di Villon.
Ne ho fatto la prima conoscenza nelle aule universitarie (il prof. Ivos Margoni). All’epoca, non molti docenti di letteratura francese nei licei lo sceglievano come autore da proporre ai propri allievi (e nemmeno oggi); faceva ostacolo la difficoltà di testi scritti in una lingua di mezzo millennio prima, che usciva svilita dalle sue traduzioni nel francese del XX secolo.
Penso anche che si temesse, con qualche ragione, un impatto troppo duro sulla sensibilità degli adolescenti che eravamo, con tutte quelle scene di morti impiccati, di corpi erosi dalla morte, di miseria e soprusi e violenze. E anche, sebbene il prof. mai ne avrebbe data lettura in classe, di vizio. Il Villon che cantava, fingendo di condannarli, la sua joie de vivre e il tempo allegramente dedicato tout aux tavernes et aux filles, per esempio.

Serge Reggiani nel film sulla vita di Villon – foto da Lagarde & Michard
Il senso di dépaysement denunciato in apertura di questa breve nota, viene anche dalla mancanza di uno svolgimento organico della materia del libro. Villon si abbandona al torrente in piena dei ricordi e dei rimpianti, tutto trascinando verso la sua ricca valle di lacrime e amarezze e delusioni, ma anche di sollazzi e risa, godimenti e spassi; qui il poeta ripudia la finzione dell’amor cortese e si fa portavoce di un lirismo di tipo inaudito fino a quel momento; il lirismo della povertà, dì pure della miseria, della vita quotidiana, col suo carico di storie riassunte nella sua, lastricata dell’antica pena di chi è nato dalla parte sbagliata.
Il tempo che passa e corre veloce verso la morte è il pensiero che ossessiona la riflessione del poeta del Testament. E Lei, Thànatos, la padrona assoluta dei destini, l’evento ineludibile che si è cercato di rimuovere in gioventù, riappare ora davanti agli occhi della mente nel suo terribile, gelido ghigno.
Lo scheletro dell’orrore ha intrapreso la danza macabra intorno ai capestri di Montfaucon, in Parigi, volteggia nel nero mantello sopra messeri e dame, preti e laici, principi e prostitute; e intanto lascia che la sua falce sibili sinistra tra i marmi dei palazzi e lungo i vicoli spazzati dal vento della miseria … Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas / regumque turres …(Orazio, Carmina, I, IV, vv. 13-14)
Di fronte a Lei non c’è riposo, non tregua, non salvezza; solo si leva l’appello alla fraternità, stupendo e commovente nella Ballade des pendus,, ché uguale è la meta per tutti nel dolore del trapasso e nel disfacimento del corpo, sorte cui nemmeno la bellezza muliebre potrà sottrarsi.
Prima di Villon, la letteratura francese ha conosciuto altri maestri del macabro (Deschamps, Regnier, Pierre de Nesson); va detto, anzi, che il macabro era una delle componenti principali dell’immaginario dell’epoca. Johan Huizinga docet (leggi “L’autunno del Medio Evo”, inizio del capitolo XI: L’immagine della morte): Nessuna epoca ha coltivato l’idea della morte con tanta regolarità e con tanta insistenza quanto il secolo XV. Lungo tutta l’esistenza non tace mai il grido del “memento mori”. Mai nessuno, però, è riuscito a trasmetterci brividi di freddo terrore come Villon:
XXXIX
Io so che ricchi e poveri,
folli e saggi e preti e laici,
nobili, plebei, avari e prodighi,
piccoli, grandi, belli, brutti,
dame in ampio décolleté,
qual che sia lor condizione,
in qualsiasi modo acconciate,
tutti la Morte trascina con sé [1].
XL
Che Paride muoia o pur Elena,
per chiunque la morte è dolore:
a lui mancano aria e respiro,
il cuore dal fiele è invaso,
e suda, Dio che gran sudore!
Chi dal suo male lo libera?
Né figlio v’è, fratello o sorella
per lui pronti a perdere la vita [2].
XLI
Morte lo squassa e livido rende,
curvasi il naso, tese le vene,
gonfia la carne e flaccida e molle,
rigidi nervi, enfiate giunture…[3]
Corpo di donna, sì flessuoso,
morbido, liscio, prezioso,
anche per te volger così dovrà?
Sì, oppur vivo ascendere al cielo.
È dunque sotto il segno dell’incertezza, della precarietà della vita, che si svolge la lunga riflessione di Villon con se stesso; il bon folastre capisce ora di essere soprattutto il povre Villon, nero come uno scovolo, arrivato ormai, spoglio d’ogni ornamento e ricco solo della propria sincerità, al limitare della sua esperienza di uomo. Nonché alla fine delle incertezze e delle contraddizioni, in vista dell’orizzonte di nebbia verso cui s’incammina, seminando nell’ultimo tratto di luce idealismi, ironie e pietà, le delicatezze e i furori che hanno formato i colori della sua vita.
Il Testament ci consegna un essere strabordante di sensibilità poetica, che alla vita ha cercato invano di strappare il segreto della felicità trovandosi a berne, fino in fondo, il calice amaro.
Un figlio del suo tempo, ma un universale fratello di sventura, un compagno anche oggi in grado di camminarci accanto senza tentazioni moralistiche. Non del tutto affidabile, forse, ma irrinunciabile.
LA VITA
- Nasce a Parigi François de Montcorbier, che perde assai presto il padre.
- 1438/’39. Vive sotto la protezione di Guillaume de Villon (ecco perché è conosciuto con questo nome), canonico della chiesa di Saint Benoît le Bétourné, che lo sostiene negli studi all’università di Parigi dove, verso il 1450, diventa baccelliere.
- Si licenzia presso la facoltà delle Arti della Sorbona.
- 1455 (circa). Scrive dei versi in cui descrive la sua relazione con una donna, forse una certa Catherine de Vausselles. In giugno è coinvolto in una rissa nella quale ferisce il prete Philippe Sermoise, che morirà pochi giorni dopo. Prima fuga da Parigi.
- Rientra a Parigi, graziato anche in virtù del perdono accordatogli da Sermoise prima di morire. Nella notte di Natale partecipa a un furto al Collège de Navarre facendo il palo ai compagni penetrati all’interno. Nuova fuga.
- Sembra sia stato ospite di Charles d’Orléans nel castello di Blois; qui avrebbe composto la Ballade du concours de Blois per partecipare a un certamen poetico indetto dal padrone di casa.
- Si trova in prigione a Meung sur Loire su ordine del vescovo di Orléans, Thibaut d’Aussigny, forse per aver partecipato a spettcoli teatrali proibiti. Dopo qualche mese viene liberato in occasione della visita del re Luigi XI alla città. Rientro a Parigi dove, però, va subito a finire in prigione per un clamoroso furto al Collège de Navarre. Redazione del “Testament”.
- Arrestato di nuovo, ma, sembra, solo per essere stato presente a una rissa. Allo Châtelet subisce la question de l’Eau e viene condannato all’impiccagione.
- La pena di morte è commutata nell’esilio per dieci anni da Parigi. Villon lascia la città e svanisce nel mistero dei suoi ultimi anni di vita.
[1] Il grande tema della morte fisica, centrale nel Testament, inizia con un drammatico richiamo alla comune condizione dei mortali; la falce della morte …pareggia tutte l’erbe del prato., per dirla con Manzoni, nessuno può evitare di esserne colpito. Ma non si tratta di una considerazione consolante per il poeta. Tutt’altro.
[2] Ricorda il mito di Alcesti, moglie di Admeto re di Fere, che dopo aver invano pregato tutti i parenti del marito, specie quelli vecchi e malati, offrì la sua vita in cambio di quella del moribondo Admeto.
[3] Sembra di udire il sospiro del poeta che, giunto al culmine dell’orrore, viene come folgorato dall’idea che un simile destino è riservato anche al corpo femminile.
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