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Dialoghi in corso. Partecipazione senza potere – I cordoni della borsa

Fonte internet

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di Mauro Boarelli ( rivista Gli asini)

Il tema della partecipazione torna a fasi alterne nel dibattito politico. Ma il senso profondo della parola è andato smarrito.  Prendendo spunto da un interessante articolo di Mauro Boarelli sul caso Bologna, vogliamo rapportare le osservazioni alle politiche del nostro territorio, che che sono facilmente assimilabili.

In questi giorni a Bologna l’Amministrazione comunale si autocelebra enfatizzando i risultati del «bilancio partecipativo», assecondata dalla stampa locale e da commentatori poco interessati ad andare oltre la superficie.

Tra le poche voci critiche, quella del gruppo bolognese della nostra rivista, che nel recente libro collettivo A che punto è la città? Bologna dalle politiche di “buongoverno” al governo del marketing (Edizioni dell’Asino) ha provato a smontare i luoghi comuni che, dalla politica locale, sconfinano in uno scenario più vasto. Da questo volume è tratto il testo che proponiamo. (Gli asini)

 

I cordoni della borsa

Un osservatore straniero interessato a studiare il sistema di governo bolognese rimarrebbe colpito dall’enfasi posta dagli amministratori e dagli esponenti del partito di maggioranza sul tema della partecipazione. Ma se andasse al fondo della questione, se grattasse sotto la superficie, si renderebbe conto ben presto dello scarto tra la narrazione e la realtà.

Partiamo dall’ultimo arrivato nella grande famiglia della partecipazione alla bolognese: il bilancio partecipativo, avviato nell’estate 2017 dopo anni di promesse (era un punto già presente nella campagna elettorale di Sergio Cofferati nel 2004). Per comprenderlo a fondo, bisogna innanzitutto ricordare che il bilancio municipale partecipativo ha le sue radici a Porto Alegre, la capitale dello stato del Rio Grande do Sul in Brasile, dove il Fronte popolare guidato dal Partito dos Trabalhadores vinse le elezioni amministrative nel 1988. Il processo avviato subito dopo dal nuovo governo locale è basato su un sistema di assemblee popolari di quartiere chiamate a decidere i principali campi di azione da finanziare e ad eleggere i propri delegati ai forum distrettuali e al Consiglio del bilancio partecipativo, l’organo che deve elaborare la proposta di bilancio. Questa idea ha avuto una larga diffusione in America Latina e in Europa. È naturale che le pratiche sociali vengano declinate in modi differenti a seconda dei contesti in cui vengono esportate. Bisogna però domandarsi se le esperienze nate dall’idea originaria ne conservino i tratti fondamentali oppure ne tradiscano lo spirito e ne utilizzino il nome in modo arbitrario o strumentale. Per una comparazione con il caso bolognese, possiamo isolare tre aspetti cruciali dell’esperienza brasiliana: l’autonomia procedurale garantita ai cittadini, che possono modificare le regole del processo partecipativo; l’inserimento delle proposte provenienti dai quartieri nel quadro dell’amministrazione complessiva della città; la disponibilità di una porzione significativa delle finanze municipali (era inizialmente il 10% sul totale del bilancio, poi la quota è salita al 25%). La combinazione tra questi elementi rende il bilancio partecipativo un processo dagli esiti tangibili e produce effetti che vanno al di là del bilancio stesso, poiché lo trasforma in un percorso “pedagogico” lungo il quale le comunità locali hanno la possibilità di autoformarsi e prendere parte in modo consapevole al governo della città intera.

Nulla di tutto questo è rintracciabile nel bilancio partecipativo bolognese. Le regole, innanzitutto, sono stabilite dall’amministrazione comunale e non possono essere messe in discussione. Le finalità sono espresse in termini estremamente generici e non stabiliscono alcun trasferimento di potere ai cittadini, mentre la partecipazione è confinata all’interno dei singoli quartieri, senza coordinamento tra di loro, e questa segmentazione impedisce la formazione di una visione globale dei problemi della città. Inoltre – e si tratta di un aspetto decisivo – la somma stanziata per il processo partecipativo è solo simbolica: un milione di euro, poco più di 150.000 euro per ogni quartiere, pari allo 0,11% del bilancio comunale. Una cifra decisamente insufficiente per qualsiasi intervento incisivo, e per di più vincolata unicamente alle spese per investimenti, scelta che sottrae ai cittadini la possibilità di avere voce in capitolo sulla gestione degli interventi proposti. Infine, la modalità scelta per la selezione finale dei progetti (una votazione on-line) rappresenta un modello partecipativo virtuale che sta all’opposto del coinvolgimento diretto e della responsabilizzazione, mentre la “campagna elettorale” entusiasticamente sostenuta dall’amministrazione comunale sta all’opposto della cooperazione – ciò che di positivo un processo partecipativo dovrebbe innescare – ed è ricalcata su modelli politici tradizionali, gli unici possibili per un ceto politico privo di immaginazione.

Fonte internet

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Tecniche e riti

Il bilancio partecipativo è – dunque – un bello slogan, ma nella realtà i cittadini non incideranno – se non in misura simbolica – sul bilancio comunale. Eppure il suo scopo non dovrebbe essere proprio quello di fornire ai cittadini un effettivo potere decisionale sulla gestione del denaro pubblico?

Il fatto che i percorsi partecipativi vengano declinati in modo da renderli inefficaci era già stato sperimentato poco tempo prima. Tra settembre ed ottobre del 2016 – infatti – si era svolto il “confronto pubblico” relativo al “passante di mezzo”, faraonico progetto che prevede l’allargamento della tangenziale, partorito in tutta fretta accantonando dopo oltre dodici anni di dibattiti e studi preliminari il devastante progetto del “passante nord” che avrebbe spostato al di fuori dell’area urbana il tracciato autostradale che corre all’interno della tangenziale stessa. Bisognava però prevenire e “ammorbidire” l’opposizione dei comitati di cittadini che – come prevedibile – si sono rapidamente costituiti e, con il supporto di esperti, vogliono sapere come mai un progetto che tempo prima era stato bocciato perché ritenuto estremamente nocivo per la salute della popolazione sia diventato improvvisamente un toccasana per la “qualità urbana”. Per provare a disinnescare il dissenso, viene organizzato un confronto pubblico addomesticato attraverso una serie di decisioni preliminari e di tecniche di conduzione. Innanzitutto, viene chiarito che l’opera si farà e che lo scopo del confronto non è quello di metterla in discussione, ma di invitare i partecipanti a suggerire miglioramenti per ottenere effetti di mitigazione dell’impatto ambientale (o meglio: l’illusione di una mitigazione). La partecipazione viene in tal modo privata della sua principale ragione d’essere: rendere i cittadini protagonisti di una scelta. Ma questo non basta ancora. Vengono rigorosamente limitati il tempo a disposizione (non più di due mesi) e la possibilità di approfondimento (il numero di incontri è estremamente limitato). Infine, la conduzione del confronto viene affidata a “facilitatori” che avrebbero dovuto garantire l’imparzialità del processo e aiutare i cittadini a formulare proposte e che nella pratica si sono adoperati per incanalare le obiezioni in una direzione compatibile con le esigenze dell’attuatore del progetto (Autostrade per l’Italia).

Un confronto-farsa, quindi, che utilizza in modo ancora più stringente due elementi che già da tempo erano entrati a far parte del sistema partecipativo bolognese: la definizione di un perimetro stretto entro il quale i cittadini possono esprimere la loro opinione, senza alcuna possibilità di introdurre temi e metodi di discussione in modo autonomo, e l’affidamento a un ceto specializzato deputato a condurre per mano cittadini considerati inesperti e bisognosi di essere istruiti in modo paternalistico. Queste figure – che Franco La Cecla ha definito “facilitatori del consenso” – incarnano la de-politicizzazione dei processi partecipativi, l’arretramento delle istituzioni rispetto alla “tecnica” (che – separata dalla politica – si traduce facilmente in manipolazione) e la conseguente abdicazione delle istituzioni al proprio ruolo, che implica la capacità di ascoltare, interpretare e comporre in un’azione di governo i bisogni, le proteste e il dissenso di tutti i cittadini, riconoscendo loro una capacità autonoma di autorappresentarsi senza mediazioni artificiali, estranee a quelle organizzate intorno a libere scelte associative.

L’amministrazione comunale e il partito di maggioranza cercano di supplire allo smarrimento delle proprie funzioni di rappresentanza attraverso una retorica della partecipazione che serve anche ad occultare la subalternità della politica agli interessi economici. Emblematica al riguardo è la vicenda del restyling del vecchio stadio, dove lo sport – in realtà – è solo un pretesto per una vasta operazione immobiliare. Anche in questo caso non potevano mancare le promesse di un percorso partecipato, iniziato ancora una volta – e forse già concluso in modo particolarmente sbrigativo – solo dopo che le decisioni erano già state prese.

La vicenda del “passante” e quello dello stadio rappresentano una svolta nella stagione dei laboratori di urbanistica partecipata inaugurata più di dieci anni fa, perché da essi scompare definitivamente ogni promessa di partecipazione reale. Ma, a ben guardare, questo esito era già scritto proprio in quelle esperienze, e in particolare nel percorso partecipativo messo in piedi nel 2005, al tempo della giunta Cofferati, per correggere un pesante intervento edilizio voluto dalla precedente giunta di centro-destra nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo, nel quartiere Bolognina. Quel percorso nasceva con presupposti diversi rispetto agli interventi attuali, soprattutto perché intercettava mobilitazioni nate spontaneamente nel quartiere. Ma anche in quel caso venne posto un limite invalicabile: la cubatura complessiva prevista inizialmente doveva comunque essere assicurata. Non si trattava solo di un limite tecnico, ma dell’accettazione del paradigma della crescita economica basata sull’espansione edilizia. I meccanismi partecipativi produssero esiti positivi per quanto riguarda la ricucitura dell’insediamento rispetto al tessuto urbanistico e la dotazione di verde pubblico, ma al tempo stesso occultarono il nocciolo della questione, la vera posta in gioco. Già in quella fase si può leggere in controluce la separazione dei processi partecipativi da quelli decisionali, una separazione che annullò rapidamente i risultati ottenuti, spazzati via dalla crisi. Oggi gli scheletri dei palazzi incompiuti circondati da collinette di detriti mai rimossi e da opere di urbanizzazione incompiute rappresentano un monumento al fallimento di un modello di sviluppo che l’amministrazione comunale intende ostinatamente perseguire ovunque in città.

Libertà vigilata

La separazione tra partecipazione e decisione è testimoniata anche dai “patti di collaborazione”, quarto pilastro – insieme al bilancio partecipativo, ai laboratori urbanistici e ai confronti pubblici – della strategia messa a punto nel tempo dall’amministrazione comunale. I “patti” sono lo strumento legale per dare ai cittadini la possibilità di intervenire nella cura e nella rigenerazione di beni e spazi comuni. Per analizzarne il funzionamento è utile mettere a confronto alcune enunciazioni cruciali del regolamento che li disciplina con le principali vicende che hanno caratterizzato la cronaca di Bologna negli ultimi tempi.

Il regolamento stabilisce che “Al fine di ottimizzare o di integrare l’offerta di servizi pubblici o di offrire risposta alla emersione di nuovi bisogni sociali, il Comune favorisce il coinvolgimento diretto dell’utente finale di un servizio nel suo processo di progettazione, infrastrutturazione ed erogazione”. Proviamo a leggere questo passaggio alla luce di quanto accaduto in un campo dei servizi pubblici particolarmente importante in  città, quello delle biblioteche. Alla fine del 2016, senza darne alcuna pubblicità, il Comune avvia la esternalizzazione della biblioteca di quartiere “Lame-Malservisi”, cedendone interamente la gestione a un soggetto privato. Di fronte alle proteste dei cittadini, l’amministrazione comunale oppone argomenti mutevoli e contraddittori, senza cedere di un millimetro rispetto alla scelta di una sostanziale privatizzazione e promettendo (naturalmente) un percorso partecipativo, purché – secondo un copione ormai ben noto – non mettesse in discussione la decisione. Ecco quindi che l’obiettivo di coinvolgere “l’utente finale di un servizio nel suo processo di progettazione” perde ogni connotato potenzialmente positivo e viene sterilizzato all’interno di un processo nel quale la “progettazione” altro non è se non la cogestione di scelte già prese, una forma di cooptazione dei cittadini anziché l’espressione di una loro autonomia.

Questo contrasto tra la partecipazione amministrata dall’alto – incoraggiata da dispositivi istituzionali – e quella praticata in modo autonomo – osteggiata e a volte addirittura repressa con violenza – è ancora più evidente nel capitolo dedicato agli spazi pubblici, dove si legge che “Il patto di collaborazione può avere ad oggetto la gestione condivisa di uno spazio pubblico. I cittadini attivi si prendono cura dello spazio, per un periodo predefinito, per realizzarvi tutti gli interventi e le attività indicate nel patto”. Ciò presuppone che gli spazi pubblici siano realmente messi a disposizione della cittadinanza. Ma la storia recente racconta tutt’altro. Racconta di una caserma dismessa nel centro storico che il Piano operativo comunale (Poc) privatizza destinandola ad edilizia residenziale e albergo di lusso, e della polizia che sgombera con i manganelli gli attivisti di Làbas che, prima dell’adozione del Poc, l’avevano occupata per aprirla ad usi pubblici e mutualistici. Racconta del circolo Arci Guernelli sgomberato senza preavviso in occasione degli interventi di ristrutturazione dei palazzi di edilizia popolare gestiti dall’Acer nei quali ha sede. Racconta lo sfratto del centro sociale Crash e quello annunciato di XM24, spazio sociale autogestito con sede in locali di proprietà comunale. Racconta di enormi aree militari dismesse lasciate in stato di abbandono o destinate ad edilizia residenziale e commerciale. Racconta, ancora, di spazi pubblici destinati alla moltiplicazione senza alcun limite di supermercati.

In sostanza, ai cittadini è concesso di esercitare la propria azione solo su spazi piccoli e interstiziali, mentre sui grandi spazi – la cui trasformazione cambierà in modo radicale il volto della città alterandone la struttura urbanistica e sociale – non hanno diritto di parola. È questo che emerge con chiarezza sfogliando l’elenco dei patti di collaborazione siglati con l’amministrazione comunale, insieme alla mancanza di un tessuto connettivo tra i progetti. Esattamente come nel caso del bilancio partecipativo, i cittadini sono sollecitati a prendersi cura esclusivamente di aspetti che hanno rilevanza in un contesto ristretto, senza alcuna possibilità di confronto e coordinamento con gli altri patti di collaborazione. In questo modo, le pratiche su scala micro-locale non sono in grado di leggere le problematiche della città nel suo complesso e generare un allargamento di prospettiva. La combinazione tra queste due limitazioni rende i patti di collaborazione una semplice amministrazione dell’esistente. In qualche caso potranno produrre esiti originali, ma nel complesso saranno costretti dentro confini rigidi e invalicabili, sotto il controllo di un’ideologia bifronte che accomuna tutti i processi partecipativi, un’ideologia che mostra il suo volto aperto e benevolo sollecitando l’iniziativa autonoma e l’immaginazione mentre nella realtà amministra l’omologazione e il controllo.

Ieri e oggi

Questa struttura della partecipazione rappresenta una frattura rispetto alla tradizione amministrativa della città, una frattura che ha origini lontane.

Bisogna risalire agli anni sessanta per rintracciare un modello radicalmente diverso. Nel 1963 vennero istituiti i quartieri, prima esperienza di decentramento amministrativo in Italia. Il dibattito che precedette e poi accompagnò la prima fase di sperimentazione – al quale parteciparono attivamente comunisti, socialisti e cattolici di area dossettiana – era incentrato sul ruolo che le nuove istituzioni avrebbero dovuto svolgere per responsabilizzare i cittadini, nella convinzione – da tutti condivisa – che questo non sarebbe accaduto senza una ristrutturazione dei processi decisionali. Il decentramento, in sostanza, doveva tradursi non solo nella dislocazione territoriale dei servizi, ma anche – e soprattutto – in un vero e proprio trasferimento di poteri. I nuovi quartieri – secondo l’opinione del primo assessore al decentramento, il socialista ed ex azionista Pietro Crocioni – dovevano diventare gli organi del dissenso, perché solo l’esercizio diffuso del dissenso in tutte le articolazioni della città avrebbe garantito un rapporto fecondo, non gerarchico e non paternalista, con gli organi centrali dell’amministrazione comunale.

Quel processo si intrecciò con la nascita delle forme di gestione sociale delle scuole, di cui furono protagonisti l’assessore all’istruzione Ettore Tarozzi e Bruno Ciari, maestro elementare, tra i fondatori del Movimento di cooperazione educativa, chiamato a dirigere i servizi scolastici nel 1966. Nel suo breve periodo bolognese (interrotto dalla morte prematura nel 1970), Ciari avviò la scuola a tempo pieno, luogo in cui venne sperimentato l’intreccio tra il progetto pedagogico e la partecipazione dei cittadini al governo della scuola. Furono gli anni dei Comitati genitori-insegnanti, la cui azione era costruita intorno al concetto di autogestione.

Non è solo una coincidenza temporale il fatto che, nello stesso periodo, fermenti analoghi attraversassero il dibattito intorno al tema della salute. Il contributo principale venne da Giulio Maccacaro, uno dei fondatori del movimento “Medicina democratica”, che nel 1972 tracciò le linee guida per l’organizzazione delle unità sanitarie locali (che avrebbero costituito il nucleo del servizio sanitario nazionale istituito con la riforma del 1978) evidenziando la stretta connessione tra partecipazione e salute. La partecipazione – sosteneva – deve essere il fondamento del diritto di cittadinanza, non l’indicatore di un generico democraticismo. Ma questo diritto “non può essere conferito che dai partecipanti stessi, perché la partecipazione nasce proprio in quel momento – che può durare un’epoca – in cui una comunità oggettiva diventa comunità soggettiva”. Al centro, ancora una volta, sono i temi dell’autogestione, dell’autogoverno e dell’articolazione dei rapporti tra i cittadini – singoli e associati – e le istituzioni. Maccacaro, inoltre, affrontò una questione cruciale, ovvero il pericolo del predominio della tecnica, di fronte alla quale i cittadini – non informati o non “competenti” – dovrebbero cedere il passo a un ceto specialistico che si autorappresenta come unico soggetto legittimato a decidere nel modo “giusto”. È un argomento che ritroviamo in varie forme in tutti i processi partecipativi, e in particolare in quelli riguardanti le grandi opere pubbliche. “Il potere sovrastante si vale sempre di questa appropriazione” – scriveva Maccacaro – “e tende, pertanto, a enfatizzare le necessità tecnologiche di quella delega: il potere di base deve riaffermare il primato delle sue necessità politiche e chiedere una tecnologia alternativa”.

Il movimento No Tav della Val di Susa è un buon esempio di attuazione di questo principio. Quel movimento, infatti, è nato e si è sviluppato sulla base di una “pedagogia dal basso”: i cittadini hanno formato se stessi, hanno studiato e sviluppato un sapere tecnico in grado di competere con quello ufficiale, hanno rivendicato – esattamente come auspicava Maccacaro – la priorità delle necessità politiche di un’intera comunità rispetto alle necessità “tecnologiche”. È un’esperienza importante, perché mostra possibilità di intervento in un contesto storico profondamente mutato. Il patrimonio formato intorno al tema della partecipazione tra gli anni sessanta e la metà degli anni settanta – infatti – è andato disperso. Le ragioni, evidentemente, non sono esclusivamente locali. Quel periodo era segnato in tutto il paese da un grado elevato di conflittualità sociale e dall’azione di movimenti di massa. La composizione sociale del paese e il clima politico sono, oggi, completamente differenti, e radicalmente diversa è la cultura politica del partito che ha raccolto l’eredità della principale organizzazione della sinistra italiana. È una cultura che ha rimosso il conflitto, senza comprendere che si tratta di una componente ineliminabile delle dinamiche sociali e, se negato, represso o non governato, può corrodere la coesione sociale. Al tempo stesso, la partecipazione si nutre del conflitto, e senza di esso inaridisce.

La mutazione del modello partecipativo bolognese va inserita in questo contesto. La sua declinazione si è strutturata – a partire dagli anni ’80 – intorno a tre assi principali. Il primo è la centralizzazione. Il sistema dei quartieri è stato completamente smantellato da due riforme – nel 1985 e nel 2015 – che ne hanno progressivamente ridotto il numero (nel 1966 erano diciotto, oggi sono sei) e mutato le funzioni, fino a ridurli a semplici organi consultivi privi di poteri di indirizzo e di gestione.

Il secondo è l’eccesso di istituzionalizzazione, che prende forma attraverso una stratificazione di norme, procedure e regolamenti utili ad alimentare la retorica della partecipazione piuttosto che la sua pratica effettiva, come aveva evidenziato Achille Ardigò: “[…] quanto più sono cresciute, non solo a Bologna, le istituzionalizzazioni della partecipazione popolare, tanto meno si è affermata la partecipazione della gente […].” D’altra parte, i limiti di questo apparato istituzionale sono fissati in modo chiaro proprio dalle stesse norme che ne sono alle base. Basti pensare che la legge regionale sulla partecipazione, che dovrebbe rappresentare l’architrave di tutto il sistema, stabilisce che gli enti responsabili della decisione non hanno alcun obbligo di  recepire le conclusioni del procedimento partecipativo, decretandone in tal modo l’inutilità.

Il terzo asse è la negazione del dissenso, che si manifesta in forme molteplici: dal disconoscimento delle forme di democrazia diretta previste dallo Statuto comunale (è il caso del referendum sul finanziamento pubblico alle scuole private, il cui esito è stato ignorato dall’amministrazione comunale) all’uso ambiguo del concetto di “legalità”, maschera dietro la quale il potere politico si nasconde per negare legittimità a modalità libere ed autonome di organizzazione sociale senza assumere la responsabilità di questa esclusione. È su questo terreno che si è sviluppato un intreccio pericoloso tra Comune, Questura e Procura – a volte sotto il segno della collaborazione, a volte sotto quello della subordinazione – manifestazione palese dell’abdicazione dei pubblici amministratori al proprio ruolo politico.

Tutti questi aspetti vanno a comporre un quadro nel quale il significato originario della parola “partecipazione” è ormai smarrito. Il suo uso parossistico è funzionale alla creazione  artificiale di una base sociale che prenda il posto di quella che un tempo costituiva l’ossatura del partito di governo della città e che ora è dispersa per la mutazione della composizione sociale e per lo smarrimento dei valori condivisi. Il sistema della partecipazione è soprattutto una macchina per la produzione di consenso, un complesso di dispositivi messo in campo per mascherare la perdita di capacità decisionale dell’amministrazione comunale e legittimare scelte adottate al di fuori dei luoghi deputati alla rappresentanza democratica. Una partecipazione senza potere a sostegno di un potere senza partecipazione.

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Note

Sulla diffusione del bilancio partecipativo, cfr. Yves Sintomer, Giovanni Allegretti, I bilanci partecipativi in Europa. Nuove esperienze democratiche nel vecchio continente, Roma, Ediesse, 2009 (sull’esperienza di Porto Alegre cfr. pp. 33-38, sull’aspetto “pedagogico” dei bilanci partecipativi cfr. p. 390); il dato sulla percentuale delle finanze municipali riservata al bilancio partecipativo di Porto Alegre è tratto da Thomas Benedikter, Il bilancio partecipativo Decidere sulle finanze del proprio Comune. Un’introduzione, Bolzano, PolitiS, 2013, p. 12.

Il Regolamento per la disciplina del bilancio partecipativo è stato approvato dal Consiglio comunale di Bologna il 20 aprile 2016. All’art. 1.2 il bilancio viene definito come “un istituto di partecipazione che, valorizzando le conoscenze dei bisogni diffuse sui territori, persegue la finalità di impiegare risorse pubbliche e attivare risorse della comunità al fine di raggiungere risultati condivisi e verificati con la cittadinanza”. La definizione adottata a Porto Alegre è molto più netta e densa di implicazioni: “Il bilancio partecipativo è una forma pubblica di gestione del potere […]” (cfr. Benedikter, Il bilancio partecipativo cit., p. 11).

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