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Dialoghi in corso. Il “rosario pride”? È figlio del multiculturalismo progressista

Fonte internet

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di Elettra Santori

Anche chi non nutre una particolare avversione verso questo governo gialloverde, non potrà non avvertire, purché laico per credo e per formazione, i fastidiosi sintomi di una reazione allergica di fronte a tanto esibir di immaginette da Pietrelcina, baciar di ampolle splatter in omaggio a San Gennaro nel Duomo di Napoli, e ciondolar di rosari a mo’ di pendolo di Foucault di fronte a platee comiziali di ipnotizzati leghisti.

Tutte e tre le Persone della Trinità gialloverde ‒ il Padre Pio Giuseppe Conte, il Figlio sacrificale Di Maio, cui spetta la parte più difficile, quella di immolarsi nella disperata impresa dello sviluppo economico del Paese, e la Terza Persona Salvini, il Pneuma che fa la voce grossa, Spiritello incendiario che soffia sul fuoco rafficando tweet, mostrano una devozione da “governo del popolo”, vicina al sentire religioso più elementare. Ma Salvini, a differenza di Conte e Di Maio, dà voce a un cattolicesimo reattivo, da contrattacco, ripescato dalle patrie soffitte dove giaceva in po’ in disuso, e rispolverato per far fronte alla moderna offensiva globalista. Quando nei comizi Salvini impugna il rosario con sguardo dritto e sfidante, si rivolge in realtà ad un avversario preciso: il multiculturalismo frou-frou delle élite nazionali ed europee che vorrebbe sfrattare i crocifissi e i presepi dalle aule scolastiche, mica in nome di una sacrosanta laicità, ma semplicemente per non urtare la delicata sensibilità di islamiche velate e barbuti allahanti.

Al mio segnale scatenate i rosari. E gli elettori eseguono: gli regalano coroncine, che lui bacia e ripone in tasca (non usa pregare granché, giusto il segno della croce mattina e sera, tanto gli è sufficiente autodenunciarsi come «ultimo dei peccatori» perché la colpa gli venga automaticamente condonata). Fino ad oggi, il rosario era uno dei più desueti simboli cattolici, sorta di ferrovecchio per il conforto degli anziani soli, litania di gruppo in chiese semideserte al calar del sole. Salvini invece lo ha riscattato dal polverume senile e ne ha fatto un antemurale christianitatis, stendardo di una nuova Battaglia di Vienna contro chi è sempre pronto a difendere tutte le culture, tranne quella occidentale. I giornali di destra ovviamente stravedono per il Rosario Pride salviniano: finalmente qualcuno che rende omaggio alle tradizioni e al culto popolare! Che non si vergogna dell’appartenenza religiosa, anzi la esibisce a tutto tondo, se lo fanno gli islamici perché non dovremmo avere il coraggio di farlo anche noi? Più critici i cattolici, come l’arcivescovo di Milano Mario Delpini («Nei comizi si parli di politica»), il gesuita Antonio Spadaro, che accusa Salvini di manipolare la religione, il “vescovo dei profughi” Giancarlo Perego («una strumentalizzazione che punta al consenso»), ed ex democristiani come Casini («Salvini col rosario mi ha fatto pena»).

Invece i giornali di sinistra … pardon, di opposizione, volevo dire …, beh loro con la Rosario parade ci fanno i titoli. I titoli e basta: «Pontida 2018: il giuramento di Salvini con il rosario “per la liberazione dei popoli d’Europa”», «Un rosario per Matteo Salvini: il regalo di un’ammiratrice a Milano», «Un rosario per Salvini: “Ormai ho la casa che sembra un santuario”». Non fanno commenti né editoriali, tantomeno piangono la laicità perduta. Forse credono che un Vicepremier rosariomunito si renda ridicolo da sé, confidano nell’involontaria autoparodia del Salvini Ministrante dell’Interno, ma la verità è che non hanno parole per difendere la laicità, anzi non sono nemmeno più titolati a rivendicarla. Quando, alle elezioni comunali milanesi del 2016, il Pd ha schierato la musulmana velata Sumaya Abdel Qader (poi divenuta consigliera comunale), la stampa oggi d’opposizione non ha battuto ciglio. Anche in quel caso, un simbolo religioso faceva vistosamente e orgogliosamente ingresso in uno spazio pubblico, politico, proprio come il rosario che Salvini spenzola oggi dai palchi comiziali, e nessuno della stampa c.d. progressista che riuscisse a guardare oltre, a immaginare che, se oggi il velo viene legittimato ad entrare in un consiglio comunale, un domani, col crescere e laurearsi delle seconde generazioni di musulmane, ci ritroveremo con insegnanti di scuola pubblica, funzionarie e dirigenti statali e deputate velate: donne che vestiranno un simbolo religioso controverso (con tutto il suo portato di sottomissione della donna, antagonismo antioccidentale, reazione identitaria passivo-aggressiva tipica di un certo vittimismo islamico), pur essendo dipendenti pubbliche e rappresentanti di uno stato laico.

La Francia, con le leggi sul velo, ha preso le sue contromisure: non solo ha vietato il velo integrale negli spazi pubblici (per le strade, sui mezzi di trasporto, ecc.) ma, nella funzione pubblica, ha proibito anche l’hijab (il velo che non copre il viso) e altri segni vistosi di adesione a un culto religioso; nelle scuole, questo divieto non si applica solo al personale scolastico, ma anche agli alunni. La Germania, invece, è impastoiata tra i pronunciamenti della Corte costituzionale ‒ che nel marzo 2015, accogliendo il ricorso di un’insegnante musulmana velata, ha stabilito che non si può impedire di portare il velo a scuola ‒ e le norme che variano a seconda degli stati federali (nel Land di Berlino, ad esempio, la “Legge sulla neutralità” proibisce ai dipendenti pubblici di vestire, nelle ore di servizio, simboli o abiti che rimandino a un credo religioso).

E in Italia? In Italia, il punto di partenza è una normativa del 1975 che per motivi di sicurezza vieta, nei luoghi pubblici, l’uso di caschi protettivi o di altri mezzi che impediscano il riconoscimento facciale: una legge che sostanzialmente, in quanto a pericolosità, equipara oggetti culturali dirompenti, come il burqa e il niqab, al casco da biker. Vi è poi una molteplicità contraddittoria di normative secondarie che si esprimono sul burqa, tra cui un pronunciamento della Procura di Torino, per il quale indossarlo non viola alcuna legge, e uno del Tribunale di Milano per cui è legittimo vietarne l’utilizzo. Nulla si legifera sull’hijab.

Si obietta spesso, da parte musulmana, che il velo islamico non è diverso da quello delle suore cattoliche: un simbolo di appartenenza a Dio. Ma la suora di norma non diventa docente di scuola pubblica (fatta eccezione per l’ora di religione e qualche sparuto residuo di suore-maestre nelle elementari), tantomeno consigliera comunale, dirigente pubblica, sindacalista, deputata: Il Codice di Diritto Canonico, nel capitolo riferito ai doveri e ai diritti dei chierici, afferma che è «fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile (canone 285, § 3). E aggiunge: «Non abbiano parte attiva nei partiti politici e nella direzione di associazioni sindacali, a meno che, a giudizio dell’autorità ecclesiastica competente, non lo richiedano la difesa dei diritti della Chiesa o la promozione del bene comune» (canone 287, § 2).

Ovviamente, però, sulla questione specifica del velo, la Chiesa ‒ quella ufficiale, bergogliana, non identitaria ‒ è solidale e aperturista: «Se una donna musulmana vuole portare il velo, deve poterlo fare», ha dichiarato nel 2016 sul quotidiano cattolico La croix, e ha aggiunto, pro domo sua: «Ognuno deve avere la libertà di esteriorizzare la propria fede». L’auspicio nascosto è che, col riaffacciarsi sullo spazio pubblico di simboli religiosi allotri, il sentimento religioso possa riattivarsi a tutto campo, e che anche il cattolico felpato, defilato, ritrovi il coraggio per riprendersi la scena e riappropriarsi della sua fede coram populo. È proprio questo il passo che ha compiuto Salvini, cavandosi di tasca il rosario e sciorinandolo senza complessi, solo che non lo ha fatto nel modo “all inclusive” che avrebbe auspicato Bergoglio ‒ lasciando spazio agli altri simboli, purché nel rispetto della primazia cattolica ‒, bensì in chiave respingente, marcaposto. Quello cui aspira Salvini è certamente un cattolicesimo identitario che usa i simboli religiosi per aprirsi spazi politici, ma il suo diretto competitor ‒ l’islam visibile e vistoso del velo (integrale o meno), delle preghiere in strada, del cibo halal rivendicato nelle mense scolastiche ‒ non si comporta diversamente: apparendo vuole acquisire essere, guadagnare terreno politico e in prospettiva curvare la realtà ai suoi principi. In entrambi i casi siamo di fronte a simboli religiosi arcaici (il velo, il rosario) usati in funzione di un recupero identitario e reattivo contro una modernità che rimescola i punti di riferimento etici e culturali.

Il multiculturalismo iperprotettivo e garantista che per anni ha fatto l’amore col velo islamico e tutto il corredo halal dell’islam puritano, paradossalmente oggi si ritrova un figlio indesiderato e ribelle col rosario in pugno che, in hoc signo, vincit nei sondaggi. Un sentito ringraziamento.

 

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