Il romanzo di Leonardo Sciascia Il giorno della civetta è stato pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1961. L’autore siciliano (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989), da sempre interessato alla situazione socio-economica della sua terra d’origine, era da tempo impegnato nella denuncia della mafia, che imperversava ignorata e impunita su tutto il territorio. Sciascia decide così di servirsi del genere romanzo giallo, cui spesso ritornerà per le sue opere successive, per poter esprimere il suo risentimento e trasporre in una cornice letteraria la cronaca di un fatto realmente avvenuto, ovvero l’omicidio del sindacalista comunista Accursio Miraglia, assassinato dalla mafia a Sciacca nel gennaio del 1947.
Accursio Miraglia diventa così, grazie alla penna dello scrittore, Salvatore Colasberna, piccolo imprenditore di un paesino siciliano cui la mafia spara mentre sale su un autobus diretto a Palermo. Salvatore Colasberna è presidente di una piccola cooperativa edilizia “Santa Fara”, gestita assieme ad altri suoi due fratelli. Le indagini vengono affidate al Capitano Bellodi, altro personaggio che Sciascia “ruba” alla realtà, costruendolo sulla falsariga del comandante dei Carabinieri di Agrigento Renato Candida, che già nel 1956, nel suo libro Questa mafia, recensito proprio da Sciascia, aveva sollevato con notevole anticipo la questione del potere occulto mafioso in Italia. Quando i carabinieri giungono sulla scena del delitto, la piazza di un piccolo paesino siciliano, i passeggeri della corriera diretta a Palermo si dileguano disperdendosi velocemente per i vicoli laterali. Le forze dell’ordine, rappresentate dal maresciallo dei carabinieri e dal carabiniere semplice Sposito, riescono così a interrogare solo l’autista e il bigliettaio, che si rivelano anch’essi omertosi, negando di riconoscere il corpo del “morto ammazzato” e persino di aver assistito all’omicidio. I carabinieri riescono a portare in caserma un venditore di panelle, tipiche frittelle di ceci palermitane, che, dopo un interrogatorio durato due ore, ammette di aver sentito alcuni colpi di arma da fuoco provenire dall’angolo della chiesa. Il caso viene affidato al capitano Bellodi, un ex partigiano proveniente da Parma che, per un superiore senso di onore e giustizia, decide di non arrendersi davanti a questo apparentemente impenetrabile muro di silenzio, e riesce ad individuare gli indizi che legano l’omicidio alle organizzazioni mafiose locali, legate a don Mariano Arena e alle forze politiche al potere, grazie anche al doppiogioco del mafioso Calogero Dibella, poi ammazzato. Il capitano Bellodi, dopo varie difficoltà e alcuni passi falsi, riesce ad ottenere il nome del presunto assassino, tale Diego Marchica detto Zicchinetta, grazie all’intervento della moglie di Paolo Nicolosi, un potatore a sua volta trucidato dalla mafia per aver riconosciuto l’assassino. Bellodi riesce a far fermare l’omicida materiale e il suoi mandanti: Rosario Pizzuco e don Mariano, ma i tre imputati vengono presto rilasciati, anche se Bellodi si guadagna la stima del boss don Mariano, che lo considera un “uomo” in mezzo a molti “quaquaraquà”. Durante l’interrogatorio tra Arena e Bellodi, Arena dice: “Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo – Bellodi, riguardando alla società siciliana, pensò: La famiglia è lo Stato del siciliano”.
La stampa s’interessa largamente al caso, tanto che si apre un dibattito in Parlamento, alla presenza dello stesso Bellodi. Le pressioni politiche dall’alto, dietro cui si intravede la Democrazia Cristiana, portano all’archiviazione del caso, grazie ad alcuni alibi costruiti da personaggi politici influenti al fine di scagionare Zicchinetta; durante il confronto viene inoltre affermato che la mafia è un’invenzione dei comunisti e che in realtà il delitto di Colasberna è spiegabile come un caso di infedeltà coniugale. Bellodi, nel frattempo spedito a Parma per una vacanza forzata, scopre dai giornali l’esito della sua inchiesta sulle collusioni tra la mafia e il potere; rientrando in casa, tuttavia, dichiara di volersi “rompere la testa” tornando in Sicilia a combattere la mafia. La tenacia e la perspicacia dell’uomo di legge non bastano a stanare i “grandi burattinai” e quando il cerchio sta per stringersi attorno ai nomi dei politici, testimoni illustri giungono a smontare tutto il castello di verità. E’ una conclusione assurda, “incredibile come la Sicilia, incredibile è anche l’Italia, e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia”.
Incipit del romanzo “Il giorno della civetta”, di Leonardo Sciascia
“L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante ed ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l’autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L’ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l’uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all’autista «un momento» e aprì lo sportello mentre l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò. Il bigliettaio bestemmiò: la faccia gli era diventata colore di zolfo, tremava. Il venditore di panelle, che era a tre metri dall’uomo caduto, muovendosi come un granchio cominciò ad allontanarsi verso la porta della chiesa. Nell’autobus nessuno si mosse, l’autista era come impietrito, la destra sulla leva del freno e la sinistra sul volante. Il bigliettaio guardò tutte quelle facce che sembravano facce di ciechi, senza sguardo disse «l’hanno ammazzato» si levò il berretto e freneticamente cominciò a passarsi la mano tra i capelli; bestemmiò ancora. «I carabinieri» disse l’autista «bisogna chiamare i carabinieri». Si alzò ed aprì l’altro sportello «ci vado» disse al bigliettaio. Il bigliettaio guardava il morto e poi i viaggiatori. C’erano anche donne sull’autobus, vecchie che ogni mattina portavano sacchi di tela bianca, pesantissimi, e ceste piene di uova; le loro vesti stingevano odore di trigonella, di stallatico, di legna bruciata; di solito la stimavano e imprecavano, ora stavano in silenzio, le facce come dissepolte da un silenzio di secoli.
«Chi è?» domandò il bigliettaio indicando il morto. Nessuno rispose. Il bigliettaio bestemmiò, era un bestemmiatore di fama tra viaggiatori di quella autolinea, bestemmiava con estro: già gli avevano minacciato licenziamento, che tale era il suo vizio alla bestemmia da non far caso alla presenza di preti e monache sull’autobus. Era della provincia di Siracusa, in fatto di morti ammazzati aveva poca pratica: una stupida provincia, quella di Siracusa; perciò con più furore del solito bestemmiava. Vennero i carabinieri, il maresciallo nero di barba e di sonno. L’apparire dei carabinieri squillò come allarme nel letargo dei viaggiatori: e dietro al bigliettaio, dall’altro sportello che l’autista aveva lasciato aperto, cominciarono a scendere. In apparente indolenza, voltandosi indietro come a cercare la distanza giusta per ammirare i campanili, si allontanavano verso i margini della piazza e, dopo un ultimo sguardo, svicolavano. Di quella lenta raggera di fuga il maresciallo e i carabinieri non si accorgevano. Intorno al morto stavano ora una cinquantina di persone, gli operai di un cantiere-scuola ai quali non pareva vero di aver trovato un argomento così grosso da trascinare nell’ozio delle otto ore. Il maresciallo ordinò ai carabinieri di fare sgombra-re la piazza e di far risalire i viaggiatori sull’autobus: e i carabinieri cominciarono a spingere i curiosi verso le strade che intorno alla piazza si aprivano, spingevano e chiedevano ai viaggiatori di andare a riprendere il loro posto sull’autobus. Quando la piazza fu vuota, vuoto era anche l’autobus; solo l’autista e il bigliettaio restavano. «E che» domandò il maresciallo all’autista «non viaggiava nessuno oggi?». «Qualcuno c’era» rispose l’autista con faccia smemorata. «Qualcuno» disse il maresciallo «vuol dire quattro cinque sei persone: io non ho mai visto questo autobus partire, che ci fosse un solo posto vuoto». «Non so» disse l’autista, tutto spremuto nello sforzo di ricordare «non so: qualcuno, dico, così per dire; certo non erano cinque o sei, erano di più, forse l’autobus era pieno… Io non guardo mai la gente che c’è: mi infilo al mio posto e via… Solo la strada guardo, mi pagano per guardare la strada». Guardi solo la strada; ma tu» e si voltò inferocito verso il bigliettaio «tu stacchi i biglietti, prendi i soldi, dai il resto: conti le persone e le guardi in faccia… E se non vuoi che te ne faccia ricordare in camera di sicurezza, devi dirmi subito chi c’era sull’autobus, almeno dieci nomi devi dirmeli… Da tre anni che fai questa linea, da tre anni ti vedo ogni sera al caffè Italia: il paese lo conosci meglio di me…». «Meglio di lei il paese non può conoscerlo nessuno» disse il bigliettaio sorridendo, come a schermirsi da un complimento. «E va bene» disse il maresciallo sogghignando «prima io e poi tu: va bene… Ma io sull’autobus non c’ero, che ricorderei uno per uno i viaggiatori che c’erano: dunque tocca a te, almeno dieci devi nominarmeli». «Non mi ricordo» disse il bigliettaio «sull’anima di mia madre, non mi ricordo; in questo momento di niente mi ricordo, mi pare che sto sognando». «Ti sveglio io ti sveglio» s’infuriò il maresciallo «con un paio d’anni di galera ti sveglio…» ma s’interruppe per andare incontro al pretore che veniva. E mentre al pretore riferiva sulla identità del morto e la fuga dei viaggiatori, guardando l’autobus, ebbe il senso che qualcosa stesse fuori posto o mancasse: come quando una cosa vie-ne improvvisamente a mancare alle nostre abitudini, una cosa che per uso o consuetudine si ferma ai nostri sensi e più non arriva alla mente, ma la sua assenza genera un piccolo vuoto smarrimento, come una intermittenza di luce che ci esaspera: finché la cosa che cerchiamo di colpo nella mente si rapprende. «Manca qualcosa» disse il maresciallo al carabiniere Sposito che, col diploma di ragioniere che aveva, era la colonna della Stazione Carabinieri di S. «manca qualcosa, o qualcuno…». «Il panellaro» disse il carabiniere Sposito. «Perdio: il panellaro» esultò il maresciallo, e pensò delle scuole patrie ‘non lo danno al primo venuto, il diploma di ragioniere’. Un carabiniere fu mandato di corsa ad acchiappare il panellaro: sapeva dove trovarlo, che di solito, dopo la partenza del primo autobus, andava a vendere le panelle calde nell’atrio delle scuole elementari. Dieci minuti dopo il maresciallo aveva davanti il venditore di panelle: la faccia di un uomo sorpreso nel sonno più innocente. «C’era?» domando il maresciallo al bigliettaio, indicando il panellaro. «C’era» disse il bigliettaio guardandosi una scarpa.
«Dunque» disse con paterna dolcezza il maresciallo «tu stamattina, come al solito, sei venuto a vendere panelle qui: il primo autobus per Palermo, come al solito…». «Ho la licenza» disse il panellaro. «Lo so» disse il maresciallo alzando al cielo occhi che invocavano pazienza «lo so e non me ne importa della licenza; voglio sapere una cosa sola, me la dici e ti lascio subito andare a vendere le panelle ai ragazzi: chi ha sparato?». «Perché» domandò il panellaro, meravigliato e curioso «hanno sparato?”.
Raimondo Giustozzi
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