Il romanzo Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini fu pubblicato dall’editore Bompiani nel 1941. E’ il viaggio di un uomo che ritorna dopo quindici anni in Sicilia. L’identità del viaggiatore è incerta, può essere lo scrittore stesso ma il racconto non è un’autobiografia. Vittorini stesso precisa che la Sicilia che fa da contorno alla Conversazione “E’ solo per avventura Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela”. E’ una trovata che non convinse nessuno, né il censore del libro né il lettore, anche se la Sicilia rappresentata nel romanzo non esisteva più nemmeno al tempo di Vittorini. Il libro si compone di cinque parti e l’epilogo, per un totale di quarantanove capitoli e duecento trentadue pagine.
Parte prima – Incipit del romanzo
“Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire a vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe” (Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, pag. 17- 18, Mondadori, Milano 2003).
L’espressione Gli astratti furori rimanda ad un sentimento di dolore e di impotenza nei confronti del genere umano perduto. I giornali squillanti sono i titoli dei giornali che descrivono i massacri e le lotte dovute alla guerra allora in corso. L’acqua mi entrava nelle scarpe rappresenta una situazione di estremo disagio. Credere il genere umano perduto è una trovata letteraria che dà al romanzo l’alone di un’atmosfera quasi onirica. Restare in casa era per me lo stesso. È il segno di un’apatia e di quiete inerme. Un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, è il ricordo che l’io narrante, protagonista ha della propria infanzia e adolescenza trascorse nell’isola.
La prima parte è composta di otto piccoli capitoli. Il protagonista, Silvestro Ferrauto, intellettuale e tipografo vive a Milano da quindici anni. Ha una compagna. E’ figlio di Costantino, impiegato delle Ferrovie e di Concezione. Manca dalla Sicilia da quindici anni, quando era emigrato a Milano per lavoro. Ha circa trent’anni. Nei primi giorni di dicembre di un anno imprecisato, all’approssimarsi dell’onomastico della madre gli giunge una lettera che il padre ha scritto ai cinque figli sparsi per il mondo.
Mio caro ragazzo,
tu sai e tutti voi sapete che sono stato sempre un buon padre, e per la mamma vostra un buon marito, insomma un buon uomo, ma ora mi è successo una cosa, e sono partito, ma voi non dovete giudicarmi male, sono rimasto lo stesso buon uomo che ero, e per voi tutti lo stesso buon padre, un buon amico per la mamma vostra e per di più potrò essere un buon marito per questa, diciamo, mia moglie nuova con la quale sono partito. Figli miei, io vi parlo senza vergogna, da uomo a uomini, e non chiedo il vostro perdono. So di non far male a nessuno. Non a voi che siete tutti partiti prima di me e non alla mamma vostra cui in fondo tolgo soltanto il disturbo della mia compagnia. Con me o senza di me é lo stesso per lei che continuerà a cantare e fischiare nella sua casa. Vado dunque senza rimpianti per la mia nuova strada. Voi non vi preoccupate di soldi o altro. La mamma vostra non avrà bisogno di nulla; riceverà ogni mese, per intero, la mia pensione di ex ferroviere. Io vivrò di lezioni private, realizzando in tal modo anche un mio vecchio sogno che vostra madre mi aveva sempre impedito di realizzare. Però vi prego, ora che vostra madre è sola andatela qualche volta a trovare. Tu, Silvestro, avevi quindici anni quando ci hai lasciati e d’allora, ciao, non ti sei fatto più vedere. Perché l’otto dicembre, invece di mandarle la solita cartolina di auguri per l’onomastico, non prendi il treno e vai giù e le fai una visita? Ti abbraccio insieme alla tua cara moglie e ai bambini e credimi aff.mo papà tuo” (pag. 19- 20).
Il sei dicembre, l’antivigilia del compleanno di sua mamma, Silvestro prende il treno e, passando per Bologna, Firenze, Roma, Napoli e per le “Calabrie”, ritorna in Sicilia. Durante il viaggio incontra diversi personaggi che lo colpiscono particolarmente e con i quali intavola delle conversazioni su tutto, da qui il titolo dato al romanzo. Sul traghetto, che lo porta da Villa San Giovanni a Messina, conosce un piccolo siciliano disperato con una moglie bambina che non vuole mangiare l’arancia che il marito le offre con tanta attenzione. Ne ha tante nel paniere, ritorna da un aranceto dopo avervi lavorato per molte ore. E’ pagato così in natura. Ne offre anche a Silvestro che viene scambiato dall’occasionale viaggiatore per un americano. Il protagonista sta al gioco e dice di essere americano. “Sì – dissi io. Americano sono. Da quindici anni” (pag. 28). Sul treno che lo porta a Siracusa, Silvestro conosce un uomo. “Era un siciliano, grande, un lombardo o normanno forse di Nicosia, tipo anche lui carrettiere come quelli delle voci sul corridoio, ma autentico, aperto, e alto, e con gli occhi azzurri” (pag. 39). Il protagonista rivede nel viaggiatore i tratti di suo padre, sebbene non lo veda da quindici anni. “Il Gran Lombardo”, il nomignolo che Silvestro dà al passeggero richiama i versi di Dante Alighieri: “Lo primo tuo refugio, il primo ostello / sarà la cortesia del gran Lombardo / che ‘n su la scala porta il santo uccello” ( Dante Alighieri, Paradiso, XVII, vv 70- 72). Qui il Gran Lombardo è Bartolomeo della Scala. Nel corso della conversazione, il Gran Lombardo sostiene la necessità che l’uomo non si limiti ai propri doveri privati ma che se ne assuma di nuovi, da contrarre con gli altri: “Credo che l’uomo sia maturo per altro, – disse. – Non soltanto per non rubare, non uccidere, eccetera, e per essere un buon cittadino. Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri. E’ questo che si sente, il credo, la mancanza di altri doveri, altre cosa da compiere. Cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo” (pag. 45). Dicendo questo, è evidente la critica che Vittorini fa del fascismo e della guerra in corso. Nello stesso scompartimento del treno viaggiano altri tre passeggeri: “Uno giovane, con un berretto di panno sottile, e avvolto in uno scialle, giallo in faccia, scarno, minuto; sedeva nell’angolo in diagonale a me, contro il finestrino. Uno, anche giovane, era sanguigno, forte, coi capelli crespi e neri, il collo nero, un popolano di città, cero un catanese; e sedeva all’altro capo del mio sedile, di fronte al malato. Il terzo era un piccolo vecchio senza un pelo in faccia, e scuro, con la pelle coriacea, a scaglie cubiche, come di tartaruga, e incredibilmente piccolo e asciutto: una foglia secca” (pag. 40). A tener banco nella conversazione è sempre il Gran Lombardo che parla ripetutamente di sentire una puzza. Tutti dicono la loro. Il vecchietto ride sempre. Con loro viaggiano anche due poliziotti. Vengono, l’uno da Bologna, l’altro da Milano, chiamati dal protagonista “Senza Baffi” e “Con Baffi”. Sono malvisti da tutti gli altri occupanti del treno. Rappresentano la borghesia che sta dietro solo ai propri interessi senza nessuna cura degli altri soprattutto se bisognosi e diversi. Il gran parlare del Gran Lombardo fa pensare che sia un professore: “Fui dai salesiani, da ragazzo, ma non sono un professore”, risponde l’interessato. Il treno arriva alla stazione di Catania. Qui scendono il vecchietto, il giovane forte e il Gran Lombardo. Il poliziotto “Senza Baffi” e il giovane malato di malaria, il protagonista se li ritrova sul treno per Siracusa. Silvestro, il narratore del racconto, conosce meglio il poliziotto “Senza Baffi”. Viene da Bologna, dove lavora al Catasto, la moglie è bolognese ed anche i figli. Sta andando a Sciacca, al proprio paese. L’altro suo amico “Con i Baffi”, di Milano, ha preso il treno per Caltanissetta. Nel corso del viaggio, “Senza Baffi” tira fuori del pane da un piccolo paniere da merenda per ragazzi, ma di fibra, assieme a una lunga frittata arrotolata in forma di pesce. Da qui il nome che in Sicilia danno alla stessa. “Pesceduovo”. Ne dà anche al protagonista che gli siede accanto e il treno arriva così a Siracusa. I due si salutano e scendono. Silvestro si reca alla stazione delle “Ferrovie Secondarie per sentire se gli bastavano i soldi per continuare il viaggio fino da mia madre, nelle montagne” (pag. 55).
Parte seconda (dal capitolo IX al XX).
Tutti i capitoli del romanzo hanno la numerazione romana. Lasciato Senza Baffi a Siracusa, Silvestro prosegue il suo viaggio: “Alle tre, nel sole di dicembre, dietro il mare che scoppiettava nascosto, il trenino entrava, piccoli vagoni verdi, in una gola di roccia e poi nella selva dei fichidindia. Era la ferrovia secondaria, in Sicilia, da Siracusa per le montagne: Sortino, Palazzolo, Monte Lauro, Vizzini, Grammichele. Cominciarono a passare le stazioni, casotti di legno col sole sul cappello rosso dei capistazione, e la selva si apriva, si stringeva, di fichidindia alti come forche. Erano di pietra celeste, tutti fichidindia, e quando si incontrava anima viva era un ragazzo che andava e tornava, lungo la linea, per cogliere i frutti coronati si spine che crescevano, corallo, sulla pietra dei fichidindia. Gridava al treno mentre il treno gli passava davanti. Soffiava il vento entro le cave della foresta, lo si sentiva, suonare, come già dianzi il mare, un vento minuto di scoppiettii. Poi svolazzava un lembo di bandierina rossa, si arrivava, si ripartiva. E tra i fichidindia apparivano case; il treno si fermava sulle arcate di un ponte e dal ponte girava la gradinata dei tetti; si attraversava la galleria, si era di nuovo tra i fichidindia e scogliere di roccia, e di nuovo non si incontrava altra anima viva che un ragazzo. Egli gridava, gridava al treno, mentre il treno gli passava davanti; e il sole era sopra al grido di lui, sulle bandierine rosse, sui cappelli rossi dei capistazione. D’un tratto, poi, un cappello rosso, una bandierina rossa, un grido di ragazzo furono senza più sole, e sotto i fichidindia fu buio, comparve un lume. Un asino bigio guadò un sentiero d’acqua; e si salì e si passarono gallerie, si videro, lunghe schiene di montagne, e alle fermate, giù in una conca, quattro luci, cinque luci, i paesi. Poi si udì un fragore di torrente e una voce disse. – Siamo a Vizzini” (pag. 60- 61). Sono pagine indimenticabili. Trasudano di bellezza. Vittorini conosceva molto bene le diverse linee ferroviarie, quelle calabresi e siciliane, perché il padre, impiegato nelle Ferrovie, era soggetto a continui trasferimenti da una stazione all’altra, dove portava la famiglia. Nei romanzi di Vittorini, quelli legati alla sua terra natia, il paesaggio sembra che abbia i connotati di un bene perduto.
Silvestro trascorre la notte in una locanda di Vizzini, per continuare il viaggio all’indomani: “E mi alzai l’indomani, fatto anche di carrube, con quell’odore ormai in me, alla luce che entrava dalla finestra senza imposte, e viaggiai, come se il sonno continuasse, in corriera, lungo il torrente, da Vizzini alta sopra tre valloni verso più in alto nelle montagna, per tre ore, fino a che uno disse – Neve, – e si fu arrivati” (pag. 61). Il protagonista scende e si incammina verso la casa della mamma, situata nella parte alta del paese: “Ma guarda, – pensai – sono da mia madre!”, quando dalla corriera scesi appié dalla lunga scalinata che portava ai quartieri alti del paese di mia madre. Il nome del paese era scritto su un muro come sulle cartoline che io mandavo ogni anno a mia madre, e il resto, quella scalinata tra vecchie case, le montagne attorno, le macchie di neve sui tetti, era dinanzi ai miei occhi come d’un tratto ricordavo ch’era stato una volta o due nella mia infanzia. E mi parve ch’essere là non mi fosse indifferente, e fui contento d’esserci venuto, non esser rimasto a Siracusa, non aver ripreso il treno per l’Alta Italia, non aver ancora finito il mio viaggio. Questo era il più importante nell’esser là; non aver finito il mio viaggio; anzi, forse, averlo appena cominciato; perché così, almeno, io sentivo, guardando la lunga scalinata e in alto le case e le cupole, e i pendii di case e roccia, e i tetti nel vallone in fondo, e il fumo di qualche comignolo, le macchie di neve, la paglia, e la piccola folla di scalzi bambini siciliani sulla crosta di ghiaccio ch’era in terra, nel sole, intorno alla fontana di ghisa. Ma guarda, sono da mia madre”, pensai di nuovo, e lo trovavo improvviso, esserci, come improvviso ci si ritrova in un punto della memoria, e altrettanto favoloso, e credevo di essere entrato a viaggiare in una quarta dimensione” (pag. 62- 63). Come un portalettere, Silvestro, ripercorrendo la strada solo grazie alla sua memoria, si avvicina alla casa della mamma e la chiama da fuori: “La signora apparve, alta, con la testa chiara, e io riconobbi perfettamente mia madre, una donna alta coi capelli castano quasi biondi, e il mento duro, il naso duro, gli occhi neri. Aveva sulle spalle una coperta rossa in cui si teneva calda” (pag. 65). Concezione Ferrauto, la mamma di Silvestro indosserà sempre per tutta la visita del figlio, questa coperta rossa per ripararsi dal freddo. Non fa molti convenevoli verso il figlio. Lo invita in cucina per mangiare assieme qualcosa. Il figlio intanto nomina due fratelli, Felice e Liborio. Mamma e figlio intavolano una lunga conversazione ricordando giorni e anni lontani. Di quel tempo trascorso, Silvestro ha un ricordo felice, la mamma invece gli ricorda spesso la miseria in cui vivevano. Sul tavolo compaiono aringa e pane. I due iniziano a mangiare e a raccontarsi gli anni trascorsi nelle diverse case cantoniere disseminate lungo la linea ferrata. Il tono tra i due sembra semplice e quasi “distaccato“. Il dialogo tocca anche il padre, colpevole di averla tradita tante volte e di essere stato un buono a nulla, e il nonno, un grand’uomo che Concezione ammirava molto. Silvestro paragona il nonno al Gran Lombardo, in cerca di qualcosa di più, anche se non lo ricorda bene. Il nonno, era stato grande in ogni cosa, precisa la mamma: “Aveva messo al mondo delle figlie grandi e belle, tutte figlie femmine, gridò, e si era costruito quella casa dove ora lei viveva, pur senza essere un muratore, con le sue stesse mani. Era un grand’uomo, – disse – Poteva lavorare diciotto ore al giorno, ed era un gran socialista, un gran cacciatore e grande a cavallo nella processione del san Giuseppe” (pag.76). Silvestro si meraviglia come mai un socialista, un anticlericale si interessava della processione che è roba di preti. La mamma gli dà dell’ignorante e gli indica dalla finestra il percorso attraverso il quale si snodava la cavalcata. Il figlio vede nella campagna e stenta a ricordare quello che forse da bambino aveva visto: “Mi sembra di ricordare, – dissi io, e in effetti mi sembrava di averla almeno sognata qualcosa di simile, scampanellio di cavalli e una grande stella in fronte alla montagna, nel vivo della notte, ma mia madre disse. – Un corno! Non avevi che tre anni l’unica volta che l’hai vista. E io guardai di nuovo quella Sicilia ch’era fuori, poi tutta mia madre avvolta nella coperta rossa, dalla testa chiara ai piedi, e vidi che aveva scarpe da uomo ai piedi, scarpe vecchio di mio padre, da cantoniere, alte e forse coi chiodi come sempre lei aveva avuto l’abitudine di portare per casa, ricordavo, onde stare più comoda, o sentirsi in qualche modo piantata nell’uomo, e un po’ uomo, costola di uomo” (pag. 78). La madre ricorda che il marito, il padre di Silvestro era un buono a nulla. Piangeva sempre, anche quando era incapace ad aiutarla nei momenti del parto che avveniva sempre in casa, mai all’ospedale che era una cosa da ricchi. Era solo capace di andare nelle case cantoniere vicine per chiedere aiuto ad altre donne, mogli di altri cantonieri, perché venissero in soccorso Gli aiuti non arrivavano mai: “Erano le due di notte e non arrivò nessuno. Ma io afferrai la bottiglia dell’acqua che era sul comodino, mi aveva preso una gran rabbia, e la tirai in testa a tuo padre. – Lo colpisti’ – io dissi. E mia madre: – Perbacco, ho una buona mira. Lo colpii e lui allora si mise ad aiutarmi. E mi aiutò, mi tirò fuori il bambino sano e salvo come se fosse un altro uomo e non lui, ma naturalmente fui più io a spingere che lui a tirare; aveva la faccia tutta sangue e sudore” ( pag. 83). La madre racconta al figlio tutti i tradimenti che aveva dovuto sopportare da parte del marito. Era galante con le mogli degli altri cantonieri. Era un ballerino. Amava il teatro. Recitava Macbeth. Era un perdigiorno. Era anche bello d’aspetto. Le donne gli andavano dietro e lui faceva del tutto per assecondarle. Anche lei comunque, stanca di essere tradita, aveva avuto una scappatella con un soldato scappato dalla prima guerra mondiale. Il figlio ascolta divertito la confidenza della mamma.
Parte terza (dal capitolo XXI- al XXXI).
Non era per niente vero che Costantino passasse tutta la pensione da ferroviere alla moglie, come scriveva nella lettera indirizzata ai figli sparsi per il mondo, se Concezione era costretta ad andare nelle diverse case del paese per fare le iniezioni ai malati di malaria e di tisi. Silvestro, in compagnia della mamma, visita queste case e si trova davanti alla povertà più assoluta. Il protagonista vive un’esperienza rivelatrice. La vista della sofferenza di uomini e donne rassegnate e indifese, suscita una riflessione sull’intero genere umano. Queste persone rappresentano il “mondo offeso”, la parte di umanità che pur essendo quotidianamente oppressa, affronta con rassegnazione il proprio destino. Il viaggio di Silvestro si colora di impegno politico e sociale. “ Bisogna che vada a fare il mio giro- . E si mise su una sedia a cambiarsi le scarpe, si tolse quelle da uomo, infilò un paio di stivaletti da donna che stavano sotto la tavola. – il tuo giro? Che giro? – chiesi io. – Ti porto con me, mia madre rispose. Si alzò, con gli stivaletti ai piedi, e fu più alta e ondulante, e passata in camera a vestirsi per fuori, mi parlò da lì in mezzo alla musica delle zampogne. Mi disse che si era messa a fare le iniezioni. Riteneva, disse, di non potersi aspettare nulla da mio padre, e si era messa a guadagnarsi la vita così, facendo iniezioni” (pag. 116). Silvestro accompagna la madre in queste visite. La mamma conosce tutti i suoi pazienti. Cammina quasi al buio. Ogni volta che fa visita all’ammalato, uomo o donna, si annuncia, dicendo che ha con sé il proprio figlio. Silvestro non vede niente, sente solo le voci degli ammalati e ciò che dice sua mamma. “Mi vedevano ed erano invisibili: erano come spiriti. E come uno spirito mia madre fece l’iniezione perfettamente al buio, parlando di etere e di ago” (pag. 118). Le abitazioni sono casupole scavate nella roccia. Tutti sono malati di tisi e malaria. I pazienti non mangiano quasi nulla, solo qualche cipolla. In questa e nella parte successiva, il romanzo si colora di allegorie e il linguaggio diventa simbolico: “Io ero stato malato, per mesi, qualche tempo prima, e conoscevo la profondità di esserlo, questa profonda miseria nella miseria del genere umano operaio, specie quando uno è a letto già da venti giorni, o trenta, e ci resta, tra quattro mura, noi e le cose di stoffa del letto, le cose di metallo della cucina, e il legno delle seggiole, della tavola, dell’armadio. Non vi è più altro al mondo, allora, e si guardano queste cose, i mobili, ma non si può farne nulla, non si può fare un brodo di seggiola o di armadio. Pure è così grande l’armadio, vi sarebbe da mangiare per un mese. E si guardano queste cose come se fossero cose da mangiare; e forse è per questo che i bambini diventano pericolosi e rompono, rompono. Il più piccolo ha tutto il giorno una caviglia di seggiola in bocca e urla se la madre cerca di togliergliela. Lei, la madre, ossia la moglie, o insomma la ragazza guarda i libri e ogni tanto ne prende anche uno, si mette a leggerlo. Passa ore a sfogliare e leggere. E il malato domanda: – Che leggi? La donna non sa che cosa legge, ma un libro può essere qualunque cosa, un dizionario o una vecchia grammatica. Dice dunque il malato: – Proprio ora vuoi farti una cultura?
E la donna ripone il libro, ma poi ritorna a guardare la loro fila, di libri, non di roba che si mangia, di nuovo ne prende uno, e stavolta esce di casa, sta fuori un pezzo del pomeriggio. – Quanto lo hai venduto? – domanda poi il malato. La donna dice che lo ha venduto una e cinquanta e il malato non è contento, non capisce mai molto la situazione, ha la febbre imperterrita, nel letto vecchio di giorni e di giorni, al suo fianco. Pure vorrebbe qualcosa, fuori da quel libro che fu suo quando era un ragazzo, e si aspetta un po’ di brodo, e alla fine urla contro la moglie che invece ha comprato pane e formaggio per sé e per i bambini. – Sparvieri, – dice dei bambini. Essi, a scuola, hanno ogni giorno una scodella di minestra. Questa è buona iniziativa, dare ogni giorno una scodella di minestra, nelle scuole, ai figli della gente che muore di fame. Ma sembra che sia un aperitivo. Dopo quella cucchiaiata di minestra i ragazzi tornano a casa coi denti fuori, e non intendono ragioni, vogliono mangiare a tutti i costi, e sono come animali feroci, divorano le caviglie delle seggiole, vorrebbero divorare il padre e la madre. Se un giorno trovassero il malato solo lo divorerebbero. Sul tavolo da notte, al capezzale del malato, ci sono le medicine. I ragazzi arrivano dalla scuola, coi denti fuori, aguzzi, con la fame aguzzata, e si avvicinano al malato, vorrebbero mangiarselo, vengono a passi di lupo… Ma c’è la madre in casa, e i ragazzi lasciano stare il malato, si avventano sulle medicine. – Sparvieri, – il malato dice. E intanto l’uomo del gas ha tagliato il gas, l’uomo della luce ha tagliato la luce, si passano le lunghe sere al buio nella stanza del malato. Solo l’acqua non è stata tagliata; l’uomo dell’acqua viene ogni sei mesi, così non si corre pericolo immediato che arrivi e tagli l’acqua, e si beve, si beve, si beve acqua più che si può, cotta in ogni modo o anche cruda. Ma c’è la padrona di casa che viene ogni giorno, vuoi vedere il “signor malato”, vuol vederlo in faccia, e quando entra e lo vede gli dice:
– Bene, signor malato, troppo lusso non pagare la pigione e stare a letto… Mandatemi almeno vostra moglie a lavarmi i piatti. E la moglie va dalla padrona a lavare i piatti, lavare i pavimenti, lavare i panni; tutto in conto della pigione non pagata; e il malato resta solo in casa lunghe ore con l’imperterrita febbre al fianco che lo batte in faccia, lo batte, lo batte, lo percuote come approfittando della sua solitudine. Torna la moglie e il malato le chiede se non ha portato nulla dalla padrona di casa. – Nulla, – la moglie dice. Non porta mai nulla. – Ma perché almeno non vai a raccogliere verdura selvatica? – egli chiede. Dice la moglie: – Dove? Va per le strade e arriva al parco; c’è erba sui prati, c’è verde sugli alberi, è verdura, e strappa erba, strappa fronde di abeti e pini, poi va anche ai giardini e strappa fiori e torna con verdura a casa, foglie e fiori nascosti nel petto. Tutto questo butta addosso al malato ed egli è un uomo tra i fiori. – Ecco, – la moglie dice. – Verdura! (pag. 129- 132). Ogni uomo fa esperienza del male e del dolore, ma non per questo ogni uomo è uomo, e non tutto il genere umano è genere umano. Questa verità sarà trattata diffusamente in un altro romanzo di Elio Vittorini, “Uomini e no”.
Intanto, nel prosieguo del viaggio, di fronte ad un’umanità povera e umile, retta da rapporti elementari e contraddittori, Silvestro elabora una teoria secondo la quale il genere umano si dividerebbe in due: “Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato”. Per Vittorini sono gli “offesi”, gli ultimi della scala sociale, a essere portatori della vera virtù, e a loro è rivolto il monito di questo libro, che incita ogni uomo che si senta oppresso e umiliato a non cercare di farsi a sua volta “oppressore”. Non avendo interlocutori con i quali parlare di questo, Silvestro ne parla con la mamma alla quale chiede cosa pensi di questo problema. La madre gli risponde che ognuno ha i suoi problemi e ogni persona pensa solo a risolvere il proprio. Il figlio le chiede di mettersi nei panni del cinese che non conosce la nostra lingua, viene da una cultura diversa. La madre gli risponde che anche molti siciliani sono senza speranza, soli e abbandonati. Cosa mancherebbe? Togliere la malattia, risponde la mamma: “Essa aveva ragione, naturalmente: togliete la malattia al malato, e non vi sarà dolore; date da mangiare all’affamato e non vi sarà più dolore. Ma l’uomo, nella malattia, che cos’è. E che cos’è nella fame? Non è, la fame, tutto il dolore del mondo diventato fame? Non è, l’uomo nella fame, più uomo? Non è più genere umano? E il cinese?” (pag. 137). Il discorso sull’infelicità di una parte del genere umano continua con il racconto della mamma su suo padre, un grande uomo, umile, povero ma fiero nella sua dignità. Intanto, continua il giro dei due nelle case degli ammalati. La mamma, sempre annunciandosi e presentando il figlio, entra nelle case, prima di una vedova, poi di una sua amica e in presenza del figlio fa l’iniezione alle due ammalate. La madre chiede al figlio di essere sempre presente. Vuole sincerarsi se sa come sono fatte le donne. Silvestro ricorda alla mamma che lo sapeva già all’età di sei anni quando abitava in una delle tante case cantoniere. La censura fascista, come si era scagliata sul romanzo “Il garofano rosso”, bollandolo come pornografico, si scagliò anche su queste pagine riguardanti “lo stucchevole giro delle iniezioni, trovandovi una sorta di iniziazione sessuale dell’autore” (pag. 9).
Parte quarta (Dal capitolo XXXII al XL).
Sono otto capitoli dove prende corpo più che in quelli precedenti il tema del genere umano offeso. Silvestro lascia che la madre vada a fare le iniezioni sui suoi pazienti e assiste, seduto su un paracarro, al volo di aquiloni, draghi volanti, chiamati in Sicilia, lanciati da un’altra parte della montagna. Nel corso del cammino incontra Calogero, l’arrotino, il paniere Porfirio, il locandiere Colombo ed Ezechiele. Il confronto sul tema del dolore si fa serrato con i nuovi interlocutori. L’arrotino Calogero sostiene che nessuno ha più coltelli da affilare e si rallegra del temperino che Silvestro ha con sé. L’arrotino, oppresso che vuole trasformarsi in oppressore, è il simbolo di chi è sempre pronto ad imbrogliare il prossimo e a farsi strada a gomitate sulle strade della vita. Ma anche Calogero si ravvede. Dopo aver arrotato il temperino e Silvestro gli ha pagato il lavoro, l’arrotino cerca di imbrogliarlo: “Si grattò la nuca, e mi restituì dieci centesimi, guardando il cielo. – Tenete, – mi disse. – Volevo prendervi due soldi di più ma Dio non vuole. Erano questi due soldi che facevano la confusione” (pag.166).
Calogero porta Silvestro da Ezechiele, uomo profondamente diverso. Ezechiele infatti insiste sulla necessità di imparare a soffrire per il mondo offeso, invece che per i propri dolori personali: “L’uomo Ezechiele si mise a riepilogare. – Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso” (pag. 173). Solo in una solidarietà compassionevole, l’uomo troverà la forza per ribellarsi all’oppressione. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e continua ad essere offeso.
Il trio si sposta successivamente dal panniere Porfirio: “Serena era l’aria fredda e le campane non volavano più per il cielo, tacevano nel nido loro. Ma ancora si distinguevano i colori delle cose nella piccola strada, io vidi, e gridai Una bandiera! – Bandiera? – disse l’arrotino. E l’uomo Ezechiele: – Che bandiera? – A quella porta, – dissi io. E l’uomo Ezechiele: – Ma è Porfirio! E’ il panniere! Risero i miei due compagni, e io mi ricordai dell’usanza che si aveva in Sicilia di indicare le botteghe di stoffe con un panno appeso fuori della porta. Non importava di che colore fosse; poteva essere verde, poteva essere giallo, poteva essere azzurro; dove c’era un panno significava che c’era un panniere, si vendeva stoffa” (pag. 180). Il panniere Porfirio ha una soluzione per lavare le offese del mondo: “Ve l’ho detto mille volte e ve lo torno a dire. Solo l’acqua viva può lavare le offese del mondo e dissetare l’uman genere offeso. Ma dov’è l’acqua viva? – Dove ci sono coltelli c’è acqua viva, – l’arrotino disse. – Dove c’è il dolore per il mondo c’è acqua viva – disse l’uomo Ezechiele. Eravamo immersi nella notte, ormai, e le voci si abbassarono, nessuno più avrebbe potuto udirci parlare. Stavamo vicini, con le teste vicine, e l’uomo Porfirio era come un enorme cane nero di San Bernardo che tenesse raccolti tutti e se stesso nel calore del suo pelo. A lungo egli parlò dell’acqua viva; e parlò l’uomo Ezechiele, parlò l’arrotino; e le parole furono notte nella notte e noi fummo ombre, io credevo di essere entrato in un conciliabolo di spiriti. Poi la voce dell’uomo Porfirio tornò alta. – Andiamo. Vi offro un bicchier di vino da Colombo, – egli disse. E tirò giù il panno appeso alla porta, chiuse, ci condusse avvolti nella sua calda corrente per la strada” (pag. 184). Nella bottega di Colombo tutti bevono bicchieri di vino, continuando a discutere sulle offese portate al genere umano. Il panniere Porfirio rappresenta il pensiero cattolico. Vorrebbe lavare le piaghe dell’umanità con il potere purificatore dell’acqua viva.
Parte quinta ed epilogo (dal capitolo XLI AL XLIX)
“Era notte, sulla Sicilia e la calma terra: l’offeso mondo era coperto di oscurità, gli uomini avevano lumi accanto chiusi con loro nelle stanze, e i morti, tutti gli uccisi, si erano alzati a sedere nelle tombe, meditavano. Io pensai, e la grande notte fu in me notte su notte. Quei lumi in basso, in alto, e quel freddo nell’oscurità, quel ghiaccio di stella nel cielo, non erano una notte sola, erano infinite; e io pensai alle notti di mio nonno, le notti di mio padre, e le notti di Noè, le notti dell’uomo, ignudo nel vino e inerme, umiliato, meno uomo d’un fanciullo o d’un morto”( pag. 194- 195.
A notte inoltrata, rientrando verso casa, Silvestro, forse ubriaco, si ritrova nei pressi del cimitero: qui viene sorpreso dalla voce del fratello Liborio, che gli racconta di essere partito soldato per conoscere il mondo e di essere morto in guerra. Al risveglio, in una mattina lugubre, la madre riceve la notizia dell’effettiva morte del figlio. Prima di partire, Silvestro s’incammina verso il monumento ai caduti, dietro di lui tutte le persone incontrate lungo il viaggio: qui si abbandona al pianto del ricordo, rivolto a tutti gli offesi che non appartengono più al mondo. In questo pianto Silvestro trova la forza per lasciare una Sicilia “fuori dal tempo” e fare ritorno alla vita attiva.
Silvestro e Concezione discutono un po’ sulla gioia che dovrebbe provare lei per la morte di un figlio sul campo di battaglia: è un onore per la patria. L’uomo le annuncia anche che sarebbe ripartito in giornata. Silvestro poi esce e si mette a piangere, fermandosi davanti alla statua dedicata ai caduti e circondato da tutte le persone che ha incontrato nel suo viaggio. Infine, dopo esser tornato a casa, nota la madre tesa a lavare i piedi ad un uomo inizialmente non riconosciuto dal protagonista. E’ il padre. Sconcertato, Silvestro si accorge che è ora di ripartire ed esce silenziosamente di casa ignorando la presenza del padre, che lui neanche saluta.
Un romanzo allegorico
Il viaggio di Silvestro in Sicilia si configura come un “ritorno alle origini” del genere umano. Le condizioni di povertà materiale degli abitanti del paese natale e il recupero di alcuni episodi ignoti del passato familiare contribuiscono a determinare questo effetto. L’immobilità “mitica” in cui è immersa la Sicilia consente di fare astrazione dei suoi caratteri specifici per inserirli in un discorso “universale”. Grazie anche a una scrittura dalla forte componente lirica, si è parlato a proposito di poesia in prosa, cioè di uno stile fortemente indebitato nei confronti del lessico e della sintassi elevata della versificazione, ricca di immagini pregnanti e allusive, il resoconto del viaggio si trasforma così in un racconto allegorico, in cui ogni personaggio assume una funzione che lo trascende. Accade così nel confronto tra il padre e il nonno materno: il primo è figura del sognatore irresponsabile e inetto, pronto a piangere di fronte alle difficoltà; il secondo, invece, come il Gran Lombardo, viene celebrato dalla madre come modello dell’uomo che affronta con fierezza le “offese” della vita. La madre, poi, incarna una femminilità energica e orgogliosa, votata spontaneamente alla cura degli altri: i propri figli, i malati e, nel finale, anche il marito ritornato a casa, che fino a quel momento era stato ripudiato.
Altri personaggi propongono soluzioni concrete a questo problema: l’arrotino Calogero, che incarna l’ideologia rivoluzionaria, vorrebbe affidarsi alla violenza fisica, mentre il panniere Porfirio, che rappresenta il pensiero cattolico, vorrebbe lavare le piaghe dell’umanità con il potere purificatore dell’“acqua viva”. Pur senza indicare una strada precisa, con questo romanzo politico, scritto quando sull’Europa incombe la minaccia della guerra, da quella di Spagna agli albori della seconda guerra mondiale, Vittorini va incontro ai rischi della censura che lo obbligò anche a rendere il testo più impervio ed enigmatico del necessario, per affidare alle classi colte, uniche a poterne cogliere il senso profondo, un forte appello a un’opposizione umanitaria integrale.
Il narratore dichiara la propria e l’altrui impotenza nei confronti del genere umano perduto. Le sue riflessioni sono valide anche oggi nonostante siano trascorsi tanti anni dalla pubblicazione del libro. Disastri provocati dalla mancanza di manutenzione, come il crollo del ponte “Morandi” a Genova (martedì 14 agosto 2018), il dramma dei migranti verso i quali le nazioni europee non riescono a trovare una politica comune, l’assuefazione al male in tutte le sue manifestazioni: femminicidio, lavoro nero, criminalità organizzata, terrorismo rappresentano il genere umano perduto dei nostri giorni. Tempo fa un intellettuale francese invitava tutti all’indignazione. No, non c’è nessuna indignazione verso chicchessia. I drammi collettivi, dopo i primi giorni di commozione, lasciano il posto ad una rassegnazione cupa e quasi scontata. La globalizzazione non controllata sta lasciando il posto a politiche di chiusura, di guerre sui dazi, minacciate e messe in atto, a cascata, da molti stati. L’intolleranza, il razzismo stanno disegnando i contorni di una società nella quale è difficile vivere. “La verità vi farà liberi”. E’ un invito rivolto dalla Chiesa a tutti, soprattutto ai propri fedeli. Un amico, tempo fa, mi diceva in modo bonario, che non sempre conviene dichiarare la verità. E me lo diceva da cattolico impegnato. “Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, / l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto/ è un dio che è morto”. Sono versi di un cantautore laico che ci invitano a essere tutti un po’ più credibili e meno credenti.
Raimondo Giustozzi
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