bacheca social

FAI UNA DONAZIONE





Sostieni questo progetto


A tutti i nostri lettori

A tutti i nostri lettori . Andremo dritti al punto: vogliamo chiederti di proteggere l’indipendenza dello Specchio Magazine. Se tu e tutti coloro che stanno leggendo questo avviso donaste un caffè, potremmo permetterci di far crescere l’Associazione lo Specchio e le sue attività sul territorio. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è il prezzo di una colazione o di una rivista nazionale. Questa è la maniera più democratica di finanziarci. Con il tuo aiuto, non negheremo mai l’accesso a nessuno. Grazie.
giugno 2018
L M M G V S D
« Mag   Lug »
 123
45678910
11121314151617
18192021222324
252627282930  

gliannisessanta. Un mito per l’America Latina: Camilo Torres, il prete guerrigliero.

Fonte Internet

Fonte Internet

Nel febbraio del 1966 moriva, falciato da una raffica di mitra, sul sentiero delle Ande, in Colombia, il prete guerrigliero Camilo Torres. Nato a Bogotà il 3 Febbraio del 1929 da una famiglia benestante, compiuti gli studi liceali, Camilo manifesta l’intenzione di entrare in seminario dove è ordinato sacerdote dal cardinale Luque che, costatata la profonda preparazione culturale e i solidi studi conseguiti dal giovane sacerdote, lo manda a Lovanio per perfezionarsi negli studi di sociologia presso il collegio Latino – Americano. Ritornato in patria, Camilo è dapprima nominato cappellano dell’Università Nazionale, poi coadiutore presso la Parrocchia di Veracruz, preside della Scuola Superiore della pubblica amministrazione, dirigente dell’Istituto “Nacional Colombiano de reforma agraria”. In tutti gli incarichi avuti, Camilo si distingue per l’infaticabile attività, il desiderio ardente di edificare nella città degli uomini, il regno di Dio. Servire il popolo, significa per lui, avvicinarsi ai più bisognosi e combattere con loro contro le cause storiche, politiche e sociali dell’emarginazione, della povertà, contro il potere economico e politico in mano ad una piccola minoranza oligarchica, spalleggiata dal grande capitale nord – americano, insensibile ai grandi problemi che angustiano la nazione Colombiana. Inoltratosi verso un’elaborazione ideologica sempre più precisa della realtà del suo paese, si accorge con il passar del tempo che il Cristianesimo, per essere un fermento rivoluzionario, deve poter dare un giudizio sulle ingiustizie che opprimono l’uomo. Scriveva infatti: “Quando la maggioranza è oppressa e ciò è causato da un governo sedicente legale, il cristiano ha il dovere di criticare ed impugnare quell’ordinamento e quel governo ed assumere una posizione rivoluzionaria. L’uomo prima di essere una persona con diritti e doveri è un soggetto di bisogni fondamentali. In Colombia questi bisogni non sono garantiti. Il potere amministrativo, economico, militare e disgraziatamente anche quello ecclesiastico si sono venuti concentrando, nel corso della storia del paese, nelle mani di un gruppo che non rappresenta gli interessi delle masse, ma che decide a suo giudizio sui problemi nazionali, avvalendosi di un potente apparato politico”. Di fronte a questa realtà, Camilo proclama che la rivoluzione è l’unica via d’uscita. Egli precisa la sua posizione, dicendo di essere rivoluzionario come colombiano, come sociologo, come cristiano e come sacerdote: “Come colombiano, perché non posso restare estraneo alle lotte del mio popolo. Come sociologo, perché attraverso la conoscenza scientifica della realtà, sono giunto alla conclusione che non è possibile ottenere soluzioni tecniche efficaci senza una rivoluzione. Come cristiano, perché l’essenza del Cristianesimo è l’amore verso il prossimo, e soltanto attraverso la rivoluzione si può realizzare il bene della maggioranza. Come sacerdote, perché il dono di se stessi al prossimo, richiesto dalla rivoluzione, è un requisito di carità cristiana”. La scelta della rivoluzione come unica via d’uscita al disordine legalizzato in cui versa il paese, lo fa apparire subito agli occhi dell’autorità politica, ecclesiastica e militare come un pericoloso sovversivo, accusato di voler trascinare il paese nella spirale della violenza. La Chiesa lo riduce allo stato laicale, privato del diritto di celebrare l’eucaristia, con grande gioia del potere politico e militare che, servendosi della Chiesa come di “un istrumentum regni”, vedeva in questa decisione la facilitazione di un compito: quello di isolare Camilo agli occhi delle masse contadine che non capivano la disobbedienza del sacerdote alla gerarchia religiosa e rompere il fronte di lotta che si andava costruendo attorno a lui. La strada della violenza, precisa il sacerdote, è una decisione che grava sulle spalle della minoranza oligarchica che detiene il potere, perché difficilmente essa rinuncerà di buon grado a tutti i privilegi di cui gode, anzi farà del tutto per tenerli ancora, ricorrendo alla repressione militare se occorre e a delle false promesse attraverso “libere elezioni” democratiche per disorientare e smorzare la lotta. Su questo, Camilo precisava: “La violenza si fa con le armi, carri armati, con una quantità di mezzi costosi di cui le classi popolari non dispongono; perciò a decidere sulla violenza sono quelli che possono procurarsi questi mezzi. Il contadino non venderà la vacca che dà il latte ai suoi figli per comprare un mitra se non nel caso che altri non mettano fine alla vita dei suoi figli con un mitra. Ci stiamo organizzando intorno ad un programma comune, in un grande movimento popolare che mira alla conquista del potere. E l’oligarchia si strappa le vesti come i farisei. Sono ipocriti, perché, dopo aver esercitato la violenza, non hanno diritto di accusare le classi popolari di prevedere il ricorso alla violenza.

Il Fronte Unito.  

Il ricorso alla violenza rimane per Camilo una decisione estrema. Prima tenta tutte le strade. Fonda nel maggio del 1965 un movimento che propugna l’unità di tutte le forze che vogliono il cambiamento, nella speranza che una vasta ondata popolare induca il regime ad imboccare la via delle riforme. Camilo tende la mano a tutti: ai liberali, agli studenti, ai sindacalisti, ai rivoluzionari, ai non allineati, ai comunisti. Qualcuno lo mette in guardia: il PC finirà per strumentalizzarlo. Risponde: “Preferisco essere un utile idiota della rivoluzione piuttosto che un utile idiota della controrivoluzione”. In pochi mesi Camilo Torres diventa il leader più popolare. La piattaforma del “Frente Unido” raccoglie vaste adesioni, ma dal potere politico arriva subito la mossa che Camilo temeva: l’indizione di consultazioni  elettorali che spacca l’Unità del movimento. Nasce il “Frente Nacional”, l’alleanza tra liberali e conservatori che fa proprie alcune richieste generali della popolazione riguardo alle trasformazioni socio- economiche. Camilo teme questa manovra e propugna l’astensione elettorale di quanti si riconoscono nelle tesi del “Frente Unido”, facendo osservare che, se anche gruppi di opposizione dovessero giungere al Parlamento, non potranno mai realizzare trasformazioni rivoluzionarie; al contrario, la loro presenza nel Parlamento permetterà all’oligarchia di dire che in Colombia c’è democrazia perché c’è l’opposizione. Le leve del potere rimarranno saldamente in mano a quelli che l’hanno sempre avuto. L’oligarchia intanto non si lascia sfuggite nessuna occasione per “ammansire” il battagliero sacerdote. Vengono le offerte da parte del Cardinal Concha, arcivescovo di Bogotà, perché vada ad insegnare Sociologia a Lovanio. La Rockefeller Foundation gli offre una borsa di studio per gli USA. L’Alianza Nacional Popular lo invita ad appoggiare le elezioni, in cambio di un’ambasciata in qualunque parte del mondo. Dagli ambienti ufficiali gli si suggerisce di mettersi al capo dell’opposizione, il Frente Nacional, in cambio di leggi e decreti per accelerare una rapida trasformazione sociale. Camilo non cede. Aveva detto testualmente in un’intervista: “il giorno in cui l’oligarchia comincerà a farmi offerte perché io tradisca il popolo, sarà esaurita la possibilità della lotta in città ed io la proseguirò in montagna”.  E’ quanto avviene nell’ottobre del 1965 quando Camilo raggiunge il fronte guerrigliero di Fabio Vasquez Castano e Victor Medina Moròn sulla Cordigliera delle Ande. La fuga verso le montagne era stata dettata da una scelta di ordine pratico: meglio morire da guerrigliero in montagna, con il mitra in pugno, additando una strada al popolo che lui aveva contribuito a tenere unito per prepararlo in vista della conquista del potere, che essere assassinato dall’esercito in un qualsiasi albergo della città, come un volgare malfattore. Dalla Cordigliera delle Ande, nel Gennaio  del 1966 lancia il suo nuovo messaggio al popolo colombiano: “Colombiani! Da molti anni i poveri della nostra patria aspettano il grido di battaglia per lanciarsi nella lotta finale contro l’oligarchia. Il popolo sa che le vie legali sono esaurite. Il popolo sa che resta solo la via delle armi. Il popolo è disperato e deciso a mettere in gioco la propria vita perché la prossima generazione di colombiani non sia di schiavi. Perché i figli di coloro che adesso vogliono dare la loro vita, abbiano più istruzione, casa, cibo, vestiti e soprattutto dignità. Perché i futuri colombiani possano avere una loro patria, indipendente dal potere nord americano. Ogni rivoluzionario sincero deve riconoscere la via armata come l’unica che rimanga. Sono entrato nella lotta armata. Dalle montagne colombiane penso di proseguire la lotta, armi alla mano, fino a conquistare il potere per il popolo. Mi sono arruolato nell’Esercito di Liberazione Nazionale perché in esso ho riconosciuto gli stessi ideali proclamati dal fronte Unito. La lotta del popolo deve diventare una lotta nazionale. Abbiamo già incominciato, perché il viaggio è lungo. Colombiani! Non sottraiamoci al richiamo del popolo e della rivoluzione. Soldati del Fronte Unito! Realizziamo le nostre parole d’ordine. Per l’unità della classe popolare, fino alla morte! Per l’organizzazione della classe popolare, fino alla morte! Per il potere della classe popolare, fino alla morte! Fino alla morte perché siamo decisi ad andare fino in fondo. Fino alla vittoria, perché un popolo che si impegna fino alla morte ottiene sempre la vittoria! Fino alla vittoria finale, con le parole d’ordine dell’Esercito di Liberazione Nazionale: non un passo indietro. Liberazione o morte”. Sarà l’ultimo appello, perché Camilo muore il 15 Febbraio dello stesso anno (1966), falciato da una raffica di mitra, sul sentiero delle Ande, distretto di El Carmen, municipio di San Vicente, dopo aver catturato al nemico armi e munizioni. Non doveva prendere parte a quell’azione, ma aveva chiesto espressamente di voler partecipare per condividere con gli altri gli stessi rischi. Il suo potere di persuasione si impose come altre volte. “Lo persero il suo immenso ascendente sui compagni, il suo concetto integrale dell’amicizia, la sua convinzione d’impegno ed il suo appuntamento con la morte. Si trovava nella boscaglia e sapeva che da un momento all’altro avrebbe sentito l’improvvisa raffica di mitra. E sui monti restò, il viso al cielo, alla Columbia, di fronte alla coscienza degli uomini liberi” (Cfr. German Guzmàn, Cattolicesimo e rivoluzione in America Latina, vita di Camilo Torres, ed. Laterza).

Raimondo Giustozzi

Invia un commento

Puoi utilizzare questi tag HTML

<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>