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gliannisessanta. Dopo John, Bob Kennedy.

USA. New York City. 1966. Portrait of Robert KENNEDY in his apartment.

USA. New York City. 1966. Portrait of Robert KENNEDY in his apartment.

Sul retro di una fotografia regalata da John Kennedy al fratello Bob, il giovane presidente americano aveva scritto: “Quando avrò finito io, perché non cominci tu?” Bob raccoglieva l’esortazione del fratello ed iniziava la corsa alla Casa Bianca. Dimessosi dalla carica di ministro della Giustizia per disaccordi con l’allora presidente Lyndon Johnson, nel 1965 si faceva eleggere senatore dello stato di New York, strappando il seggio al sessantaquattrenne Kean Keating. Il primo passo decisivo per porre la propria candidatura alla presidenza degli Stati Uniti al prossimo turno elettorale era stato fatto. E arrivò l’anno delle elezioni. Bob veniva battuto nell’Oregon da Eugene McCarthy, ma lo sconfiggeva a sua volta in California e superava brillantemente Humphrey nel Sud Dakota.

Testo del discorso di Robert Kennedy, tenuto il 18 marzo 1968.

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow- Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta” (Robert Kennedy).

La corsa verso le elezioni

Impegnati sempre più nella guerra in Vietnam, gli Stati Uniti d’America vivevano tra il 1966 ed il 1968 una delle pagine più tristi della loro storia: le università sconvolte dalla contestazione studentesca, i ghetti neri in fiamme. Robert Kennedy percorse in lungo ed in largo tutti gli stati dell’Unione mescolandosi tra la gente più povera insultata e ferita nella propria dignità, in un’America ricca ed opulenta ma che ammetteva al suo interno paurosi squilibri sociali. Parlò agli Indiani nelle loro riserve, ai Chicanos (Messicani) che raccoglievano l’uva in California. Visitò i tuguri, dove vivevano i negri poveri lungo il delta del Mississippi, i miserabili campi dei lavoratori che emigravano nella parte alta dello stato di New York e gli appartamenti infestati dai topi nella città di New York. E dovunque andasse trovava i suoi bambini con i pancini gonfi, i loro genitori che si consumavano nella vecchiaia, abitazioni miserabili e miseri avanzi per cena. Già il suo più celebre fratello John aveva detto: “Se una società libera non riesce ad aiutare i molti che sono poveri, non riusciranno mai a salvare i pochi che sono ricchi”. Bob faceva suo il messaggio di John, convinto della inevitabilità di una rivoluzione di fronte alla ingiustizia ed alla miseria, “Una rivoluzione che potrebbe essere pacifica se siamo abbastanza saggi, umana se ce ne importa a sufficienza, avere successo se siamo abbastanza fortunati. Ma una rivoluzione verrà, sia che lo vogliamo o no. Noi possiamo dare un’impronta al tipo di rivoluzione, non possiamo certo alterarne l’inevitabilità”. Di ritorno da un viaggio in America Latina dove aveva potuto toccare con mano l’abisso di povertà da un lato e, l’oligarchia economica dall’altro, appoggiata dal grande capitale nord americano, ebbe a dire: “Se permettiamo che il Comunismo porti in testa la bandiera della riforma, allora coloro che sono ignorati, poveri, insultati e feriti si volgeranno ad esso come se fosse l’unico loro mezzo per uscire dalla miseria”. Erano gli ideali più puri della “Nuova Frontiera”. Era un messaggio di cambiamenti che portava speranza in alcuni e paura in altri. Più che la speranza poté la paura di chi vide in Bob il naturale nemico da abbattere, così come era stato per suo fratello John. A nulla valsero le sue ultime accorate parole per “lavorare insieme contro la violenza, il disincanto della società americana, la divisione sia fra bianchi e neri che poveri e ricchi”. Nel pieno della campagna elettorale, quando già si profilava un successo nella corsa alla Casa Bianca, due, tre colpi di pistola lo inchiodavano per sempre sul pavimento dell’ hotel Ambassador di Los Angeles. Il suo attentatore, Sirhan Bishara Sirhan veniva sottratto al linciaggio. Bob Kennedy, soccorso ed operato all’ospedale del Buon Samaritano di Los Angeles moriva nella notte  tra il 5 ed il 6 giugno 1968.

Raimondo Giustozzi

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