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gliannisessanta. Cuba, la rivoluzione al potere.

Fonte Internet

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Cuba, terra della musica, dello zucchero, del rum, delle spiagge, del sole, dell’alcool, della spensieratezza e del divertimento fatti regola di vita, questa era, per tutto il corso degli anni cinquanta, l’immagine dell’isola che i manifesti di Miami e New York proponevano al turista statunitense. Poi, un bel giorno quei manifesti vennero strappati e vennero alla luce altre realtà: più di 10.000 donne nella capitale esercitavano il mestiere della prostituzione ed il capo della polizia, ogni giorno, puntualmente incassava la sua percentuale, appena un cubano su due “godeva di un reddito che non superava 100- 150 dollari all’anno, il dislivello tra povertà da un lato e ricchezza sfacciata dall’altro era abissale. Nella produzione della canna da zucchero che rappresentava l’unica ricchezza per l’agricoltura cubana, il 41% delle piantagioni era di proprietà di sei sole grandi aziende. Secondo un’inchiesta condotta nel 1957 dalla Agrupaciòn Catòlica Universitaria, su dieci cubani appartenenti alla popolazione rurale, meno di due consumavano carne. E non era tutto. Uno su quattro cubani, appartenenti alla popolazione attiva, era soggetto al tiempo muerto, com’era chiamata la disoccupazione ciclica che ogni anno bussava all’uscio dei lavoratori. La raccolta della canna da zucchero durava tre mesi. Durante questi tre mesi il lavoro, l’economia agricola, basata sul latifondo, richiedeva braccia e ancora braccia. Ma, terminato questo lavoro, per tutti si poneva il problema di che fare. Alcuni trovavano un impiego nelle distillerie o nella manutenzione del terreno, altri, spinti dal bisogno, occupavano qualche minuscolo appezzamento di terra, a volte tollerati dal latifondista, altre volte cacciati seduta stante. Coloro che riuscivano a rimanere sulla terra, qualche frazione di ettaro a ridosso dei pendii montani, si trasformavano in “Precaristas”, vale a dire coltivatori diretti. Ma anche questi, a conti fatti erano poveri diavoli perché le terre coltivate davano ben scarso reddito, mentre le bocche da sfamare erano tante. C’era chi, in mancanza di altri mezzi di sussistenza, si costruiva un bohio, la dimora della popolazione rurale, precaria, posta ai margini delle strade. Tutte queste categorie di lavoratori rientravano nel novero dei campesinos, piccolissimi proprietari o fittavoli costretti a rinnovare di anno in anno il contratto ed in più, nei tre mesi della “Zafra”, la raccolta della canna da zucchero, diventavano lavoratori stagionali. Zucchero, sempre zucchero, null’altro che zucchero e Cuba si era trasformata col tempo in un paese di monocultura, senza avere il modo ed il tempo di industrializzarsi. Gli USA, occupata militarmente l’isola fin dal 1888- 89, avevano obbligato tutta la popolazione a dedicarsi alla produzione dello zucchero di cui essi avevano bisogno. Cuba esportava negli USA solo zucchero ed importava dal mercato nord americano ogni bene di consumo. Il sistema durò per un cinquantennio.

Agli inizi degli anni cinquanta del nuovo secolo, il governo cubano decise di limitare la produzione di zucchero, per le restrizioni poste dalle vendite all’estero. Il mercato nord americano infatti preferiva lo zucchero prodotto localmente dai coltivatori statunitensi. In questo modo calarono anche le importazioni ed aumentò la miseria. Per frenare il malcontento popolare occorreva convincere i cubani che miseria, tiempo muerto, analfabetismo, prostituzione, erano mali inevitabili; che dovevano inoltre rassegnarsi alla riduzione delle proprie entrate e che infine, la monocultura, lungi dall’essere una anomalia economica, era un destino. Gli Stati Uniti riuscirono anche in questo.

Fulgencio Batista, il dittatore generale che si era impadronito del potere in seguito al colpo di stato militare, appoggiato dagli USA, fu il naturale alleato in questa politica. Governò in modo autoritario imprigionando e uccidendo tutti gli oppositori, fino a quando non apparve all’orizzonte politico cubano un giovane avvocato di venticinque anni, Fidel Castro (13 agosto 1926 – L’Avana, 25 novembre 2016), figlio di una ricca famiglia di agrari. Nel 1952, davanti al tribunale straordinario dell’Avana, il giovane Fidel citava il tiranno per violazione del codice di difesa sociale, chiedendo per lui una pena di 108 anni di carcere. Naturalmente la richiesta venne respinta ma la miccia era stata innescata. Nel luglio del 1953, con circa centosettanta giovani armati doppiette più adatte ad uccidere passeri che altro, assaliva la caserma Moncada dove si trovavano concentrate tutte le forze militari che appoggiavano il tiranno ed erano legate al gande capitale nord americano. La lotta impari, sostenuta da Fidel e dai suoi compagni, si concluse con un bagno di sangue. Le forze della repressione si scatenarono con inaudita violenza sui pochi rimasti. Castro, scampato al massacro, veniva condannato a sedici anni di carcere, ma chiese ed ottenne la possibilità di autodifendersi. Davanti ai giudici parlò per cinque ore di seguito per spiegare cosa fosse il popolo, quali problemi era necessario risolvere: l’alloggio, la disoccupazione, l’industrializzazione, l’educazione, la sanità. Tutto ciò era contro gli interessi del latifondo e della monocultura. La gente analfabeta viveva ammassata nelle capanne senza luce. “E’ impossibile”, continuava, “liberarsi da tanta miseria, solo con la morte si può e a questo li aiuta lo stato a morire”. Esponeva le soluzioni: “Riforma agraria e riforma dell’alloggio”. Finiva dicendo che il popolo aveva il diritto all’insubordinazione, quando a governarlo c’era il tiranno. Il tiranno di turno, a Cuba, era vile e traditore. Condannatemi, la Storia mi assolverà.

C’era tanta temerarietà nelle parole del giovane avvocato cubano ma c’era soprattutto il desiderio di continuare la lotta contro la dittatura del Battista. Dopo aver scontato ventuno mesi, Fidel, dietro pressione dell’opinione pubblica cubana, veniva liberato, ma costretto all’esilio, in Messico, dove insieme ad Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos, Raul Castro, Frank Pais ed altri compagni di lotta, apprese dal vecchio colonnello Bay l’arte della guerriglia. Il 2 dicembre del 1956 sbarcava di nuovo a Cuba dal panfilo Grama con l’intento di rovesciare militarmente il governo di F. Batista. La rivolta ebbe inizio, ma una tempesta impedì l’incontro con le forze rivoluzionarie dell’isola che, scoperte, caddero sotto il piombo della polizia. Rimasero solo dodici uomini, decisi ad iniziare la prima guerriglia cubana sulla vetta della Sierra Maestra. Tra i dodici uomini, oltre Fidel, emersero subito due personalità di spicco, Ernesto che Guevara e Camilo Cienfuegos, grande combattente, ma anche teorico della rivoluzione, il primo, guerrigliero indomito, il secondo, semplice lavoratore ma assurto a rango di eroe presso il popolo cubano che fece proprio il motto di Fidel Castro: “C’è stato un Camilo, ci saranno molti Camilo”.

La guerriglia si protrasse per due anni, fino al 1959, quando le forze della rivoluzione ebbero la meglio su quelle della reazione guidate da Fulgencio Batista. Le colonne dell’esercito ribelle, al comando del “Che” e di Camilo Cienfuegos, dopo aver sbaragliato le forze regolari lanciate all’assalto in un ultimo disperato tentativo per salvare la dittatura, entravano trionfalmente nella capitale, unendosi a quelle di Fidel Castro che, in uno scontro decisivo, a Guisa, nella provincia di Oriente, aveva annientato il nemico, dotato nell’occasione anche di carri armati. Con la conquista del potere si realizzava il sogno dei combattenti della Sierra Maestra e di quanti nelle città avevano appoggiato il fronte antibatistiano nei due anni di lotta. La rivoluzione vinse perché essa fu voluta da tutto un popolo deciso a riscattare col sangue la propria dignità. Vinse per l’abilità politica di Fidel Castro che riuscì a creare attorno al fronte della guerriglia la solidarietà di tutte le forze politiche, anche quelle che esprimevano gli interessi del grande latifondo, accantonando per il momento la nazionalizzazione delle industrie e limitando gli effetti della riforma agraria. Vinse per la rozzezza del nemico che rimase veramente solo negli ultimi mesi della dittatura.

L’avvio della guerriglia fu duro: molti uomini morirono fin dai primissimi scontri, altri divennero ben presto figure leggendarie presso tutto il popolo. In mezzo a questi irriducibili combattenti, spiccò subito un nome tra tutti: quello di Camilo Cienfuegos, un semplice lavoratore, un umile figlio del popolo che la rivoluzione esaltò a capo leggendario.

“Camilo fu il compagno di cento battaglie, l’uomo di fiducia di Fidel nei momenti difficili della guerra, il combattente pieno di abnegazione”, scrisse Ernesto Che Guevara. E ancora: “Non aveva la cultura dei libri, aveva la naturale intelligenza del popolo che lo aveva eletto tra mille per porlo nella posizione di privilegio a cui arrivò con colpi d’audacia, con fermezza, con intelligenza e dedizione impareggiabile, praticava la lealtà come una religione”. Camilo Cienfuegos non poté vedere i frutti della rivoluzione. Morì, infatti, nell’Ottobre 1959 in un incidente aereo, mentre sull’Avana imperversava un violento temporale.

 

I “Campesinos”, irritati per le misure demagogiche del governo e sfruttati dal grande latifondo, finirono automaticamente nelle braccia della rivoluzione. Nei due anni vissuti a fianco dell’esercito ribelle, avevano avuto la possibilità di toccare con mano alcune iniziative che questo aveva preso a beneficio delle popolazioni rurali: assistenza medica e didattica, confisca dei raccolti ai proprietari terrieri conviventi con la dittatura. La popolazione delle città, allibita per la violenta repressione scatenata contro le forze guerrigliere guidate da Frank Pais barbaramente trucidato a Santiago dalla polizia di Batista che infierì anche contro grossi settori della borghesia illuminata, fece un fronte comune di lotta con l’esercito ribelle. Ma per la rivoluzione al potere vennero anche i giorni della verità, non meno esaltanti di quelli della battaglia. La grande borghesia agraria che negli ultimi tempi aveva visto con benevola indulgenza l’ascesa di Fidel Castro, rimase profondamente tradita quando la rivoluzione al potere si diede un programma degno di lai: abolizione della proprietà terriera, espropriazione dei capitali USA e nazionalizzazione delle industrie.

 

Lo scontro fu inevitabile, fino al tentativo d’invasione (aprile 1961) nella baia di Playa Giròn, operato da un gruppo di fuoriusciti cubani e appoggiato militarmente in uomini e mezzi dagli stati Uniti d’America. I giorni esaltanti della lotta armata parvero ritornare improvvisamente quando le milizie cubane annientarono in settantadue ore la tentata forza di invasione e nelle settimane cruciali del blocco navale operato dagli ISA contro le installazioni missilistiche approntate nell’isola dall’URSS. Ma la rivoluzione cubana era ormai una realtà e Fidel Castro entrava nel novero dei grandi miti degli anni sessanta.

 

 

Raimondo Giustozzi

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