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IN DIFESA DELLA POESIA OSTILE

Ludwig_Wittgenstein Fonte internet

Ludwig_Wittgenstein Fonte internet

Francesco, G. Capitani

Non sempre la poesia fa star bene. Ed ecco la brevità, l’asciuttezza, l’asprezza di alcuni componimenti. Potremmo portare a capo ogni singola frase dell’incipit del Tractatus logicus-philosophicus di Wittgenstein: “..e tutto ciò che si sa, ciò che non si sia solo udito rumoreggiare e mormorare, può dirsi in tre parole” -le tre parole, cui allude il padre della moderna logica-matematica, non sono che nomi e predicati ovvero proposizioni, connettivi logici od i quantificatori – eppure non trovare nulla di meno poetico di un componimento.

Forse una vicinanza: potremmo provare a leggere le regole logico-matematiche che seguono fra le pagine dell’operae i versi della poesia più inospitale. Troveremmo sorelle, le notazioni algebriche da un lato – severe primogenite dello sforzo filosofico per la costituzione di una regola universale del mondo – e la poesia dall’altro – la critica della regola medesima mediante l’atto separante dell’isolamento della parola singola, colta nella sua autosufficiente pienezza -.

Una certa poesia allora – esattamente come fanno le scienze logiche e matematiche – può scarnificare, non necessariamente solleticare. Può possedere una lama dolce, che però tocca le viscere. Ci sono versi di una poesia di Mario Luzi:(Vivi, incredibilmente ti fu dato/esisti, come sia lo chiedo ancora/al passato, a quest’ora in cui sia più lieve/la montagna di sé scolpisce il sole/e la sera che il mare blu deplora) in cui la potenza della parola ed il perimetro semantico che le appartiene non chiede descrizione per poter divenire efficace e toccare le sensibilità individuali, per dis-velare. Più semplicemente, le parole stanno. “Vivi” ed “esisti” – così foneticamente strette ed impervie ed elementari nella potenza semantica – costituiscono l’effrazione che fa Luzi dell’unico fatto dell’individuo – il permanere nel mondo – fra le incertezze reali. “Al di sotto dell’esistere non si scende”, aggiungerà poi, e si guardi avanti – altrimenti non si potrebbe – perché “un mare chiede ancora luce per essere blu”.L’autore usa la massa dura del significato della parola piena ed autosufficiente – a mezzo del modo verbale dell’imperativo, su utilizzato – per poter definire la realtà sulla quale precipita – in modo determinante ma sofisticato – e poter dettare i tempi della composizione poetica che la precede e la segue. Una sorte di principio letterario di Archimede, per cui la parola solida condiziona il movimento di tutto il resto, in pari misura.

Ci sono poesie dunque più inospitali di altre, più asciutte epperò più intense, perché la parola non si fionda sulla successiva con vezzo prosastico, tentando la descrizione di uno o più significati che prendono forma con la prosecuzione del componimento, come i puntini di un disegno da tracciare nelle vecchie riviste enigmistiche. Colgono la sfida dell’etimologia vecchia e nuova da scovare, lanciando sfide di comprensione al lettore, per la parola – ora nuova – da depurare dei complessi relazionali dell’uso comune – una c.d suppositio materialis -.Probabilmente sono più ostili, non pari ad alchimie antidolorifiche per l’animo affranto. “Vergini strade oscillano/ fresche di fiumi in sonno”, scriveva – ad esempio – Salvatore Quasimodo, in cui sull’unico moto verbale presente nel tratto della composizione – al modo di un connettivo o di un quantificatore logico – stanno satelliti le parole, vivaci voragini incontinenti perché vergini e fresche.

Piacerebbe a Wittgenstein? Probabilmente no. Pur riconoscendo una sorta di complementarietà fra la logica-matematica e la poesia, il vigore della parola finirebbe per invertire l’ordine della primazia del sillogismo – che fa la verità delle conclusioni -sulla parola medesima – informe quanto la sua storia – che riesce a stare in piedi da sola, incontinente alle formalità e comunque vera. Un approdo condiviso è possibile? Probabilmente. Wittgenstein presunse, con il Tractatus cit., di aver risolto ogni problema sulla completezza del linguaggio. Aggiunse poi, con afflato pessimista, “quanto valga poco l’essere questi problemi risolti” – per l’insufficienza di un linguaggio formale a contenere il mondo, come chiarirà poi nelle Ricerche filosofiche -. Una sorta di malinconica resa al cinico divenire, stavolta meravigliosamente comune alla scienza formale del linguaggio edal poeta.

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