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Cultura. Gli occhiali d’oro, Giorgio Bassani

gli occhiali d'oro copertina libro

Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 – Roma, 13 aprile, 2000) pubblicò per la prima volta il romanzo nel 1958 presso Giulio Einaudi Editore, lo inserì nel 1960 in “Le storie ferraresi” (Einaudi), infine, ogni volta con molti controlli, come secondo libro del ciclo “Il romanzo di Ferrara” (1970) per Arnoldo Mondadori Editore. Tra tutti i testi di questo ciclo (Dentro le mura il giardino dei Finzi Contini, l’airone, l’odore del fieno), Gli occhiali d’oro è quello più rimaneggiato rispetto alla prima edizione. Il titolo del romanzo è dato appunti dagli occhiali d’oro portati con una certa eleganza dal protagonista del romanzo, Athos Fatigati, “titolare di un magnifico ambulatorio privato e per di più direttore del reparto orecchio- naso- gola del nuovo Arcispedale Sant’Anna di Ferrara” (G. Bassani, Gli occhiali d’oro, pag. 8, Edizioni Grande Lettere S. A. l. Milano, 1974).

Trama

Un giovane studente ebreo della facoltà di lettere, dietro il quale si cela forse lo stesso Giorgio Bassani, racconta la storia tramite la narrazione in prima persona. Athos Fadigati, già affermato medico a Ferrara, è conosciuto sia per la sua abilità, la sua raffinatezza e la sua cultura, sia per la sua presunta e latente omosessualità, che gli costa l’emarginazione dalla sua classe sociale. Una sorte analoga, sia pur cagionata da ragioni diverse a quella di Fadigati, capiterà anche al narratore della storia, di origine ebraica, in seguito all’emanazione delle leggi razziali da parte del Fascismo.

Fatigati inizia a prendere lo stesso treno mattutino per Bologna del narratore e dei suoi amici. Sul treno, tra i ragazzi universitari, conoscerà anche lo scapestrato ed egoista Delilliers: giovane e ribelle pronto a giocarsi tutto nella vita, che non esita a usare la sua sfrontatezza, il suo fascino, la sua bellezza per ammaliare lo stesso dottore e prendersi gioco di lui, sfruttandolo per i suoi desideri egoistici.

Philippe_Noiret_Gli_occhiali_d'oroFadigati diventerà vittima del ragazzo e sconterà, per quest’amore omosessuale, la pena dell’isolamento dalla Ferrara benestante. Il narratore, un po’ perché nella stessa condizione di emarginazione dovuta alle sue origini ebraiche, un po’ per compassione, inizia a frequentare in amicizia il dottore, che accetta di essere messo al bando dalla società ferrarese per colpa del suo amore con Delilliers, che tanto lo rispettava. Quando sarà abbandonato dal suo giovane amore, scappato con i suoi beni e i suoi soldi, Fadigati inizierà un periodo di depressione che lo porterà poi al suicidio.

Personaggi – luoghi – tempi

Athos Fadigati, veneziano d’origine, giunge a Ferrara nei primi anni del primo dopoguerra. Spenti i moti rivoluzionari del biennio rosso (1919 – 20), organizzatosi il fascismo in un grande partito nazionale, nel 1925, Athos Fatigati era già solidamente impiantato a Ferrara, titolare di un magnifico ambulatorio privato, situato in via Gorgadello. “Si trattava di un ambulatorio veramente moderno, come fino allora, a Ferrara, nessun dottore ne aveva mai avuto uno simile. Fornito di un impeccabile gabinetto medico che, quanto a pulizia, efficienza e perfino ampiezza, poteva essere paragonato soltanto a quelli del Sant’Anna. Si fregiava oltre a ciò di ben otto stanze dell’attiguo appartamento privato come di altrettante salette d’aspetto per il pubblico” (pag. 9). Oltre al proprio ambulatorio privato, Athos Fadigati era anche direttore del nuovo arcispedale Sant’Anna. Si era trasferito da Venezia a Ferrara non “tanto per cercare fortuna in una città non sua, quanto per sottrarsi all’atmosfera angosciosa di una vasta casa sul canal grande, nella quale aveva visto spegnersi in pochi anni ambedue i genitori e una sorella molto amata. Alla gente di Ferrara piacevano i suoi modi cortesi, discreti, il suo evidente disinteresse, il suo ragionevole spirito di carità nei confronti dei malati più poveri” (pag. 8). La gente di Ferrara andava volentieri da lui. Trovava il suo studio confortevole, le sale di attese colme di riviste, per di più era un uomo amante dell’arte, della letteratura e della musica. Non era raro parlare con lui di De Chirico, di De Pisis, di Wagner. Conduceva una vita appartata. Mangiava in casa e invano gli unici due o tre ristoranti della città lo avrebbero atteso invano. Dopo una lunga giornata di lavoro, alla sera amava uscire e mescolarsi alla folla allegra, vociante e indifferenziata che passeggiava per le vie di Ferrara: “Alto, grosso, col cappello a lobbia, i guanti gialli e, se era inverno, col pastrano foderato di opossum e il bastone infilato nella tasca destra dalla parte del manico, fra le otto e le nove di sera poteva essere visto in qualunque punto della città” (pag. 15). Col tempo iniziarono a circolare sul suo conto delle strane dicerie. Proprio perché solo e senza una donna, pur essendo ormai giunto sui quarant’anni, si diceva che preferiva la compagnia degli uomini a quella delle donne. Si facevano anche dei nomi: Manservigi, una guardia municipale dagli occhi azzurri, inflessibili, che quando non dirigeva pomposamente il traffico ciclistico e automobilistico all’incrocio tra corso Roma e corso Giovecca, noi ragazzi avevamo allora la sorpresa di trovare sul Montagnone… Più tardi, verso il ’36, si udì di un altro: un usciere del Comune, tale Trapolini, dolce e melliflua persona, sposato e carico di figli…Più tardi ancora, durante i primi mesi della guerra di Spagna, venne ad aggiungersi alla parca lista degli amici di Fadigati anche il nome di un ex giocatore dell’U. S. Estense. Scuro di pelle, imbolsito, le tempie ormai grigie, si trattava proprio di quel Baùsi, Olao Baùsi, che nel decennio fra il ’20 e il ’30 era stato, chi non lo ricordava?, una specie di idolo della gioventù sportiva ferrarese, e in pochi anni si era ridotto a vivere dei peggiori espedienti” (pag. 24- 25). Gli unici svaghi che il dottore Fadigati si concedeva erano i viaggi a Venezia per la Biennale o a Firenze per il Maggio Fiorentino. Amava poi trascorrere le sere al cinematografo (cinema Excelsior, Salvini, Rex e Diana) ma, anche qui, ai posti di galleria, dove si trovavano le persone del suo stesso rango sociale, preferiva gli ultimi posti della platea, mescolandosi alla peggiore teppaglia. Passava insomma come un bohémien, strano ed eccentrico, anche se affabile, colto e garbato con tutti.

Il narratore, altro personaggio del romanzo, forse lo stesso Bassani, anche se aveva più volte sentito parlare del dottor Fadigati in famiglia e nella cerchia degli amici, lo conosce più da vicino quando frequenta la facoltà di lettere all’Università di Bologna. Athos Fadigati prendeva lo stesso treno a Ferrara e si recava due volte a settimana nella città felsinea perché “si era messo in testa di prendere la libera docenza” (pag. 40). “Nel 1936, il treno locale, in partenza da Ferrara ogni mattina, qualche minuto prima delle sette, percorreva i quarantacinque chilometri di linea ferroviaria che separano Ferrara da Bologna in non meno di un’ora e venti minuti” (pag. 27). Sul treno, “di sei carrozze soltanto; cinque di terza classe e una di seconda”, salivano nelle carrozze di terza classe: il narratore, Eraldo Deliliers, studente di scienze politiche, Bianca Sgarbi e Nino Bottecchiari, altro studente “quasi” fidanzato con Bianca, tutti amici dell’io narrante. In realtà Bianca Sgarbi è la civetta del gruppo, attacca discorso con chiunque le capita. Il Dottor Fadigati prendeva il biglietto di seconda classe ma, trovandosi solo, alle fermate del treno nelle diverse stazioni, chiedeva e otteneva dal personale viaggiante, del tutto inoperosi, intenti solo a giocare a carte nel proprio scompartimento, che gli aprissero il passaggio per la terza classe per stare insieme all’allegra brigata degli studenti e chiacchierare con loro. Per lui era come andare indietro nel tempo quando, studente universitario anche lui molti anni prima, partiva da Venezia per recarsi all’università di Padova. Nelle fermate delle stazioni, scendeva dal treno per andare a comprare panini e bibite per gli amici dello scompartimento. Manifestava così la propria gratitudine e amicizia verso di loro. Questi, per burla, ora gli ordinavano una cosa ora un’altra, mandandolo in confusione ma il dottore non se ne dava pensiero. Risaliva trafelato i predellini del treno e distribuiva quanto aveva acquistato. In questi giochi infantili e cattivi si distingueva sempre Eraldo Deliliers, un bellimbusto, viziato e cattivo nell’animo che l’offende in mille modi con battute villane e piene di sarcasmo all’indirizzo del dottore.

Scesi dal treno, invece di prendere il tram per recarsi all’università, preferivano andare a piedi. Con il narratore c’erano tutti: “Bianca Sgarbi, studentessa in lettere, Nino Bottecchiari, studente in legge, Sergio Pavani, Otello Forti, Giovannino Piazza, Enrico Sangiuliano, Vittorio Molon: chi studente in agraria, chi di medicina, chi di scienze economiche e commerciali. E c’ero infine io che, a parte Bianca Sgarbi, ero l’unico studente in lettere della compagnia” (pag. 37). Bianca Sgarbi frequenta il terzo anno di lettere. L’altra sorella, Attilia è di tre anni più giovane di lei e frequenta il Liceo nel ’37. Nel gruppo degli studenti universitari che prendono il treno a Ferrara per Bologna, Bianca è la più scanzonata. Non conosce Athos Fadigati. “E’ esuberante di natura, e quasi presaga del triste futuro che attendeva i giovani della nostra generazione, e lei in particolare (rimasta vedova di un ufficiale di aviazione precipitato su Malta nel ’42, con due figli maschi da crescere, la poverina è finita poi a Roma, impiegata avventizia al Ministero dell’aeronautica), essa si mostrava insofferente di ogni legame, divertendosi con chiunque le faceva comodo, e passando in pratica da un flirt all’altro” (pag. 33). Fadigati? Chi è costui, chiede con aria stordita: “Oh, un vecchio finocchio, proferì Deliliers, con calma, rialzando il capo e fissando la nostra compagna dritto negli occhi” (pag. 33).  Nino Bottecchiari e Eraldo Deliliers moltiplicano le sgarberie nei confronti del povero Athos Fadigati. Era il classico figlio di papà, ben vestito, tanto che gli altri giovani di Ferrara si regolavano su come vestirsi, vedendo gli abiti che indossava Deliliers.

Viene l’estate e Deliliers diventa il compagno ufficiale di Athos Fadigati. Non gli pareva vero di spillare tanti soldi al professionista ferrarese. Vengono visti a Riccione, Milano Marittima, Cesenatico a bordo di una “Alfa Romeo 1750 a due posti, rossa, tipo Mille Miglia”. La macchina naturalmente era un regalo di Athos Fadigati. Deliliers, viziato com’è fa spendere tanti soldi al proprio compagno per l’acquisto di abiti sempre nuovi, di cene consumate all’aperto nei noti ristoranti dell’Adriatico. Mentre Athos scende in spiaggi verso le nove, il compagno, quando si degna di andare anche lui in spiaggia, non arriva mai prima delle undici, le altre volte scorazza con il proprio macchinone da un luogo all’altro, a caccia di donne e di avventure. Al mare, Athos è sempre solo e triste, “Sdraiato su una chaise – longue, le mani intrecciate dietro la nuca e un libro giallo aperto sulle ginocchia, rimaneva così per due ore buone, a far niente e guardare il mare” (pag. 61).

In vacanza, a Riccione, si ritrovano l’avvocato: Filippo Lavezzoli, sua moglie e i loro tre figli, due maschi (Franco e Gilberto) e una femmina (Cristina), il narratore, suo papà, la mamma e la sorella Fanny, mentre l’altro fratello Ernesto è a Londra per studiare. Naturalmente poco lontano da loro c’è l’ombrellone di Athos Fadigati e del compagno Eraldo Deliliers. La signora Lavezzoli, nata e cresciuta a Pisa “in riva” all’Arno, punta sempre l’occhialetto verso il mare alla ricerca di notizie da trasmettere a quelli che sono sotto l’ombrellone: “Col tono di voce e la tecnica, quasi, di un cronista sportivo della E. I. A. R. (Ente Italiano per le audizioni radiofoniche), riferiva ad esempio che gli sposini, alzatisi d’un tratto dalle sedie a sdraio, stavano dirigendosi alla volta del più vicino moscone: evidentemente il giovanotto aveva espresso il desiderio di tuffarsi al largo, e il vecchio, per non rimanere sotto l’ombrellone, in palpiti, ad attenderne il ritorno, aveva ottenuto di accompagnarlo” ( pag. 63). I suoi commenti li distribuiva di tenda in tenda. “Trovava Deliliers un ragazzo viziato, un ragazzaccio a cui il servizio militare avrebbe fatto benissimo. Ma il dottor Fadigati, no. Un uomo della sua condizione, della sua età, non era scusabile in nessun modo. Aveva certi gusti? Era così? Ebbene… pazienza! Chi gliene aveva fatto eccessivo carico, prima di allora? Ma venire a esibirsi proprio a Riccione, dove certo non ignorava come fosse conosciuto, venire a dare spettacolo proprio da quelle parti, mentre in Italia, volendo, se ne trovano a migliaia, di spiagge, nelle quali non c’è pericolo di imbattersi in un ferrarese che sia uno! No, via: unicamente da uno sporcaccione (e così dicendo la signora Lavezzoli mandava fuori dai grandi occhi celesti di regina fiamme di autentica indignazione), unicamente da un vero degenerato – ribadiva – ci sarebbe stato da aspettarsi un tiro del genere” (pag. 63, 64). Pettegolezzo, omofobia, disprezzo per il diverso sono le armi della signora Lavezzoli. Non è così per suo marito, l’avvocato socialista Filippo Lavezzoli che ascolta ma non dice nulla. E’ interessato a leggere. Non ascolta nemmeno sua moglie quando questa magnifica la figura di Mussolini, visto più volte nella spiaggia di Riccione. L’avvocato aveva firmato il famoso manifesto di Croce nel 1924 ma il consenso verso il duce era come un masso che stava rotolando con fragore per tutta l’Italia e l’uomo di legge non aveva più parole per parare la disfatta che stava incombendo su tutti.

Il papà del narratore giunge in spiaggia da Ferrara il 25 agosto quando la stagione volgeva ormai al termine. Sente il commento di quanti avevano visto Mussolini scendere in acqua davanti ai loro occhi. Non può fare a meno di storcere la bocca e dire: “Possibile che non ci si salvi nemmeno al mare? Romantico, patriota, e politicamente ingenuo e inesperto come tanti altri ebrei della sua generazione, anche mio padre, tornando dal fronte nel ’19‘ aveva preso la tessera del Fascio. Fascista, dunque, era stato dalla prima ora, e tale in fondo era rimasto, nonostante la sua mitezza e onestà. Ma da quando Mussolini, dopo le baruffe dei primi tempi, aveva cominciato a andare d’accordo con Hitler, era diventato inquieto. Non faceva che pensare a un possibile scoppio di antisemitismo anche in Italia, e ogni tanto, pur soffrendone, si lasciava sfuggire qualche amara parola contro il regime” (pag. 72, 73). La signora Lavezzoli nel frattempo loda il Fascismo e Hitler anche quando questo aveva plaudito all’assassinio del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss (25 luglio 1934). Il marito, l’avvocato Filippo Lavezzoli, un po’ sornione, trova che Mussolini ha ridato all’Italia l’impero, per questo è da ammirare. Il papà del narratore sprofonda nel pessimismo più nero. La stessa cosa avviene per il narratore. Invitato da Deliliers ad andare in macchina con lui per rimorchiare due ragazze, rifiuta l’invito: “Accettandolo, prevedevo una giornata piena di disgusto e di umiliazione. E del resto: perché mai Deliliers, il quale non mi aveva mai dimostrato né molta simpatia né vera considerazione, ad un tratto mi chiedeva, quasi mi supplicava, di accompagnarlo a donne? Ci teneva forse a far sapere che lui, con Fadigati, non ci stava per vizio, ma soltanto per pagarsi la villeggiatura, e che comunque gli preferiva sempre una bella ragazza?” (pag. 85). Il giorno dopo, il narratore, andato in spieggia, si reca sotto l’ombrellone di Fadigati, avendolo visto solo e intento a leggere il primo canto dell’Iliade. I due vengono raggiunti quasi subito dai genitori del narratore, la mamma, il papà e la sorellina Fanny. Mancano solo i coniugi Lavezzoli perché a Messa. Il papà conversa con il dottore con garbo e cortesia parlando di letteratura, di Orazio, di Carducci e dell’Iliade. Il gruppetto viene raggiunto verso mezzogiorno dai coniugi Lavezzoli. La signora dell’avvocato non manca di indirizzare verso il dottor Fadigati con molta disinvoltura le inevitabili frecciate. Nei giorni successivi, al pomeriggio, lasciato solo dal proprio compagno, Athos Fadigati si improvvisa arbitro al campo di tennis dietro il caffè Zanarini: “ Non sapeva cosa altro fare, era chiaro, in che modo riempire il vuoto tremendo delle giornate”. I giocatori erano: i tre figli dei coniugi Lavezzoli, Franco, Gilberto, Cristina e il narratore.

A settembre, la stagione in riva all’Adriatico muta in modo repentino: “Piovve un giorno soltanto, il trentuno d’agosto. Il bel tempo dell’indomani, comunque, non ingannò nessuno. Inquieto, il mare era verde, di un verde vegetale; il cielo, d’una trasparenza esagerata, da pietra preziosa. Nel tepore stesso dell’aria si era insinuata una piccola, persistente punta di freddo” (pag. 92). Bella la descrizione del paesaggio colto in questo particolare momento: “Sulla spiaggia, le tre o quattro file di tende e ombrelloni si ridussero in breve a due, e poi, dopo una nuova giornata di pioggia, a una sola. Anche i capanni dei vari stabilimenti venivano via via smontati. A volgersi indietro era divenuto possibile spaziare liberamente con lo sguardo sulle dune, fino a pochi giorni avanti ricoperte da una sterpaglia stenta e bruciacchiata, mentre adesso, come per miracolo, si vedevano punteggiate da una quantità incredibile di meravigliosi fiori gialli, alti sui gambi come gigli. Bastava avere un po’ di pratica della costa romagnola per conoscere il significato di quella fioritura. L’estate era finita, ormai: da quel momento non sarebbe stata più che un ricordo” (pag. 92).

Eraldo Deliliers intanto dimostra tutta la propria pochezza e cattiveria. Nel salone del Grand – Hotel aveva tirato un pugno in faccia al dottor Fadigati che lo “aveva solo rimproverato, ma sottovoce, s’intende, della vita che si era messo a fare in questi ultimi tempi: sempre in giro con la macchina, tanto che, si può dire, che non lo vedevo quasi più “ (pag. 96). Sono parole che il narratore sente dal dottore pieno d’imbarazzo, anche per lo scandalo dato davanti al pubblico. A riportare la notizia in spiaggia è la solita signora Lavezzoli che non perde mai l’occasione per dimostrare quello che è, una pettegola e pronta sempre a tranciare giudizi, anche se religiosissima e bigotta, sul dottor Athos Fadigati. Dopo questa scenata, Eraldo Deliliers scompare dalla vita di Athos Fadigati, portandosi via tutto: “Oltre alla macchina, che d’altronde era sua, l’avevo comperata apposta per lui, ha preso anche il rimanente: vestiti, biancheria, cravatte, due valige, un orologio d’oro, un libretto d’assegni, un migliaio di lire che tenevo nel comodino. Non ha dimenticato proprio nulla di ciò che mi apparteneva: nemmeno la carta da lettere intestata, nemmeno il pettine e lo spazzolino da denti!” (pag. 97, 98). Il narratore gli suggerisce di denunciarlo, cosa che Athos non si sente di fare: “Denunciarlo, ma le pare possibile?” (pag. 99).

Il narratore e la propria famiglia lasciano Riccione il 10 ottobre del ’37 e ritornano in città. Il vento dell’intolleranza verso la comunità ebraica soffia impetuoso fino all’anno successivo, il ’38 quando sono promulgate le famigerate leggi razziali che tolgono agli ebrei italiani ogni diritto e li rendono nemici in patria verso la quale, invano il padre del narratore, elenca i meriti degli ebrei italiani. “Mio padre affranto, che usciva la mattina presto a caccia di carta stampata; gli occhi di mia madre, perennemente gonfi di lacrime; Fanny ignara, eppure in qualche modo già consapevole di tutto: il gusto, doloroso da parte mia, di chiudermi in un silenzio ostinato” (pag. 100). Solo la signora Lavezzoli parla, come se nulla fosse, di cristianesimo e di ebraismo, poco importandosi delle persone che vivono quel dramma, anzi trovando giusto che le cose si indirizzassero verso quella china, giustificando il tutto con esigenze superiori della politica e tirando in ballo anche il Papa. Il narratore non sa darsi pace. Gira in bicicletta tutte le strade di Ferrara, visita il cimitero ebraico della città, dove “Vede aggirarsi un uomo e una donna di mezza età: probabilmente due forestieri fermatisi fra un treno e l’altro… Giravano tra le tombe con cautela e distacco da ospiti, da estranei. Ed ecco, guardando a loro e al vasto paesaggio urbano che mi si mostrava di lassù in tutta la sua estensione, ad un tratto mi sentii penetrare da una grande dolcezza, da una pace e una gratitudine tenerissima. Il sole al tramonto, forando una scura coltre di nuvole, bassa sull’orizzonte, illuminava vivamente ogni cosa” (pag. 102).

In città, il narratore incontra Nino Bottecchiari che lo invita a bere un caffè da Giovanni. Qui si rende subito conto del mutato clima nei suoi confronti: “Mi sentii osservato con insistenza da molti sguardi. Perfino attorno al tavolo degli squadristi, a cui, quel giorno, oltre al solito triumvirato Aretusi- Sturla- Bellistracci, sedevano il Segretario Federale Bolognesi, e Gino Cariani, il Segretario del G. U. F., la conversazione, prima assai animata, cadde di colpo. Dopo essersi voltato indietro a sbirciarmi, Cariani, servile come sempre, si piegò a sussurrare qualcosa all’orecchio di Aretusi. Vidi Sciagura fare una smorfia e annuire gravemente” (pag. 104). Il narratore è in preda all’angoscia e a nulla valgono il racconto di Nino Bottecchiari su come aveva trascorso “le vacanze a Moena, in val di Fassa, in compagnia dello zio Mauro, l’ex deputato socialista, il quale, appena arrivato, aveva subito elettrizzato l’ambiente del parentado” (pag. 105). I due vanno verso la chiesa per aspettare l’uscita della gente e magari sbirciare come facevano di solito qualche bella ragazza. Ma non è più il tempo. Sul narratore pesano come un macigno le leggi razziali appena varate e si sente fuori posto. Non ascolta nemmeno l’amico Nino che lo tranquillizza perché in Italia non succederà quello che stava avvenendo da anni in Germania. Tutti i migliori professionisti di Ferrara dall’avvocato Geremia Tabet, amico del capo della polizia, al dottor Elia Corcos, all’avvocato Lattes erano ebrei ma italiani fino al midollo, per cui non c’era da essere preoccupati. Questo dice Nino all’amico che non gli crede, anzi, si chiude sempre più in se stesso. L’unica persona, che può capirlo, pensa il narratore, è il dottore Fadigati, sempre più solo: “Lo avevano esonerato dall’ospedale, con un pretesto qualsiasi. Oltre a ciò, anche allo studio di via Gorgadello, c’erano pomeriggi interi che non si presentava più un solo paziente. Lui non aveva nessuno al mondo, d’accordo; preoccupazioni immediate, dal punto di vista finanziario, ancora non le aveva. Ma era possibile continuare a vivere a lungo così, nella solitudine più assoluta, circondato dall’ostilità generale? Presto sarebbe venuto il momento che avrebbe dovuto licenziare l’infermiera, ridursi in un ambulatorio più piccolo, cominciare a vendere i quadri. Tanto valeva andare via subito, tentare di trasferirsi altrove” (pag. 121).

Athos Fadigati rimane a Ferrara a consumare gli ultimi mesi della propria vita. Il narratore lo vede più volte nelle diverse escursioni che fanno insieme per la città. Ambedue si sentono emarginati e additati a dito dalla società ferrarese, anche se per motivi diversi. Il narratore, uscito insieme a lui, gli chiede: “Può un italiano,  un cittadino italiano, ammettere di essere un ebreo, e soltanto un ebreo? Mi guardò umiliato. Comprendo cosa vuol dire, disse poi. In questi giorni, mi creda, ho pensato tante volte a Lei e ai suoi. Però mi permetta di dirglielo, se fossi in Lei. Cosa dovrei fare, lo interruppi impetuosamente. Accettare di essere quello che sono? O meglio: adattarmi ad essere quello che gli altri vogliono che sia? Non so perché non dovrebbe, ribatté dolcemente. Caro amico, se essere quello che è la rende tanto più umano (non sarebbe qui in mia compagnia, altrimenti!), perché si rifiuta, perché si ribella? Il mio caso è differente, esattamente opposto al suo. Dopo ciò che è accaduto l’estate scorsa, non mi riesce più di tollerarmi. Non posso più; non debbo. Ci crede se le dico che certe volte non sopporto di farmi la barba davanti allo specchio? Potessi almeno vestirmi in altro modo! Ma mi vede, Lei, senza questo cappello, questo pastrano, questi occhiali da tipo per bene? E d’altra parte, così mi sento talmente ridicolo, grottesco, assurdo! Eh no, unde redire negant, è proprio il caso di dirlo” ( pag. 123). E’ colto il dottor Fadigati. Cita a memoria parte di un verso di Catullo: unde redire negant. Gli dei negano che uno possa ritornare indietro. La signora Lavezzoli con il suo perbenismo da borghese incallita è lontana. Lontano è anche Nino Bottecchiari che dichiara la propria amicizia verso il narratore ma sta dietro alle opportunità di carriera che gli sono state offerte dai notabili fascisti di Ferrara. Chiede al narratore se fa bene nell’accettare le proposte che gli sono state fatte. Il narratore vorrebbe mandarlo all’altro paese ma è troppo educato e non lo fa. Se è odiato da tutti, tranne che dal dottor Fadigati, anche lui odia tutti. Essere odiati fa odiare, soprattutto i finti amici che pur di far carriera accettano tutto. Non è cambiato nulla rispetto agli anni in cui Giorgio Bassani scriveva queste cose.

Il narratore e il dottore combinano di incontrarsi un sabato a Pontelagoscuro a vedere il Po. Non potranno andare perché piovve per tutto il sabato e la domenica: “Pioveva senza un attimo di tregua. Dalla mia camera, attraverso la finestra, guardavo gli alberi del giardino: il pioppo, i due olmi, il castagno, a cui l’acqua torrenziale veniva staccando le ultime foglie. Soltanto il grande abete, al centro, più nero e barbuto che mai, straordinariamente gocciolante, sembrava godere di tanta umidità” (pag. 130). Le pagine più belle del romanzo sono anche quelle legate alla descrizione del paesaggio ferrarese, della campagna, della stagione estiva trascorsa in riva all’Adriatico. La domenica, dopo aver dato ripetizioni di latino alla sorellina Fanny, il narratore esce dopo pranzo per il cinema Excelsior. Pensava di incontrare il dottor Fadigati. Questi non c’è. Quando esce dal cinema verso le sette e mezzo, non pioveva più: “La coltre di nubi, lacerata a strappi, lasciava scorgere il cielo stellato. Un vento teso e caldo aveva rapidamente asciugato i marciapiedi” (pag. 132). Dall’angolo di via Gorgadello dà un’occhiata all’abitazione del dottore ma trova tutto chiuso e spento, segno che in casa non c’è nessuno. Si ferma in una cabina pubblica pet telefonargli ma non ha nessuna risposta all’altro capo del telefono. Si dirige verso casa e “Proprio davanti all’ingresso della Maternità”, il narratore s’imbatte in Cenzo, il giornalaio dal quale compra il giornale. Arrivato a casa, trova la mamma euforica. Il fratello Ernesto aveva mandato un telegramma da Parigi, dove diceva che sarebbe ritornato a casa quanto prima dopo essersi fermato una giornata a Milano. Il papà tarda a rientrare perché aveva incontrato per caso l’avvocato Geremia Tabet. Questi, sempre stato dentro alle segrete cose del Fascio di Ferrara e grazie all’amicizia che aveva con il capo della Polizia, Sua Eccellenza Bocchini, aveva avuto assicurazioni che la politica antisemita del Fascismo era una cosa passeggera: “Il Duce era venuto a trovarsi nella necessità imprescindibile di far credere alle democrazie occidentali che l’Italia fosse ormai legata a filo doppio con la Germania” (pag. 138). Il padre del narratore è talmente raggiante di questo che dimentica quasi di leggere il telegramma del figlio Ernesto, meritandosi in questo modo il rimprovero della moglie. Elisa, intanto, la domestica, porta in tavola il piatto ovale della pasta asciutta. Affatto rassicurato dalle parole del papà, senz’altro ingannato da Bocchini, il narratore si siede nella “poltroncina di vimini accanto alla radio” e sfoglia il giornale acquistato dal giornalaio.

Dopo aver scorso le notizie riguardanti lo sport, gli occhi gli cadono su un titolo di media grandezza: “Noto professionista ferrarese annegato nelle acque del Po presso Pontelagoscuro”. Aggiunge il narratore: “Respirai profondamente. E adesso capivo, sì, già prima che cominciassi a leggere il colonnino sotto il titolo, il quale non parlava affatto di suicidio, s’intende, ma, secondo lo stile dei tempi, soltanto di disgrazia. (A nessuno era lecito sopprimersi, in quegli anni: nemmeno ai vecchi disonorati e senza più alcuna ragione di restare al mondo). Non finii di leggerlo, comunque. Abbassai le palpebre. Il battito del core ridiventava a poco a poco regolare. Aspettai che l’Elisa chiudesse dietro di sé la porta di cucina, e poi, quietamente, ma subito: E’ morto il dottor Fadigati, dissi” (pag. 141). E’ il finale del romanzo.

 

Film “Gli occhiali d’oro”

Nel 1987 uscì nelle sale una riduzione cinematografica del romanzo. Il film del regista Giuliano Montaldo aveva lo stesso titolo del libro. Philipe Noiret vestiva i panni di Athos Fadigati, mentre il ruolo di Eraldo Deliliers era interpretato da Nicola Farron. Stefania Sandrelli era la signora Lavezzoli, Roberto Herlitzka era il professor Amos, Rupert Everett interpretava Davide Lattes, Valeria Golino era la signora Nora Treves. Il film è una coproduzione francese, italiana Jugoslava, dura 103 minuti. I doppiatori italiani sono: Sergio Rossi per il dott. Athos Fadigati, Tonino Accolla per Davide Lattes, Fabio Boccanera per Eraldo Deliliers. La sceneggiatura è opera di Nicola Badaluco, Antonella Grassi, Giuliano Montaldo, le musiche di Ennio Morricone, la scenografia di Luciano Ricceri, la fotografia di Armando Nannuzzi, i costumi di Nanà Cecchi, il montaggio di Alfredo Muschietti (Fonte, Wikipedia).

 

Raimondo Giustozzi

 

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