Trama del romanzo
Una donna di Sibilla Aleramo (scritto nel 1906) non è un diario, perché non scritto giorno per giorno. Non è un romanzo, perché racconta di vicende veramente vissute. Non è neanche un semplice libro di memorie o un’autobiografia; è una spietata autoanalisi in forma letteraria su una parte della vita dell’autrice, quella che la porterà alla dolorosa decisione di lasciare il marito e il figlio per ritrovare se stessa e realizzare la propria vita. Sibilla Aleramo, nella scelta tra essere se stessa e dover essere moglie, madre, schiava di una vita non sentita come propria, sceglie la prima opzione, pur tra mille pene, dolori e rimorsi. In questa storia s’intrecciano le figure di un padre apparentemente illuminato e progressista, che delega alla figlia appena adolescente parte della direzione della fabbrica; un padre che però ha una doppia faccia e un’altra vita, essendo anche un marito egoista nei confronti della moglie e traditore, incapace di comprendere – e probabilmente causa del progressivo declino della moglie nella follia. Vi è poi, appunto, la figura della madre di Sibilla Aleramo, paradigma della donna che accetta il proprio ruolo di madre e moglie senza riserve e che, per mantenere questo ruolo, subisce in silenzio il tradimento e l’indifferenza del marito, vivendo non per sé ma per la propria famiglia e trovando, infine, in una progressiva follia, e quindi nell’inconsapevolezza, una sorta di rifugio. Fondamentale per comprendere l’evoluzione di Sibilla Aleramo da semplice spettatrice della propria vita a protagonista della stessa, è la figura del marito, legato a doppio nodo al tradizionale ruolo del “padrone”, ai rituali della violenza e del possesso. Appena quindicenne, Sibilla lo sposa perché convinta di appartenere all’uomo che l’ha stuprata: “Il primo grande dolore che avevo provato mi era venuto da mio padre, dalla scoperta della debolezza d’un uomo che m’era parso un dio. Io avevo bisogno di ammirare innanzi di amare. Accettando l’unione con un essere che m’aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m’imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola” (Sibilla Aleramo, Una donna, pp. 60-61).
Il paesaggio civitanovese nelle pagine del romanzo “Una donna”.
- Aria – acqua- luce
Sono molte le pagine del romanzo autobiografico “Una Donna”, dedicate da Sibilla Aleramo alla descrizione dei luoghi, propri di Civitanova Marche dove visse per ben dodici anni.
L’arrivo a Porto Civitanova era carico di dolce promesse: “Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. Che cosa erano i prati verdi della Brianza e del Piemonte, le valli e anche le Alpi intraviste nei primi anni, e i dolci laghi ed i bei giardini, in confronto di quella campagna così soffusa di luce, di quello spazio senza limite sopra e dinanzi a me, di quell’ampio e portentoso respiro dell’acqua e dell’aria? Entrava nei miei polmoni avidi di tutta quella libera aria, quell’alito salso: io correvo sotto il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena, e mi pareva ad ogni istante di essere per trasformarmi in uno dei grandi uccelli bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte” (Cfr. S. Aleramo, Una donna, pag. 28, Milano 1950).
- L’arrivo in treno
Era il luglio 1888. Sibilla Aleramo arrivava a Portocivitanova assieme al padre Ambrogio Faccio, alla mamma Ernestina Cottino, alle sorelle Corinna e Iolanda, al fratello Aldo. Belle le pagine lasciate dal compianto Ricciotti Fucchi sull’arrivo in treno della famiglia Faccio a Porto Civitanova (Cfr. R. Fucchi, in Civitanova Immagini e storie N 1, Civitanova Marche, giugno 1987). Il papà della futura scrittrice era stato chiamato nella cittadina adriatica, dal marchese Claudio Sesto Ciccolini, a dirigere la fabbrica delle bottiglie: “Un signore che voleva stabilire un’industria chimica in una cittaduzza del Mezzogiorno (così definiva Sibilla Aleramo la cittadina adriatica che si andava allora formando) offrì la direzione dell’impresa a mio padre. Certo, questi osava molto accettando un genere di lavoro al quale era affatto nuovo. Ma il suo bel sorriso sicuro aveva sedotto il capitalista. Le condizioni dell’impiego erano ottime; il paese, laggiù, pieno di sole. Per qualche anno. Mio padre non amava guardare molto innanzi nell’avvenire. Pel momento si sentiva felice del rischio. E non curando i timori della mamma, decise di partire per la primavera” (pag. 28).
- Dal balcone del palazzo
All’arrivo a Porto Civitanova, Sibilla Aleramo aveva dodici anni, come detto da lei stessa nel romanzo. La famiglia fu sistemata in un’ala del palazzo Cesarini Sforza, là dove fino a qualche decennio fa era la biblioteca comunale Silvio Zavatti. Il balcone dell’appartamento è quello che guarda verso Corso Umberto da un lato e sulla piazza dall’altro: “Uscivo sull’alto balcone, guardavo giù nella piazza gli sfaccendati presso la farmacia o dinanzi al caffè, qualche contadina oppressa da pesi inverosimili, qualche ragazzo sudicio che inveiva contro qualche altro in un linguaggio sonoro e incomprensibile”.
- La pesca
Ovviamente, il mare non era così distante come oggi, ma la battigia correva in fondo alla piazza attuale, ancora in terra battuta e sabbia: “In fondo alla piazza il mare luceva. Due ore avanti il tramonto si disegnavano, lontane, lontane, le vele delle paranze di ritorno dalla pesca: s’avvicinavano, si colorivano di rosso e di giallo, arrivavano una dietro l’altra, e il tumulto delle voci dei pescatori giungeva spesso fino a me; distinguevo il grido ritmico di quelli che traevano la barca a riva”(S. Aleramo, Una Donna, pag. 29).
- Un mondo scomparso
Non c’è più nulla di tutto questo. Non ci sono più le lancette, solo quella di Peppinello Santini, posta al centro di una rotonda sul Lungomare nord, non c’è più il trabaccolo Prudente, lasciato marcire per anni in un cantiere, esposto al sole, alla salsedine marina, alla pioggia, al freddo, al gelo. Rimangono, di questo spaccato di una Civitanova che non c’è più, le fotografie e la ricostruzione paziente e minuziosa fatta dai fratelli Mariano ed Angelo Guarnirei, Baiocco e Primo Recchioni, in alcuni libri davvero unici: “Per non dimenticare”, “La lancetta e il vecchio ambiente marinaro civitanovese “un mondo scomparso”, Macerata 1982, “La lancetta civitanovese, colori, segni e simboli delle vele”, Bologna 1985.
- La fabbrica di bottiglie
La grande fabbrica della vetreria stava venendo su come per incanto. Inizierà la produzione, il 1 Gennaio 1889. Così, Sibilla Aleramo ne descrive la costruzione: “Scendevo, mi recavo nel vasto recinto presso la strada ferrata, dove lo stabilimento andava sorgendo con rapidità sorprendente e dove il babbo passava quasi tutte le sue ore. Degli operai, de’ bei contadini abbronzati che venivano dalla campagna ad offrirsi come manovali, delle ragazze che salivano agili sui ponti dei costruzione coi secchi di calce sul capo, mi sorridevano, ed io sentivo verso di loro una curiosità piena di simpatia; ne ripetevo ai fratellini i pittoreschi soprannomi, e mi chiedevo se avrei mai osato essere per loro una padrona, come ero colla donna di servizio” (S. Aleramo, Una Donna, pag. 29).
- L’emigrazione
Gli operai! Muratori e manovali addetti alla costruzione della fabbrica provenivano dalla vicina campagna. Erano i più fortunati, per gli altri contadini, in esubero nelle campagne, era aperta solo la strada dell’emigrazione verso le Americhe. Gli anni che vanno dal 1887 al 1913 sono quelli della grande emigrazione. Le cifre che riguardano Civitanova Marche sono puramente indicative e vanno lette per difetto, sono cioè molto più alte: 114 emigrati nel 1887, 166 nel 1888, 151 nel 1889, 110- 150 nei primi anni del ‘900, 323 nel 1912. Emigravano un po’ tutti, ma soprattutto contadini assunti come braccianti, pescatori. A Civitanova, la mancanza di un porto rifugio ostacolava di molto l’attività del settore. I paesi dell’emigrazione: Argentina dove arrivò il 62% degli emigranti, il Brasile con il 25%, questo nel 1887, qualche anno dopo l’88% degli emigranti sceglieva l’Argentina. Portocivitanova era uno snodo importante per l’emigrazione per tutta la provincia di Macerata. Agivano nella cittadina, diversi sub agenti per le compagnie di navigazione che organizzavano i viaggi transoceanici. La presenza della stazione ferroviaria permetteva alla gente di risalire la penisola per imbarcarsi al porto di Genova, da qui in nave, negli Stati dell’America Latina .
- Corso Umberto
La famiglia Faccio era vista dalla gente del posto con una certa ammirazione ed atteggiamento reverenziale: “Quando certe sere, dopo il pranzo, uscivamo un po’ con il babbo, la mamma e noi figliuoli, per lo stradone maggiore del paese (l’attuale Corso Umberto), la gente ci osservava dalle soglie con un misto di ammirazione e di timore. Trovavano alla mamma un viso da madonna, e voci femminili le mormoravano dietro benedizioni per i suoi bambini. Ella ringraziava col sorriso mite, piccola e fine nel vestito quasi dimesso”(pag. 30). Sibilla Aleramo non frequenta la scuola, perché in paese non ce n’erano. L’anno dopo (1889) entra in fabbrica come impiegata regolare, interessandosi con il babbo alle vicende dell’azienda e viene a contato con gli operai, “chiacchierando con loro durante gli intervalli di riposo. Erano molti, più di duecento; una parte, che veniva dal Piemonte, si alternava ai forni giorno e notte, e gli altri, del pese, si agitavano continuamente nei vasti cortili e sotto le tettoie”(pag. 30).
- Il lavoro in fabbrica
Gli spazi d’uso della fabbrica erano così distribuiti: al piano terra il magazzino, le materie prime e gli impiegati, al primo piano il capannone con il forno fusorio, uno soltanto a bacino nel 1888, al quale se ne aggiunse un altro nel 1908, sei forni per la ricottura, com’è possibile notare dalle carte intestate della ditta società anonima per azioni con sede a Milano, amministratore il marchese Claudio Sesto Ciccolini, la direzione tecnica affidata all’ingegnere Ambrogio Faccio.
L’atteggiamento del Faccio verso gli operai, molti di loro, contadini inurbati o pescatori, le maestranze erano tutte di origine piemontese o lombarda, era di assoluto disprezzo, ai suoi occhi, i primi erano lenti ad apprendere e incivili. Questo comportamento però era assai diffuso in quel tempo presso tutti i dirigenti d’azienda e in tutte quelle aree toccate dall’incipiente industrializzazione. Così scrive Roberto Romano: “Si voleva fare subito e senza mezzi termini, di colui che fino a poco tempo prima aveva regolato il proprio lavoro e la propria esistenza sui ritmi delle stagioni, sia che lavorasse in campagna, sia che lavorasse in mare, un operaio efficiente pronto a chinare la testa ad ogni ordine del suo superiore, tutto doveva essere sacrificato insomma sull’altare della produttività. Il tempo umano cambiava estensione ed entrava in una dimensione esclusivamente produttiva, mentre il vecchio mondo, fosse da rimpiangere o no, moriva malinconicamente e simbolicamente nelle latrine di una fabbrica, quella dei Caprotti di Ponte Albiate, nel milanese, primo grande esempio di tessitura, dove diversi operai fino a poco tempo contadini, in evidente difficoltà di fronte ai ritmi di produzione imposti dalle macchine, presero a nascondere nelle latrine della ditta, parte del cotone che non riuscivano a lavorare secondo la quantità imposta dai dirigenti” (Nota 1). Scrive anche lo storico Raffaele Romanelli: ” I regolamenti severissimi, le sanzioni disciplinari, i rituali di comportamento imposti nelle fabbriche dell’epoca sembravano concepiti per trasformare le abitudini di vita, atteggiamenti e l’intera personalità del contadino appena inurbato che si riteneva per questa sua natura tardo ad apprendere, tendenzialmente incivile ed amorale, educandolo ai nuovi valori di una gerarchia meccanica in cui l’etica del lavoro era rigorosamente misurata in termini di sfruttamento umano” (Nota 2). Il Faccio non potendo accusare gli abitanti del luogo come amorali, li apostrofava in termini dispregiativi come ipocriti, aveva minacciato anzi di licenziarli tutti e di sostituirli con operai fatti venire dal settentrione; a questa minaccia si oppose il padrone della fabbrica, il marchese Claudio Sesto Ciccolini, per motivi economici e di opportunità.
Nota 1. Cfr. R. Romano, I Caprotti, l’avventura economica ed umana di una dinastia industriale della Brianza. Nota 2. Cfr. R. Romanelli, L’Italia Liberale, Il Mulino, 1979.
- Via della vetreria
Sibilla Aleramo è un tutt’uno con i padre con il quale condivide dubbi, speranze e progetti circa i futuri destini della fabbrica: “Pel breve tratto fra la fabbrica e la nostra casa (Foto 5), egli mi parlava con un’inflessione di voce ch’io sola gli conoscevo, non dolce, non tenera, ma esprimente il riposo, l’attimo di sosta e di abbandono. Mi confidava: “Bisognerà tentare questo e quell’altro. Allora potremo aumentare un poco i salari”. Pareva anche domandare il mio avviso. Ed io pensavo alla felicità di trovare pur io qualche cosa di nuovo da suggerirgli. La fabbrica diventava per me, come per lui, un essere gigantesco che ci strappava ad ogni altra preoccupazione, che ci teneva perennemente accesa la fantasia” (S. Aleramo, Una donna, pag.31). In mezzo a tutte queste incombenze, Rina Faccio trascura la mamma che non riesce più a sollevarsi da un triste stato di abbandono e di malinconia, che la porterà di lì a poco a un gesto insano, complice i tradimenti del marito, quello di gettarsi dal balcone del palazzo Sforza Cesarini. “Ella non aveva saputo sin dai primi giorni liberarsi da una certa timidezza che le impediva di andare sola o coi bimbi per la spiaggia o pei campi. Il paese non offriva altri svaghi: le donne dei maggiorenti non uscivano quasi mai di casa, ignoranti, indolenti e superstiziose, le contadine lavoravano più che i loro uomini; gran parte della popolazione viveva sul mare e del mare, riparando la notte nelle catapecchie che si ammucchiavano a cento metri dalla riva” (pag. 32).
- Il difficile adattamento all’ambiente
Le catapecchie erano le case dei pescatori. E’ l’incasato che si snoda tra Corso Dalmazia, già via della spiaggia e Corso Umberto I, delimitato dalle vie: Conchiglia, Nave, Lido, Ancora, Gondola, Carena, Timone, Rete, Remo, Vela. La toponomastica delle strade è chiara. Era un quartiere abitato esclusivamente da famiglie di marinai. Case basse costruite con pietre e terra. Quelle a un piano avevano due locali: una camera e una cucina, abitate da una sola famiglia, quelle a due piani erano abitate da due famiglie, l’una a piano terra, l’altra famiglia, a quello rialzato. La scala per accedere al piano superiore era stretta e ripida, posta quasi in verticale. I servizi igienici erano costituiti da “sportelletti” situati in basso accanto alla porta principale, collegati a un sistema di fognature scoperte che sfociavano in mare. Le prime case furono costruite attorno al 1705, all’altezza dell’attuale Corso Dalmazia. Il modesto incasato si sviluppava poi verso sud, sul prolungamento di Corso Dalmazia, via Garibaldi da un lato e la ferrovia dall’altro. Erano gli abitanti di Civitanova Alta che si dedicavano alla pesca, nessuno però risiedeva sulla costa, ritenuta ancora non sicura. All’inizio esistevano solo piccoli capanni, dove riporre le barche e le reti. Nel corso del 1800 la costa iniziava a popolarsi e tutto il borgo, all’inizio del 900 cominciava ad avere un aspetto ordinato con strade allineate e simmetriche che si accentravano, allora come ora verso la piazza XX Settembre, cuore e nucleo del centro rivierasco.
Le condizioni igieniche comunque rimanevano del tutto precarie, stando alle carte di archivio e alle pagine del romanzo di Sibilla Aleramo che scrive anche: “Migliaia di pescatori vivevano ammucchiati a pochi passi da casa mia”(pag. 125). Le abitazioni umide, prive di acqua potabile, le strade che raccoglievano liquami di ogni sorta erano i focolai di ogni epidemia. Tragica fu l’epidemia di tifo del 1899 nel corso della quale morirono i due medici: Pellegrini e Frisciotti. Il primo, l’amico confidente di Sibilla Aleramo, così viene descritto nel romanzo negli ultimi giorni della sua vita: “Appariva stanco. In paese serpeggiava il tifo, ed egli andava, dal mattino alla sera, dall’una all’altra casetta di povera gente, con la persona un po’ curva; la voce sempre un po’ velata di tristezza doveva dare agli infermi la speranza, doveva confondersi coi suoni aleggianti intorno a chi muore o teme di morire. Il meningo- tifo, manifestandosi improvviso e violento, aveva atterrato l’uomo gracile che pareva covare da alcun tempo la morte” (pag. 144).
Ma la vita offriva anche qualche serata trascorsa in compagnia del proprietario della fabbrica che risiedeva nel vicino capoluogo (Macerata). “Scendeva il crepuscolo e l’ora della partenza del treno si avvicinava” (pag. 32). La strada ferrata nella tratta Ancona Pescara era stata inaugurata nel 1863, quella per Macerata Fabriano era stata aperta nel 1884, tre anni prima dell’arrivo a Porto Civitanova della famiglia Faccio.
Tra la famiglia Faccio e il paese si va progressivamente innalzando quasi una barriera: “Verso mio padre s’era ben presto accesa una sorda ostilità” (pag.33). Sprezzante è il giudizio di Sibilla Aleramo sul paese. Il quadro che ne esce non corrisponde forse alla realtà del momento storico vissuto dalla cittadina che si andava allora formando, ma non possiamo nemmeno prescindere da quello che scrive: “Nel paese, che si decorava del nome di città, non esistevano scuole al di sopra delle elementari“. Non se la passano meglio i maggiorenti e la borghesia: “Non c’erano di ricchi nel paese, che il proprietario della fabbrica, quasi sempre residente a Milano, e un conte, padrone di quasi tutte le terre, il quale faceva rare apparizioni con la moglie, un grosso idolo carico di gioielli, al cui passaggio donne e uomini si curvavano fino al suolo” (pag. 33). Senz’altro ci saranno stati altri ricchi, oltre il marchese Ciccolini ed il conte Conti: il conte Sabbatucci, il marchese Ricci, la tenuta Bonaparte amministrata con saggezza da Celso Tebaldi, ma coglie forse nel segno Sibilla Aleramo quando parla di “donne e uomini che si curvavano fino al suolo, al passaggio del conte e di sua moglie“. Sibilla Aleramo diventa impietosa poi verso i professionisti del paese, dal chirurgo incapace di ricomporre il braccio rotto della mamma, a seguito del tentato suicidio gettandosi dal balcone di palazzo Sforza, al notaio “creatura insignificante e melliflua“, alla “decina di avvocati, annidati in un circolo di civili, che suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra piccoli proprietari dissanguati dalle tasse”. L’elemento borghese appariva a Sibilla Aleramo “più volgare di quel che avevo supposto; senza dirmelo, temevo che questa volgarità finisse per penetrarmi“. Una sola persona si salva dagli strali di Sibilla Aleramo, “un giovine dottore toscano (il dottor Pellegrini) di recente nominato, l’avevo sentito dai primi incontri affine a me per lo spirito meditativo, per la correttezza del linguaggio e, parevami, del pensiero” e quando in paese serpeggiava il tifo, egli andava, dal mattino alla sera, dall’una all’altra casetta di povera gente, con la persona un po’ curva”, morendo della stessa malattia che cercava di curare nei suoi pazienti. L’odio verso i maggiorenti del paese, Sibilla Aleramo l’aveva ereditato dal padre: “Mio padre non solo aveva dato segno di non accorgersi di loro, ma aveva respinto con impazienza un banchetto che avevano voluto offrirgli, insieme alla presidenza di non so quali istituzioni antiche, pompose e senza fondi”. L’amore per le forme, che nasconde il vuoto culturale, la retorica, la chiacchiera, il provincialismo, la mancanza di orizzonti, il pensare che tutto si circoscriva al proprio ambiente di nascita senza nessun confronto con altri ambienti, sono pericoli sempre incombenti, anzi oggi più evidenti, quando si esibisce di sé solo la propria immagine, ma senza che questa corrisponda a nulla di veramente profondo.
L’odio verso la “cittaduzza del Mezzogiorno“, non verso “il popolo ritenuto da Sibilla Aleramo ancora la parte migliore del paese, dotato di una certa bontà istintiva”, diventava feroce verso “i soliti scioperati” che in faccia al caffè, sede del circolo, che mi guardavano sorridendo; sentivo che da una parte destavo la loro curiosità, dall’altro offendevo la loro abitudine di veder le fanciulle passare timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi“(pag. 34). Volgarità e manifestazioni maschiliste sempre attuali. A lungo andare “Il paese mi veniva in uggia, e se non l’aborrivo era unicamente a causa delle bellezze naturali che non mi stancavo di ammirare. Il mio settentrione, attraverso le nubi del ricordo, m’appariva ora desiderabile, pieno di incanti” ( pag. 35 ).
- Il tentato suicidio della mamma – balcone palazzo Cesarini
Ma la mamma peggiorava nella malattia, fino a compiere l’insano gesto, gettandosi dall’alto del balcone di palazzo Sforza Cesarini: “Un gran sussurro nella piazza sottostante mi fece trasalire. Esclamazioni di sorpresa e di dolore salivano dal basso, con uno scalpiccio come di persone che recassero un peso. Vidi il corpo di mia madre portato da due uomini. Uno stuolo di gente seguiva. Mi riscosse un vocio di donne. Raccontavano. Avevano visto affacciarsi al nostro balcone la figura bianca, scambiata così al sole per una di noi bambine, le avevano fatto cenno di rientrare. La figura s’era sporta, indi abbandonata, piombando di fianco sul terreno” (pag. 37). E’ come se al tentato suicidio della mamma avesse partecipato l’intero paese, centrale com’è palazzo Sforza, poi la notizia si diffuse in un baleno.
- La colonia bagnante
Ma la vita continua. Siamo al quarto anno del soggiorno civitanovese di Sibilla Aleramo e della sua famiglia. “Una volta ancora tornò l’estate. Io compivo i quindici anni. Alla spiaggia dove la colonia bagnante si riuniva e invitava talora ai suoi passatempi, mi vedevo osservata con curiosità da tutti, guardata con insistenza da uomini di varia età, e un giovane prima, malaticcio e motteggiatore, poi un altro quasi ancora adolescente, dal corpo forte ed agile e dalla testa ricciuta che mi ricordava certi bronzi visti nei musei, mi occuparono per qualche settimana la fantasia senza farmi battere il cuore né destarmi istinti di civetteria” (pag. 42). Ancora sole e mare: “Facendomi cullare dall’onda per ore ed ore sotto il sole ardente, sfidando il pericolo coll’allontanarmi a nuoto dalla riva fini a non essere più visibile, io mi unificavo con la natura e sfogavo insieme l’esuberanza del mio organismo”(pag. 43)
- Il matrimonio riparatore
Persa la mamma ricoverata presso il manicomio di Macerata, assente il padre connivente con l’amante, fatta oggetto delle attenzioni da parte di Ulderico Pierangeli, uomo di fiducia del padre, impiegato alla fabbrica di bottiglie, Rina Faccio lo sposa, è un matrimonio riparatore, affatto cercato dalla ragazza, violentata quasi dal giovane che mira solo a sostituire in un domani non lontano, il suocero nella direzione dello stabilimento.
Dal matrimonio nasce, il 3 aprile 1895, il figlio Walter, un altro figlio Rina l’aveva perso sempre a seguito di una relazione amorosa con Ulderico Pierangeli, nei giorni della pazzia della mamma, che, ricordando forse la propria giovinezza, incoraggia la figlia al gran passo, sperando che almeno le possano essere riservate in futuro, le gioie di essere nonna, con attorno tanti nipotini. Fra Sibilla Aleramo, appena quindicenne e Ulderico Pierangeli, già uomo sui venticinque anni, la distanza è abissale, quanto a mentalità, cultura e valori. “Egli non badava alle osservazioni di una ragazzina, stupito soltanto, abituato com’era a considerare la donna un essere naturalmente sottomesso e servile, della mia indipendenza” (pag. 43). Non pensava affatto che fosse poco dignitoso restare nella dipendenza d’un futuro suocero e d’un uomo, di cui biasimava la condotta“.
Quando in paese circolò la voce, che Rina Faccio fosse stata allontanata dalla fabbrica dal padre per la sua relazione con Ulderico Pierangeli, questi non prese affatto le difese della giovane contro i diffamatori di ieri e di allora: “Almeno il mio fidanzato fosse insorto contro i diffamatori. Pareva invece aver preso un contegno speciale di fronte ai suoi compagni, come se fosse tutto ad un tratto salito di dignità” (pag.52). Il giovane, geloso, pretendeva che la ragazza non dovesse affacciarsi nemmeno alla finestra e che scappasse in camera sua ogni qual volta capitasse in casa qualche uomo, compreso il dottore della mamma. “Lo sapevo incolto, ma l’avevo ritenuto più agile di mente, il suo carattere soprattutto deludeva la mia aspettativa, con qualcosa di sfuggente, di ambiguo” (pag. 52). Deciso a non lasciare l’impiego in fabbrica, calcolava su prossimi miglioramenti e su una futura successione a mio padre. Dibatté a lungo con lui la questione della dote, alfine si rassegnò ad accettare soltanto un assegno mensile. Voleva una promessa legale, ma mio padre, indignato, fu per troncare ogni trattativa. il mio fidanzato non disponeva di nulla, appena di che rifornirsi il guardaroba e comperarmi l’anello matrimoniale. Il babbo diede il denaro per il mobilio. I miei futuri parenti non intervenivano che per meravigliarsi della poco larghezza nostra” (pag. 54) “Ignorante più ancor che brutale… se una causa di malcontento gli davo, risiedeva nella insofferenza sempre più acuta dei miei sensi ad ogni tentativo di perversione” (pag.66). “Lo guardavo talora, sempre sicuro di sé, pago intimamente della sua situazione, debole e pauroso di fronte ai superiori e alla folla, privo di ogni intuizione, inetto nella carezza come nel rimprovero, inutile, estraneo alla mia vita” (pag.78). L’essere spregevole del marito viene delineato in questa descrizione: “Ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo una notte inenarrabile in cui il mio viso ricevette a volta a volta sputi e baci, e il mio corpo divenne null’altro che un povero involucro inanimato, mi sentii proporre una simulazione di suicidio. “Bisogna che io ti faccia morire di mia mano, ma non voglio andare in galera, devo far credere che ti sei data la morte da te stessa” (pag. 90). “Il mio corpo, lo sentivo rabbrividendo, acquistava su di lui un’attrazione più acuta, dolorosa. Il ricordo della mia invincibile ripugnanza per gli atti dell’amore non gli richiamava alla coscienza lo scempio commesso su me fanciulla, ma certo doveva suscitargli confusi rimproveri per non aver avuto un delicato rispetto verso il mio organismo immaturo, per non aver saputo amorosamente destare in me la donna” (pag. 96). In certi momenti rompeva in singhiozzi, confessandosi miserabile. Non mi aveva più battuto. S’era inginocchiato davanti a me, chiedendomi perdono per non essere stato generoso, di avermi spinta al passo disperato. Nella mia sensibilità di inferma ero tratta a considerarlo un povero compagno di sventura, come me trastullo e vittima di cieche vicende” (pag. 97). Pietà di Rina per il marito: “In Ulderico giocavano molto la gelosia e l’ambiente sociale nel quale viveva, la prima si nutriva del secondo in una spirale di pentimenti più o meno coscienti, ma l’onore che doveva sacrificare a quello che si diceva su di lui e sulla compagna, esplodeva continuamente“. Pusillanimità dell’uomo: “Quando mio marito vide che né spontaneamente, né in seguito alle sue ritrattazioni, mio padre lo richiamava, un’onda di disperazione lo avvolse e malgrado l’alto concetto di sé tremava, egli era senza diplomi, quasi senza denaro e non più giovanissimo“. La meschinità dell’uomo: “In quel momento un’onda di reazione percorreva l’Italia, mio marito cercò la rivista che portava il mio articolo, alcune lettere di antichi e nuovi corrispondenti che me ne complimentavano e buttò tutto sul fuoco, vi aggiunse un mucchio di giornali e riviste, indi si mise a frugare tra le mie carte” (pag. 119).
- La prima casa da sposa
Giovane sposa, così descrive la casa nella quale era andata ad abitare con il marito: “Le finestre della saletta da pranzo del nostro appartamento davano su uno stradone, di là dal quale si stendevano alcuni orti; al fondo si scorgeva un profilo di colline e una striscia di mare. Le altre stanze guardavano su un giardino piccolo e deserto, corso da malinconiche spalliere di bosso, e su la linea ferrata. Ogni tanto, di giorno e di notte, la casa tremava leggermente per il giungere e il partire dei treni, e nelle stanze si prolungava l’eco dei fischi. Al piano di sotto v’erano inquilini pressoché invisibili” (S. Aleramo, Una Donna, pag. 44).
- Angoli e scorci
La nascita del figlio viene ad allietare la vita monotona di una donna quasi reclusa in casa: “La primavera e l’estate mi videro scaldarmi al sole insieme alla mia creaturina. Sostenevo il piccino nel suo sgambettio tentennante, poi lo prendevo in braccio, lo portavo attraverso i campi o in riva al mare, a lungo, ansando talvolta e sorridendo insieme per la fatica”(pag. 71).
Dopo la breve e tormentata parentesi della relazione con “un forestiero” e la violenta gelosia del marito nei suoi confronti, Sibilla Aleramo ritrova una breve parentesi di felicità, di nuovo con suo figlio che aveva ormai due anni: “Io andavo, col mio bimbo per mano, lungo le deserte strade maestre, tutte uguali, fiancheggiate di biancospini, fragranti nella primavera, polverose l’estate. Lontano emergeva una doppia catena di altezze, colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche poggio si sporgevano, evocando il medio evo colle loro cinte merlate, colle casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La campagna e il mare erano talora abbaglianti, talora cinerei; in certi giorni il silenzio imperava, strano e dolce, in certi altri sembrava che ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua affermasse la sua vita con un sussurro, e l’ara popolata di suoni diveniva come sensibile. Le linee del paesaggio m’erano familiari da tanti anni” (pag. 121).
- Via da Porto Civitanova
Le strade polverose di un tempo, fiancheggiate dalle fratte! I biancospini, i “murrigini”, le more! Si ’niru ‘mmuricatu! D’estate, quando il sole picchiava forte, si diventava scuri di pelle, quasi neri, come nere erano le more. “Era il tempo delle more… e i gigli attorno a noi”. Tempi lontani anni luce! Le strade bianche, “brecciate”, polverose d’estate e fangose d’inverno. Sono un ricordo abbastanza vicino nel tempo. La strada per Civitanova Alta, Montecosaro, Macerata sarà asfaltata solo alla metà degli anni sessanta. L’appalto del lavoro sarà dato alla ditta Giovanni Sardellini di Macerata. Si sa che quando si vedono le stesse cose tutti i giorni, quasi non si fa caso ad esse o le si guarda con malcelato fastidio. Meglio il paesaggio dell’anima che quello reale con il quale si ha a che fare tutti i giorni: “Il paese mi veniva in uggia, e se non l’aborrivo era unicamente a causa delle bellezze naturali che non mi stancavo di ammirare, il mio settentrione, attraverso le nubi del ricordo, m’appariva ora desiderabile, pieno d’incanti, la città sopra tutto, l’immensa città col suo formicolio umano” (pag. 19).
Trascorsi circa quattordici anni dall’arrivo a Porto Civitanova, Sibilla Aleramo lascerà definitivamente la cittadina nel 1902 e non vi farà più ritorno a seguito della rottura del matrimonio con Ulderico Pierangeli. Ripensando “al marito, al paese a cui attribuivo le colpe di tutte le mie sciagure, il pervertimento di mio padre (che se ne andò con un’altra donna), la pazzia di mia madre (ricoverata presso l’ospedale psichiatrico di Macerata), il mio matrimonio fallace (Rina Faccio si era sposata nel 1893 con Ulderico Pierangeli), quel paese ottuso, semibarbaro, a due passi dal borgo leopardiano che pur aveva dato alla mia adolescenza la prima forte nozione della natura, con il litorale di sabbia e di cardi; il mare verde, la campagna dolce d’ulivi e grani, ed i grandi cieli all’orizzonte”. Scriverà nel proprio romanzo autobiografico: “In verità, circoscrivendo in certo modo la sua prigione, l’uomo si sente tra le mura cittadine più libero e possente che sotto l’infinito cielo stellato, che dinanzi al mare e alla montagna, incuranti di lui, ciò spiega anche l’ostentazione del progresso che le metropoli, chiamate anche quadri viventi, offrono” (pag. 184). Ciò che avversava dei comportamenti sociali diffusi nel paese, era l’ipocrisia. Dopo la morte del suocero Luigi Pierangeli, portato via dal tifo: “appresi la retorica del lutto. Mio marito e mia cognata, che non l’avevano considerato se non come il detentore di un denaro comune, proclamarono un dolore atroce, credettero forse per qualche tempo di soffrire indicibilmente”.
Non si può penetrare nei sentimenti né mettere alla prova quello che Aleramo scrive, perché non si hanno gli strumenti per farlo, soprattutto perché non si dispone di ciò che la controparte avrebbe potuto dire. Si può farlo forse soltanto con quello che Rina Faccio scrive subito dopo: “Nel paese regnava una grande ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia tra gli operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli tranquillamente; molte madri soprattutto subivano sevizie in silenzio“. Ed ancora l’ipocrisia: “Non una moglie era sincera col marito nel rendiconto delle spese, non un uomo portava intero a casa il suo guadagno. Poche coppie mantenevano la fedeltà reciproca e di parecchi signori s’indicava l’amante in qualche donna che viveva da sola, e con un marito, su cespiti inconfessabili. Poco tempo prima un feroce parricidio aveva funestato una casa: il figlio aveva colto suo padre con la propria moglie. Molte ragazze si vendevano, senza la costrizione della fame, per la smania di qualche ornamento; a quattordici anni nessuna rimaneva ancora del tutto ignara. Ma restavano in casa, ostentando il candore, sfidando il paese a portare prove contro la loro onestà. L’ipocrisia era stimata una virtù. Guai a parlare contro la santità del matrimonio e il principio della autorità paterna. Guai se alcuno si attentava pubblicamente a mostrarsi qual era” (pag. 69). In seguito alla relazione con “Il forestiero”, in paese si era formato quasi uno schieramento di due opposte fazioni; da un lato i colpevolisti, dall’altro gli innocentisti, ma anche in questo caso era l’ipocrisia a farla da padrone: “I miei partigiani potevano sprezzarmi in segreto, ma dovevano esaltarmi ad alta voce; quelli dell’avvocatino e dell’arciprete non mi conoscevano per nulla e dovevano proclamarmi disonesta“(pag. 90), tanto conoscevo la corruzione e l’ipocrisia dell’ambiente” (pag.100).
Pesante è anche il giudizio sulle donne del paese: “Le chiacchiere meschine e pettegole delle donne si alternavano con le discussioni rumorose degli uomini”, questo avveniva nel corso degli incontri serali passati in casa di un parente del marito, capo della fazione democratica, secondo un’abitudine presa nei primi anni del matrimonio con Ulderico Pierangeli. “Già l’inerzia che possedeva tutte le donne del paese cominciava a parermi, in certo senso, invidiabile. La cura pigra ed empirica dei figlioli, la cucina e la chiesa erano tutta la loro vita” (pag.59).
Il naufragio del matrimonio con Ulderico Pierangeli diventava anche il crollo del padre di Sibilla Aleramo, Ambrogio Faccio con la fabbrica di bottiglie. “L’ostilità ormai aperta di tutto il paese, la rivolta del sentimento pubblico ispirata dall’arciprete, dai civili invidiosi, da operai scacciati, esasperavano il suo amor proprio ed anche il suo atteggiamento di provocazione gli faceva perdere sempre più il senso della realtà” (pag. 61), “il babbo sfidava gli operai, minacciava di abbandonare per sempre l’impresa a cui da tanti anni dava tutto il suo vigore. Non poteva ammettere un controllo, una volontà emanante dai subalterni” ( pag.152). Gli operai scendevano in sciopero per chiedere salari migliori, riconoscendosi nella locale Camera del Lavoro fondata tra gli altri da Michele Alfredo Capriotti, il giovane avvocato che sposerà civilmente la secondogenita del Faccio, Corinna, sfidando quest’ultima le ire del padre, che date le dimissioni da direttore della vetreria in favore di Ulderico Pierangeli, se ne andrà a Roma per tentare un’improbabile attività di floricoltore. Scrive Sibilla Aleramo sul declino del padre che pur aveva sempre ammirato, prendendolo a modello: “Il tempo era scorso anche per lui; aveva arrugginito il baldo organismo di pensiero, di energia, con la quale aveva trasformato tutta una popolazione, scotendola da un’inerzia secolare ed avviandola a nuove mete” (pag. 178).
Il diverbio di Ulderico Pierangeli, marito di Sibilla Aleramo, con il direttore Ambrogio Faccio, padre della scrittrice, porta i due coniugi a una decisione: lasciare Porto Civitanova, destinazione Roma dove Rina Faccio aveva avuto una promessa come collaboratrice di una rivista femminile. Ecco come descrive l’allontanamento dal paese: “Il mare, la campagna, le strade del borgo, in quella fine di settembre, dovevano avere una fisionomia dolcemente stanca, esalare la migliore espressione della loro anima. Dopo undici anni dacché li avevo visti per la prima volta, li lasciavo, movendo incontro all’ignoto” (pag. 128). Possiamo immaginare l’ultimo saluto alla via ed alla casa, dove Sibilla Aleramo aveva abitato insieme al figlio ed al marito, quella villa, oggi completamente ristrutturata, che si trova all’inizio di via della vetreria: “Scoccarono le tre. Balzai in piedi. Mi misi il mantello e m’appressai all’uscio. Mi trovai sul treno senza sapere come vi fossi venuta. I primi urti del carrozzone si ripercossero in me come se qualcosa si strappasse dalla mia carne” (pag. 199).
Dopo aver lasciato il figlio e il marito nel febbraio del 1902, Sibilla Aleramo non metterà mai più piedi a Porto Civitanova, “la vedrà solo dal finestrino del treno nel 1946 in occasione della campagna referendaria in favore della repubblica, quando era già legata al poeta, fermano Franco Matacotta”.
Le figure femminili presenti nel romanzo “Una donna”
La suocera: “Trovavo mia suocera, la sera, accoccolata dinanzi al grande camino, la cui fiamma illuminava da sola la buia cucina a pianterreno, coll’uscio quasi sempre aperto sull’orto. Coi pomelli arrossati, ella appariva più giovine nei tratti regolari e salienti del volto, e quasi bella; e mi sorrideva un po’ confusa dandomi del voi” (S. Aleramo, Una donna, pag. 35, Feltrinelli, Milano 2007). Sibilla Aleramo si sposa. Il suo è un matrimonio riparatore. Dopo la perdita del primo figlio, nasce Walter verso il quale la suocera vanta dei diritti: “Le nostre nozze semplicemente civili erano state come un incubo, mi aveva per prima cosa scongiurato di fare un cristiano del bimbo, ed io glielo avevo promesso, ricordandomi che a mia madre era stata fatta dal babbo la stessa concessione per noi figliuoli. Ma le avevo anche dichiarato che non avrei potuto tollerare ingerenze suo o di sua figlia nell’allevamento del bambino, cui non volevo infliggere certi usi barbari ancora vigenti nel luogo, né procurare fin dalla culla amuleti e fasce e pericolosi impacci protettivi. Al che mi rispondeva con una baldanza che contrastava colla consueta timidezza: “Dieci figli ho avuto ed allattato io”. Di quei dieci figli, sei erano morti nell’infanzia, e i sopravvissuti potevano dirsi fortunati. Ella mi sosteneva che i bambini devono attraversare cinque o sei malattie, nelle quali Dio stesso se li prende per formarne degli angeli. Povera vecchia. Mi aiutava a tagliare e imbastire camiciuole e corpettini, e godeva in quel lavoro, nella pace della nostra saletta, un benessere dolce che l’inteneriva e di cui si reputava forse indegna come tutti coloro che avendo sofferto lungo l’intera vita si sono convinti di non essere stati creati per la felicità. E la sventura stava per colpirla ancora” (Pag. 45). Figlio e marito si ammalano. Il figlio guarisce, il marito muore. Rimasta sola con la figlia (Assunta) va sovente a trovare il nipotino Walter: “Mia suocera aveva cessato di brontolare perché non eseguivo le sue magiche ricette contro il malocchio e una quantità d’altri pericoli. Quando veniva a trovarmi, più piccola e sfinita nell’abito da lutto, il volto le si accendeva fugacemente scorgendo le grazie del nipotino. In paese si diceva ch’ella subisse ora chi sa quali maltrattamenti dalla figlia. Non si lagnava, ma era sempre più curva, più silenziosa: quali ombre di pensieri amari dovevano svolgersele nella mente?” (pag. 53).
Tutto il romanzo è una galleria di personaggi femminili, alcuni secondari, ma che s’interfacciano con quelli principali. Dopo le due balie che si alternano in casa ad allattare il bimbo, Rina non aveva latte a sufficienza, oltre alla suocera, la casa è frequentata da altre donne: “Nella casa tranquilla, una vecchia donna, entrata stabilmente al nostro servizio, adempieva le funzioni domestiche che prima erano state quasi del tutto a mio carico. Alta e curva, il viso ossuto stranamente brutto ed espressivo, ella mi aveva conquistata di poi subito colla sua intelligenza ed il suo tatto. La sua storia non era diversa da quella di molte donne del popolo, prima esauste dalla maternità, poi abbandonate dal marito emigrato, e infine sfruttate dalle loro medesime creature. Ella la raccontava timidamente, rivelando una stoica simpatia per la vita. Presi a considerarla come una compagna, umile e discreta. Non avevo un’altra! Quando tentavo di istruirla su qualche soggetto! Se doveva rinunciarvi, crollava le spalle curve: “Ah, signora mia, fossi con trent’anni di meno! Chissà che avreste fatto di me! Ella, con mia suocera e un’altra vecchietta che veniva qualche volta a lavorar di bianco in casa mia, mi rappresentava al più alto grado, la sottomissione del mio sesso, non soltanto alla miseria, ma all’egoismo dell’uomo. Teste grigie scosse perennemente da un lievissimo tremito, come dall’istintivo ricordo degli strazi sofferti, teste su cui, spesso, lo sguardo non osava mantenersi, quante volte vi ho baciate in spirito, non per voi, ma per l’onda ardente dei propositi che, senza saperlo, gettavate entro al mio cuore!”(pag. 87- 88). Ritornata da Roma, dopo un lungo periodo di collaborazione con una rivista femminile “Mulier”, Rina Faccio ritorna a Civitanova e va ad abitare in quella casa che era stata di suo padre. “La suocera, molto invecchiata, si faceva appena perdonare le irritanti esclamazioni di meraviglia che ogni volta le suscitava la vista della casa, del giardino, del frutteto: “Il paradiso” State qui come una regina! Ah mio figlio, alfine giustizia è fatta” (pag. 142).
Cognata (Assunta) “Mia cognata doveva aver l’intuizione di una forza celata sotto la mia fragilità, ma una forza probabilmente incapace di divenire ostile. “Zitellona sui trent’anni, trovava sempre da lagnarsi; aveva un temperamento imperioso ed egoista, freddo e lunatico insieme e dinanzi a lei la madre tremava. In paese aveva una nomea di virago ch’io ignoravo” (pag. 35). Durante la stagione invernale, da sposata, Rina Faccio frequenta in compagnia del marito, una due volte alla settimana, la casa di un parente, dove convenivano: il dottore, qualche commerciante ammogliato, il segretario comunale, un maestro con alcune figliole, suo fratello Aldo, con qualche suo amico studente e naturalmente la cognata. “Mia cognata non mancava mai. Notavo in lei con un certo stupore delle velleità d’eleganza e come una preoccupazione di civetteria dacché aveva smesso il lutto (dopo la morte del padre). Si mostrava apertamente invidiosa delle ragazze più giovani di lei, e un poco più raffinate. Ma nessuno, per buona sorte, le badava: solo il dottore, che l’aveva curata pochi mesi avanti per un’ostinata nevralgia, le lanciava qualche satira, con un sorriso fine, ed ella chinava il capo stranamente confusa e non ribatteva” (pag. 55).”Nel nostro convegno, le tre figliole del maestro sussurravano spesso a bassa voce tra loro quando mia cognata ascoltava il dottore con aria estatica. Mio fratello una volta, scorgendola in quell’atteggiamento, mi disse ridendo, a bassa voce: “Il segreto di tua cognata diventa quello di Pulcinella. Non ha da essere fiero il dottore della sua conquista”. Avrei voluto chiedergli spiegazione e non osai. Che intendeva dire? Che rapporti potevano esistere tra il mio amico e quella creatura? Restai perplessa, mentre mi cresceva ad un tratto l’oscuro senso di malessere. E mi sentii più sola, inosservata fuor da quell’unico, il forestiero (pag. 56). “In quanto a mia cognata, ancora più aspra e maligna dopo la morte del dottore, doveva intuire che soffrivo e naturalmente goderne, ma mostrava di credermi felice, anche lei”. Dopo la morte del dottore, Rina Faccio, assieme al marito, decide di andare a Roma, dove l’avevano chiamata per una collaborazione alla rivista “Mulier”. Il bambino scoppia in pianto, lasciando la casa dove è nato. Ecco che irrompe la cognata: “Come in una nebbia mi si presenta un’altra scena pungente: mia cognata che scaglia invettive alle mie sorelle sgomente, venute in casa sua per abbracciarmi l’ultimo dì; e mia suocera che geme senza fine” (pag. 97). Anche la mamma del dottore che muore per il meningo- tifo viene tratteggiata in modo incomparabile: “Una donna cui i capelli d’argento davano qualcosa d’augusto, mentre sulle labbra le errava un sorriso di bimba ingenua. Tempra eccezionale, ella aveva già composto nell’estremo sonno un figliolo di vent’anni, soldato, assisteva il marito minacciato da paralisi cardiaca, amministrava il patrimonio complicato della famiglia dispersa; rappresentava il sacrificio attivo e semplice, incurante di ogni critica esteriore, pago di una salda speranza ultraterrena. Io la rivedo nell’ultima notte del mio povero amico; con una mano asciugava il sudore della bella fronte divenuta livida, coll’altra accostava ogni tratto alla bocca già irrigidita, ove appena poteva infiltrarsi qualche goccia di cordiale, l’immagine di un santo. Così spontaneo e tranquillo quell’atto, che pareva quasi impossibile anche per noi non attendere il miracolo” (pag. 96).
Nel lungo soggiorno romano, Rina Faccio incontra subito la direttrice della rivista: “L’illustre scrittrice, poco più che quarantenne, ancor piacente, divideva il suo tempo fra i suoi romanzi, la sua famiglia e il suo salotto” (pag. 100). Rina Faccio nell’ambiente viene a contatto con una realtà cosmopolita e tra le collaboratrici della rivista stringe una sincera amicizia con una disegnatrice norvegese: “Alta, biondissima, con un nasino all’insù ed occhi azzurri e calmi, illustrava le novelle e componeva fiabe figurate per i bambini” (pag. 101). Nel lavoro redazionale, Sibilla Aleramo raccoglieva e sceglieva notizie attorno ad argomenti che più la interessavano, ma manifestava anche qualche perplessità quando le giungevano in redazione “libri mediocri firmati da donne, vere parodie dei libri maschili più in voga, dettati da una vanità ancora più sciocca di quella delle pupattole mondane di cui l’editore riproduceva in fotografia gli appartamenti modern syle” (pag. 104). La direttrice della rivista era sposata ad un giurista di valore, ma i due stavano insieme solo per le figlie: “La maggiore di queste, forse, incominciava a indovinare qualcosa; i suoi diciotto anni rivelavano una personalità già forte, e sotto la bellissima fronte venata d’azzurro dovevano maturare propositi di fiera coerenza tra la sua vita e l’ideale. Ella era l’avvenire. Dinanzi a lei avevo sentito per la prima volta che v’erano esseri più giovani di me, che avrebbero potuto ereditare da me qualche favilla e tramandarla più alta nel tempo” (pag. 104). Descrizione appassionata della mamma della direttrice: “Da trent’anni, dacché era arrivata alla capitale dalla Lombardia e s’era unita liberamente con uno scultore illustre, il suo lavoro per redimere sventure era stato incessante, incalcolabile. La sua pazienza nel perseguire miglioramenti parziali, riforme d’istituti benefici, aiuti dagli enti pubblici, la sua tenacia nel bussare alle porte dei ricchi per ottenerne la piccola elemosina, contrastavano stranamente con la sua credenza nella necessità ultima di sconvolgere col ferro e col fuoco la massa oppressiva delle istituzioni formate dalle classi superiori. Aveva mai lasciato intravvedere questo terribile pensiero a qualcuno dei giovani operai che la ascoltavano nella Scuola Popolare da lei fondata? In tanti anni aveva conosciuto grandi poeti ed ex galeotti, donne sventurate e depravate, uomini di Stato e fanciulli vagabondi. Anche ora nel suo studiolo apparivano creature dai più diversi linguaggi, e sembrava che sfilasse così dinanzi a lei l’umanità varia ed una” (Pag. 105). La donna non può che Alessandrina Ravizza, fondatrice dell’Università Popolare e a Milano della “Umanitaria”, un’istituzione emerita milanese esistente anche oggi.
Alla fine di Febbraio 1902, Rina Faccio abbandonava la casa, il marito e il figlio a Porto Civitanova e andava a Roma, ospite della sorella Corinna Faccio, sposata a Michele Alfredo Capriotti, che abitava nei pressi della Pineta Sacchetti. A Roma, nell’estate del 1902, dopo una breve relazione avuta con Felice Damiani, conosciuto a Milano, iniziava la convivenza con Giovanni Cena. I due andavano ad abitare in via Faminia 45, nei pressi di piazza del Popolo. La loro casa divenne ben presto punto di riferimento e luogo d’incontro d’intellettuali e artisti: Salvemini, Montessori, Pascarella, Pirandello, Grazia Deledda, Gor’kij, Pelizza da Volpedo. Rina che cambiava intanto, su suggerimento del nuovo compagno, il proprio cognome con Aleramo sentiva intensamente la mancanza del figlio del quale riceveva notizie solo attraverso l’istitutrice Angiolina Comolli che le scriveva da Montecosaro. Ogni tentativo fato dal padre e dall’avvocato Luigi Majno, per ottenere la separazione legale e l’affidamento di Walter risultava vano, per l’opposizione del marito che aveva dalla sua l’avallo della legge.
Accanto a Giovanni Cena, Angelo e Anna Celli, rispettivamente marito e moglie, Sibilla Aleramo fondava le scuole dell’Agro Romano alle quali darà tutto il proprio contributo. La prima scuola festiva per i guitti, i lavoratori temporanei della campagna romana, nasceva a Lunghezza nel 1904 per opera della sezione romana dell’Unione Femminile Nazionale, organizzazione che aveva visto la luce a Milano, dietro l’instancabile attività di Alessandrina Ravizza che aveva fondato anche la Società Umanitaria di cui diverrà segretario Michele Alfredo Capriotti, il marito di Corinna Faccio, la sorella di Rina. Così scriverà nel suo Diario Sibilla Aleramo: “Mi hanno condotta a Lunghezza, presso Tivoli. La Celli mi ha detto: Voglio che lei veda. A due passi da Roma! Capanne di paglia, come cumuli di strame. In capanne vivono, senza pavimento, sembrano anche loro di fango, guardano attoniti, bimbi, vecchi, le capanne stanno fuori di ogni strada, si va per un sentiero, a piedi, è una specie di villaggio, tre, quattrocento persone, e dicono che ve ne sono tanti altri sparsi così nella campagna, tutti intorno a Roma, e più giù, sino alle Paludi Pontine, aggruppamenti di veri tukul, abbandonati, senza medico, senza scuola, e mi guardavano come se veramente fossi capitata in Africa, scendono dalla Sabina, dalla Ciociaria e dagli Abruzzi, tornano al loro paese soltanto da luglio a settembre, quando la malaria infierisce più acuta. Il terreno appartiene a un principe. Li chiamano guitti. Oggi c’era il sole. Ma quando piove, come possono vivere lì; come?” (S. Aleramo, un amore insolito, Diario 1940- 1944, Milano 1979).
Sibilla Aleramo trascorrerà cinque anni della sua vita, dal 1904 al 1909, a stretto contatto con i guitti dell’Agro Romano, ragazzi e vecchi intenti a compitare seguendo l’insegnante alla lavagna con tremore religioso. Il lungo apostolato univa tutti e quattro i fondatori: Celli, Cena e Sibilla. “Le lunghe esplorazioni per la campagna, giornate intere a piedi, inverno, estate, polvere rossa tufacea, fango nero, rovi e macchia, poi ancora stoppie all’infinito, e sempre all’orizzonte l’apparizione di qualche divinità, la ghirlanda dei Colli Albani o la linea incandescente del mare, o il Soratte, o l’Artemisio, o la rocca d’Ardea, oppure la stessa Roma, laggiù, barbaglio lontano nel mezzo del gran piano ondulato e vaporante. Ad un tratto, dietro un rialzo di terreno, un gruppo di capanne si profilava: dieci, venti, cinquanta. Bimbi e donne si sporgevano dalle basse aperture, attoniti, con gli occhi cisposi, ci tastavano le vesti. Nessuno giungeva mai sin là. Nessuno, salvo l’arruolatore, il “caporale”, e l’agente delle tasse. Neanche il prete, neanche per i morti che venivano portati a spalla al cimitero più prossimo, a dieci, dodici chilometri. Né medici, né levatrice. E quasi tutti malarici, e tutti analfabeti”( S. Aleramo, Andando e Stando, pag. 8, Milano 1997).
Ernesta Cottino. E’ la mamma di Sibilla Aleramo. Vive come un’ombra accanto al marito che la tradisce ripetutamente. Non si ribella, ma accetta tutto in nome dei figli. Si getta dal balcone di palazzo Sforza, ma rimane illesa. Finisce all’ospedale psichiatrico di Macerata, dove morirà di polmonite il 1 Aprile del 1917. Rina Faccio trova tra le carte di famiglia una lettera di sua madre indirizzata a suo padre (il nonno di Rina) ma mai spedita: “E una lettera mi fermò il respiro. Data da Milano (quando i bambini erano ancora piccoli), era scritta a matita, in modo quasi illeggibile, di notte. La mamma annunciava a suo padre il suo arrivo per il dì dopo; diceva di aver già pronto il baule colle poche cose sue, di essere già stata nella camera dei figlioli a baciarli per l’ultima volta…”Debbo partire, qui impazzisco… lui non mi ama più.. Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini… debbo andarmene, andarmene…poveri figli miei, forse è meglio per loro…” (S. Aleramo, Una Donna, pag. 144). Continua Rina Faccio: “Non avevo mai sospettato che mia madre si fosse trovata un momento in una simile situazione. Avessi avuto qualche anno di più, mentre ella era in possesso di tutta la sua ragione, e ancora in lei la vita reclamava i suoi diritti contro la fatale seduzione del sacrificio! Avessi potuto sorprenderla in quella notte, sentire, dalla sua bocca, la domanda: “Che devo fare, figlia mia?” e rispondere anche a nome dei fratelli: “Va’, mamma, va’. Sì, questo le avrei risposto; le avrei detto: “Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta soprattutto la tua dignità, madre, sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando. Conservati da lontano a noi; sapremo valutare il tuo strazio d’oggi: risparmiaci lo spettacolo della tua lenta disfatta qui, di questa agonia che senti inevitabile!”. Ahimè! Eravamo noi, suoi figli, noi inconsci che l’avevamo lasciata impazzire. S’ella fosse andata via, se nostro padre non ci avesse permesso di raggiungerla, ebbene, noi l’avremmo nondimeno saputa viva, e dopo dieci, vent’anni, ancora avremmo potuto ricevere da lei i benefizi del suo spirito liberato e temprato. Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. E’ una catena mostruosa. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità? Allora si comincerebbe a comprendere che il dovere dei genitori s’inizia ben prima della nascita dei figli, e che la loro responsabilità va sentita innanzi, appunto allora che più la vita egoistica urge imperiosa, seduttrice. Quando nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere tutti gli elementi necessari alla creazione d’un nuovo essere integro, forte, degno di vivere, da quel momento, se un debitore v’ha da essere, non sarebbe questo il figlio?” (pag. 145). Sibilla Aleramo spezza la catena della sottomissione, per non fare la fine della madre. Abbandona il marito perché non lo ama né è riamata, anzi picchiata e maltrattata ripetutamente e lascia il figlio che per la legge del tempo era di proprietà del padre. Molte sono le riflessioni di Sibilla Aleramo sull’indipendenza e sull’emancipazione della donna, presenti nel romanzo, tra tutte, forse la migliore è questa: “Povera vita, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevano tanto! Tutti s’accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose, quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole quasi, di fronte alla grandezza del mostro da atterrare! E cominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana” (pag. 85).
- Sulla condizione della donna di fine ottocento inizi del novecento esistono diversi romanzi minori, scritti al femminile, ma ugualmente importanti per cogliere analogie e differenze regionali, i rapporti con il parentato, la vita in provincia, le classi emergenti: Teresa, di Neera, pseudonimo di Anna Zuccari Radius, Un Matrimonio in provincia, della Marchesa Colombi, pseudonimo di Maria Antonietta Torriani. Elias Portolu (1900), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915) di Grazia Deledda, i romanzi d’appendice di Matilde Serao, Carolina Invernizio, Liala, pseudonimo di Amalia Liana Negretti Odescalchi in Cambiasi.
Raimondo Giustozzi
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