Dopo il romanzo dell’esordio “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, gli altri due romanzi “Cose che nessuno sa” e “Ciò che inferno non è”, Alessandro D’Avenia ci ha regalato nell’ottobre del 2016 quest’altro libro “L’arte di essere fragili, come leopardi può salvarti la vita”. E’ un colloquio a distanza con Giacomo Leopardi, entrato nella propria vita a diciassette anni e mai più uscito. Il primo capitolo “la felicità è un’arte, non una scienza”, usato dall’autore come introduzione, è già una recensione del libro stesso. Scrive Alessandro D’Avenia: “Stiamo dimenticando l’arte di essere felici, e, quando lo siamo, per paura che lo stato di grazia sia un’illusione, lo condanniamo a esaurirsi, come un giardiniere che non si fida del seme di rosa a causa della sua piccolezza e fragilità, e per questo decide di non curarlo. Troppo concentrati sui risultati anziché sulle persone, trascuriamo di prenderci cura di noi stessi come essere viventi, cioè chiamati a essere di giorno in giorno più vivi, più capaci di un destino inedito, e ci accontentiamo di attraversare stancamente la ripetizione di giorni senza gioia. Io credo che accada perché spesso alla vita preferiamo il suo rivestimento, come se chi ha ricevuto un regalo si accontentasse del pacchetto per paura di rimanere deluso” (Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili, come Leopardi può salvarti la vita, pag. 9, Edizione Mondadori, ottobre 2016).
Giacomo Leopardi fu un “predatore di felicità”, un cacciatore di bellezza, pur vivendo una vita costellata di imperfezioni e la sua ricerca di Infinito non si fermò nemmeno davanti alla morte. Era una notte di stelle quella del 13 giugno 1837, l’ultima della sua vita terrena. Era assieme all’amico Antonio Ranieri al quale Leopardi chiede come mai Leibniz, Newton, Colombo, Petrarca, Tasso avessero fede nella religione cristiana, mentre loro non potevano “per nessun verso acquietarsi alla dottrina della Chiesa”. L’amico gli risponde che sarebbe meglio poter credere ma la ragione umana ripugnava le ragioni della fede. Leopardi non è soddisfatto della risposta. Insiste ancora, chiedendo come mai la ragione di Leibniz, di Newton, di Colombo non fosse ripugnante come la loro. Un navigatore, un filosofo, uno scienziato e i due poeti, che Leopardi aveva amato più di tutti, erano riusciti a tenere assieme le ragioni del cuore e quelle della ragione: “Loro avevano creduto a quelle parole di Cristo, che aveva guardato le cose della natura con l’attenzione poetica che avevi tu, come se ogni cosa contenesse diversi piani, dalla superficie alla profondità: Guardate gli uccelli del cielo; non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il padre vostro celeste li nutre…” (Ibidem, pag. 196). Fino all’ultimo Leopardi fu suggestionato dalla bellezza di quella notte di stelle e dettò all’amico Ranieri gli ultimi versi del “Tramonto della luna”. Fino all’ultimo era stato fedele alla bellezza delle cose fragili. “Tutta l’opera di Leopardi sembra dirci: Io sono quello che non sono, e questa è la bellezza delle cose fragili, che bramano essere ciò che ancora non sono… E non si può morire del tutto se si è lottato per fare qualcosa di bello al mondo, se si è lottato per resistere alla tentazione del nulla” (pag. 197).
Il libro non è un’opera di critica letteraria. Non è un romanzo perché non ne ha gli elementi. Non ci sono luoghi, personaggi, non c’è una trama. E’ una raccolta di trentasei lettere, compreso un post scriptum, che comunemente si usa a conclusione di una missiva, che l’autore scrive a Giacomo Leopardi, dialogando con lui sulla sua poesia, sulle sue opere di narrativa (Operette Morali, Zibaldone, Lettere), messe all’inizio di ogni capitolo o all’interno stesso delle lettere, ma con continui riferimenti al nostro presente, ai giovani studenti che Alessandro D’Avenia incontra nelle aule del Liceo dove è insegnante di Lettere. Si sa che Leopardi aveva intenzione di scrivere una Lettera a un giovane del ventesimo secolo, come accenna nello Zibaldone nell’aprile del 1827. La lettera non fu mai scritta né fu mai portato a compimento da Leopardi il progetto di un poema, in prosa e in versi, sulle età dell’uomo. Il libro di Alessandro D’Avenia è un atto di fedeltà a questi due progetti mai realizzati dal poeta recanatese. “Se la poesia è un messaggio in bottiglia, che vive nella speranza di un dialogo differito nel tempo”, l’autore del libro, vissuto centocinquant’anni dopo la nota riportata nello Zibaldone, raccoglie questo messaggio. Stabilisce, con il poeta dell’Infinito, una corrispondenza epistolare, distribuita dentro quattro fasi distinte che corrispondono all’età dell’uomo nel corso della sua esistenza terrena: Adolescenza o l’arte di sperare (16 lettere), Maturità o l’arte di morire (9 lettere), Riparazione o l’arte di essere fragili (9 lettere), Morire o l’arte di rinascere (1 lettera e un Post scriptum).
La poesia è il rapimento del poeta verso la bellezza della natura e del creato. “Solo la fedeltà al proprio rapimento rende la vita un’appassionante esplorazione delle possibilità e le trasforma in nutrimento, anche quando la realtà sembra sbarrarci la strada” pag. 21). Sta all’insegnante aprire la mente e il cuore dei propri alunni verso questa esperienza. Scrive un’alunna del Liceo presso il quale Alessandro D’Avenia insegna: “Sono maestri come voi quelli di cui abbiamo bisogno, perché nella melma che ogni ragazzo porta con sé, c’è il seme di una ginestra e voi, guerrieri – perché gli insegnanti combattono, l’ho ben capito -, ne spaccate il guscio e fate esplodere la forza di quel fiore” (pag. 206). Di melma e di dolore gli alunni fanno esperienza diretta: anoressia, droga, bullismo, aridità dei sentimenti, mancanza di lavoro, momenti di depressione indicibile. “Solo chi ha consuetudine con l’infinito conosce la propria finitezza, accetta la morte e non la nasconde, solo chi accetta la morte, sa vivere… solo chi sa contare i propri giorni diventa di stagione in stagione capace di abitare la vita con la leggerezza degli innamorati” (Pag. 195).
La letteratura pone domande. Sono le stesse dei personaggi leopardiani: Saffo, Nerina, Silvia, Cristoforo Colombo e l’islandese, il pastore errante nell’Asia. Le risposte dobbiamo darle noi personalmente ma con l’aiuto di chi ci sta vicino, maestro, insegnante, adulto. Anche la lettura di un ottimo libro come quello di Alessandro D’Avenia è una buona bussola. Leopardi non è solo il poeta del pessimismo personale, storico e cosmico, come un insegnamento troppo superficiale abitua a far credere, né il gobbo, lo “sfigato” di turno ma uno che ha abitato la vita con tutte le sue sfaccettature, debolezze e fragilità. Un altro pregio del testo è da ricercare nel sapiente uso e commento di brani leopardiani scelti, uniti a frammenti di autori famosi per dare forza alle proprie argomentazioni: Hölderlin, Elias Canetti, Giuseppe Ungaretti, Qoèlet, Huxley, Eliot, Saba, Baudelaire, Dante Alighieri, Ezra Pound, Francesco d’Assisi, Etty Hillesum.
Alcune citazioni prese dal libro: “Senza essere rapiti, non solo non si arriva al mare, ma si scivola nel sonno o si fugge nel sogno” (pag. 26). “Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché tutto dia frutto a tempo opportuno” (pag. 27). “Libero è l’uomo che assume la propria sorte come dono e compito, e rimane fedele a se stesso, perché ne va della possibilità di offrire agli altri la sua essenza, contrastando la vile prudenza che ci rende simili ad animali che hanno come unico obiettivo la conservazione della specie: allora sì che saremo fatti solo per la morte” (pag. 99). “Sempre più raramente gli uomini sono colti da quel senso di infinito, proprio perché non ce l’hanno più a portata di mano, le loro siepi non sono trampolini di lancio verso oltre, ma ostacoli insormontabili” (pag. 194). “Viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita. Ma c’è un altro modo per mettersi in salvo, come te, Giacomo, un’altra terra, fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili” (quarta di copertina).
Raimondo Giustozzi
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