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Politica. Come pensare ad un nuovo gruppo dirigente?

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di Nicolò Bellanca – MicroMega

In occasione dell’Assemblea promossa dall’Alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza, il 18 giugno a Roma, occorre formulare, in termini radicali, una domanda scomoda: come potrebbe emergere un gruppo dirigente di sinistra nell’Italia di oggi? La premessa (per nulla piacevole!) del ragionamento è una circostanza che considero assodata: il nostro Paese ha una lunga storia di élites-senza-popolo, nella quale le élites governano dall’alto in nome di un consenso passivo, mentre il popolo si mobilita saltuariamente più per impedire qualche colpo di mano, che per promuovere una progettualità di cambiamento; questa storia si proietta anche sull’attuale decennio della Grande recessione, durante cui l’Italia non ha espresso movimenti dal basso importanti e incisivi come quelli che, ad esempio, hanno accompagnato in Spagna il sorgere di Podemos. L’implicazione grave (e, ancora, per nulla piacevole!) di questa premessa è che un nuovo gruppo dirigente di sinistra difficilmente si formerà entro settori ampi della società civile; piuttosto, almeno all’inizio, esso probabilmente si auto-selezionerà tra le élites politico-intellettuali, pur consapevole che, per essere di sinistra, dovrà alimentare la partecipazione di milioni di cittadini, specialmente di quelli solitamente esclusi dalla sfera pubblica.

 

Al contrario di coloro per i quali le teorie sono sempre vacue astrazioni, ritengo che non vi sia nulla di altrettanto concreto e utile di una buona teoria. Se dunque vogliamo avviare un’efficace prassi politica, abbiamo bisogno di valide idee teoriche. In riferimento al tema qui sollevato, suggerisco un contributo classico della psicologia sociale: la teoria delle minoranze attive.[1] Indipendentemente dal suo status e potere, una minoranza può avere un’influenza sociale, per infrangere lo status quo e per generare innovazione e cambiamento. Ciò accade quando essa, oltre ad affermare una prospettiva normativa alternativa a quella della maggioranza, procede con uno stile di comportamento basato «sulla consistenza, cioè sull’essere coerenti e tenaci sincronicamente (fra i vari membri) e diacronicamente (nel corso del tempo); sull’autonomia, cioè sull’essere indipendenti da legami esterni e sull’agire secondo principi; sull’investimento, cioè sul dare prova di coinvolgimento, di sacrifici personali e materiali per sostenere le proprie posizioni; sulla flessibilità, cioè sulla capacità di assumere uno stile di negoziazione flessibile pur mantenendo la coerenza (nel caso in cui la minoranza fosse troppo rigida, apparirebbe dogmatica e avrebbe meno potere d’influenza); sul non settarismo, cioè sulla capacità di guardare anche a posizioni diverse dalla propria con imparzialità».[2] La vicenda personale e politica di Jeremy Corbyn è un esempio che illustra bene questo primo versante della teoria. Mentre l’influenza che la maggioranza esercita sulle persone tende ad assumere i contorni del conformismo (allinearsi agli altri) e della compiacenza (pubblica accettazione, anche quando privatamente non si è convinti), l’influenza della minoranza evoca la voglia di differenziarsi dagli altri e di sentirsi privatamente convinti, anche quando in pubblico ancora si esita. Il crescente e persistente successo, nell’opinione pubblica mondiale, di movimenti come quello ecologista o quello dei diritti omosessuali – originati da minuscole minoranze, in pochi luoghi – sono tra i casi che meglio convalidano questo secondo versante della teoria.

 

Proviamo ad applicare l’analisi delle minoranze attive al problema del nuovo gruppo dirigente di sinistra. Le domande cruciali che il gruppo deve porsi sono: quali soggetti desideriamo federare in un “popolo della sinistra”; ovvero, quali soggetti dobbiamo sfoltire, per meglio unire? Su quali punti programmatici dobbiamo accettare contrapposizioni e conflitti, per cercare una sintesi politica adeguata e convincente? Per rispondere alla prima domanda, il gruppo deve rompere con il ceto politico professionale che occupa l’area della sinistra. Sappiamo tutti in quale misura, nel nostro Paese, la politica professionale sia diventata un’attività strumentale e spesso corrotta. Ma non è questo il motivo principale per lasciare a casa chi ha già ricoperto incarichi politici. L’aspetto decisivo riguarda la credibilità, e quindi l’influenza potenziale, della minoranza attiva. Molto crudamente: non vi è alcuno – fino a prova contraria! – tra i dirigenti di partiti e associazioni della sinistra che si sia dimostrato insostituibile. Costoro si sono messi in gioco, talvolta con autentiche motivazioni intrinseche: hanno costruito le loro organizzazioni, condotto le loro battaglie, fomentato il settarismo e il personalismo, ottenuto esiti fallimentari. È adesso necessario che tornino alle loro occupazioni private – magari restando semplici militanti di base – per non condizionare la nuova leadership. Su questo punto, purtroppo, l’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari è fortemente autolesionistico. Il ceto politico professionale è parte sostanziosa del problema, non della soluzione. Come ogni gruppo preoccupato di sopravvivere, non può che approntare tatticismi e mezze misure, affondando nella mediocrità ogni talento ed entusiasmo …

 

In secondo luogo, il nuovo gruppo dirigente deve elaborare e proporre un “senso comune” (oggi si dice: una propria narrazione) che contrasti quello dominante. La storia della sinistra insegna che vi sono due criteri fondamentali che conferiscono significato ideale alla propria prassi politica: l’uno consiste nel formulare e praticare qualche criterio radicale di eguaglianza tra le persone e tra i gruppi; l’altro risiede nel proporre e realizzare qualche procedura di condivisione dei più importanti beni sociali tra le persone e tra i gruppi. Gran parte delle riflessioni che pubblica Micromega, così come l’intervento di Montanari per l’Assemblea, enfatizzano quasi soltanto il primo criterio, sebbene l’altro sia non meno cruciale. Il criterio della condivisione viene talvolta definito in termini di inclusività: una società capace di abbracciare (solidalmente) tante diversità, estendendo a quanti più soggetti possibile i diritti e la partecipazione, riesce a tenere tutti nel perimetro della cittadinanza attiva. Talvolta invece questo criterio è declinato nei termini del reciproco riconoscimento: quando i soggetti si legittimano a vicenda, concedendosi pari dignità, allora nessuno è ostracizzato e nessuna sofferenza o insoddisfazione è priva di voce. Elaborare un “senso comune” basato così sull’eguaglianza, come sulla condivisione/inclusione/riconoscimento, non è un vezzo intellettuale. Piuttosto, esso tiene conto di quello che muove le persone, le quali s’indignano e si mobilitano per la dignità e per la visibilità, almeno quanto per l’ingiustizia e per la disuguaglianza.

 

Infine, per formare un blocco sociale e per conquistare l’egemonia, il nuovo gruppo dirigente deve proporre una strategia di discontinuità. Il consenso egemonico è, infatti, un percorso che, conflittualmente, ottiene la collaborazione di settori della società e il contrasto di altri. Una leadership di sinistra deve valorizzare le proprie idee chiave e motivare le persone a partecipare con la mente e con il cuore. Ma, come indica la teoria delle minoranze attive, spesso il modo più efficace per riuscirvi sta nel “rompere le righe”: nell’opporre certe strategie ad altre, certe alleanze sociali ad altre.[3] Ovviamente, non spetta a me – né avrebbe senso – tracciare individualmente una simile strategia. Alcuni esempi possono però aiutare a capire in quale direzione essa andrebbe orientata. Accanto a misure di politica economica già dibattute e, a mio avviso, convincenti,[4] occorrerebbero tre indicazioni che aprano alla speranza. Una è la moneta fiscale, cavallo di battaglia di questa rivista: la possibilità di combattere disoccupazione e stagnazione, malgrado i vincoli imposti dai mercati globali. Un’altra è una modalità, semplice e incisiva, di riduzione del debito pubblico: la possibilità di ridare un futuro alle giovani generazioni.[5] La terza mette in campo una batteria di politiche per la felicità pubblica: la possibilità d’interventi il cui metro di valutazione non sia l’impatto sul PIL, bensì quello sul benessere di persone e gruppi.[6] Nell’ambito delle politiche capaci di modificare strutturalmente la traiettoria (di declino) del cosiddetto sistema-Paese, una piattaforma per la sinistra è già disponibile: la dobbiamo all’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Questi interventi, presi sul serio e iscritti in una logica coerente, innescherebbero un processo d’innovazione e cambiamento basato su eguaglianza e condivisione.

 

Concludo. Nessuno può inventare a tavolino il nuovo gruppo dirigente di sinistra che punti a conquistare un consenso politico e un’egemonia culturale. Nessuno però ci costringe a ripetere una volta ancora gli errori di tanti precedenti tentativi. Ho tentato di argomentare i tre passaggi, necessari sebbene non sufficienti, che occorrono: nessun ruolo per il ceto politico professionale; una narrazione capace di toccare le nostre emozioni, accanto alla nostra ragione, e basata sulla coppia eguaglianza-condivisione; una strategia progettuale che non possa e non voglia accontentare tutti, ma che sia in grado di delineare un futuro nel quale sia significativo vivere.

 

NOTE

 

[1] Serge Moscovici, Social influence and social change, Academic Press, London, 1976; trad. it. Psicologia delle minoranze attive, Boringhieri, Torino, 1981.

 

[2] Giuseppina Speltini e Augusto Palmonari, I gruppi sociali, Il Mulino, Bologna, 1999, p.236. Ho sostituito “non settarismo”, un’espressione immediatamente comprensibile nel nostro ragionamento, a “equità”, usata dagli autori.

 

[3] Rimando a Nicolò Bellanca, “Sinistra possibile: un blocco sociale contro la disuguaglianza”, Micromega, 5/2016, pp.190-200.

 

[4] Penso, in particolare, ai contributi di Sbilanciamoci

 

[5] L’idea di ridurre di un terzo il debito pubblico, mediante una patrimoniale una tantum che gravi sul terzo più abbiente dei contribuenti, è abbastanza semplice e intuitiva da poter funzionare. Essa comporterebbe un parziale trasferimento di ricchezza (concentrata in maniera fortemente disuguale) dalla mano privata alla mano pubblica.

 

[6] Vedi ad esempio Stefano Bartolini, Politiche per la felicità, Feltrinelli, Milano, 2013.

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