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Il battito dell’uomo, la pulsazione della tecnologia. Steve Reich a 80 anni

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Massimo Acanfora Torrefranca Musicologo

L’americano Steve Reich è associato alla musica “minimalista”, una felice definizione coniata dal compositore britannico Michael Nyman. Un’arte sonora basata su elementi costitutivi semplici, ripetuti continuamente e microvariati senza interruzione, fino a cancellare nell’ascoltatore la percezione dei cambiamenti.

Di tutti i compositori “minimalisti” (Terry Riley, LaMonte Young, Charlemagne Palestine, Philip Glass), Steve Reich è forse l’unico a godere di un cauto e perplesso rispetto da parte dei suoi colleghi europei. Per il senso dell’eufonia, la combinazione di suoni così perfetta nel risultato, da risultare inebriante; per la complessità ritmica dei suoi pezzi, costruiti secondo una logica di sovrapposizione di strati sonori diversi derivata da certa musica africana e dal gamelan balinese e giavanese; per la padronanza della scrittura, delle tecniche esecutive, della tecnologia.

Il 3 ottobre di quest’anno Steve Reich ha compiuto ottant’anni. Il primo novembre la Carnegie Hall, celeberrima sala newyorkese, lo ha festeggiato con un concerto intenso, importante, emozionante. Non un concerto retrospettivo: Reich è per natura umana e artistica lontano da ogni idea di agiografia o di contemplazione senile. Piuttosto, con la presentazione di nuova arte e la riproposizione di temi compositivi e non cari a un musicista che non cessa di creare, riflettere, invitarci a godere e a pensare.

Al centro il suo nuovo pezzo, Pulse, per fiati, archi, pianoforte e basso elettrico. Pulse si dipana attorno a una pulsazione ritmica fornita dal basso elettrico e ribadita spesso dal pianoforte. Pulsazione costante, ma variata negli accenti, che spesso cambiano quasi impercettibilmente. Sulla pulsazione, attorno a essa, si stacca, si libra, un tema complesso, convoluto, affascinante nel suo profilo melodico e nelle sue implicazioni armoniche, presentato da archi e fiati, con una fusione armonica perfetta e stupefacente fra archi acuti e flauto.

Si rimane incantati da questo elemento così articolato, esposto ripetutamente con minime variazioni e diversi sviluppi che tuttavia riportano sempre al punto di partenza. Incantati e stupiti, perché per chi ha orecchio e conoscenze da coglierne tutti gli elementi costitutivi, è un tema di grande complessità ed elaborazione.

Pulse a sua volta deriva da un altro lavoro di Steve Reich, presentato nel concerto immediatamente prima: Quartet del 2013, pezzo di durata pressoché uguale a Pulse, scritto per due pianoforti e due percussioni (vibrafoni). Anche il piano però come spesso succede nella musica di Reich, è concepito quale strumento principalmente percussivo. Quartet riprende un elemento ricorrente nelle opere di Reich, quattro strumenti divisi in due coppie, che si integrano perfettamente fra loro senza essere mai l’una di guida all’altra.

Quartet è costruito formalmente come un concerto settecentesco: tre movimenti, veloce – lento – veloce, dove le due parti estreme si richiamano fra loro. È un lavoro dove Reich ha introdotto cambiamenti armonico-ritmici improvvisi, repentini, non preparati, con un uso abbondante di sincopi (accenti che cadono dove non dovrebbero). Una svolta stilistica certo non scontata e perfino sorprendente. Per tutto il pezzo l’attenzione, anziché concentrarsi sulle sottigliezze della complessa costruzione per strati sovrapposti, viene frustrata e scioccata di continuo. Pulse, il nuovo lavoro, riprende quelle medesime armonie e quegli stessi ritmi nuovi, lasciandosi alle spalle lo spiazzamento e la sorpresa ininterrotti, ma stupendo ancor di più nella costruzione del tema.

La pulsazione è sempre stata una delle idee cardine nell’arte di Reich. Pulsazione costante che sottende a tutti i diversi ritmi impiegati. Pulsazione o impulso tecnologico, anche, come nei suoi lavori degli anni 70, e come nella macchina da lui costruita allora, il Pulse Gate, un fallimento totale in cui la tecnologia si rivelò inattendibile e gli sforzi del suo creatore ne risultarono frustrati. Oggi la macchina giace negli archivi della Fondazione Paul Sacher di Basilea.

Questo rapporto complesso, di costante riflessione sulla tecnologia e la scienza, di fascinazione, utilizzo, allontanamento, è al centro dell’opera video-musicale che ha chiuso il concerto della Carnegie Hall: Three Tales, del 2012. La parte video fu curata dall’artista Beryl Korot, compagna di Reich anche nella vita. Il drammatico incendio del dirigibile Hindenburg all’arrivo a New York negli anni 30, le esplosioni nucleari nell’atollo di Bikini negli anni 50, la creazione della pecora Dolly e i primi robot complessi degli anni 90.

Queste le tre tappe del lavoro, ove documenti d’epoca, voci e volti di testimoni montati, manipolati, resi a tratti aloni ed echi sonori, citazioni da Genesi, sono scanditi dal costante incalzare della musica. Alla fine, la voce del talmudista Adin Steinsaltz fornisce una chiave criptica, sorprendente, alle vicende della tecnologia nell’arte di Reich e nel nostro mondo: “il vero peccato di Adamo, fu la fretta”. Parafrasi dal testo fondamentale della mistica ebraica, lo Zohar.

Perché nella tradizione ebraica, non è chiaro quale fosse il frutto proibito nel paradiso terrestre. Certo non la mela. Alcuni sostengo si trattasse del fico, con tutte le sue connotazioni sessuali; altri della vite, fonte di inebriamento; altri del grano, base dell’agricoltura e della civiltà.

Adamo fu creato il sesto giorno, di venerdì. Se avesse atteso il settimo giorno, lo Shabbath, D-o gli avrebbe fornito il frutto dolce del riposo, il vino per l’apposita benedizione, il pane per sfamarsi e celebrare il Creatore. Ma Adamo ebbe fretta… Giusta conclusione per un artista come Reich che attacca e stacca continuamente la spina della tecnologia nella sua opera, così come stacca se stesso dalle preoccupazioni materiali ogni sette giorni, durante lo Shabbath.

Forse è questo il segreto che ce lo ha consegnato il primo novembre sul palco della Carnegie Hall arzillo e scattante come un giovanotto.

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