La processione avanzava, lentamente, nella sera fredda d’autunno ed un canto si levava, basso, lento e quasi lugubre, dalle sue fila. Ma ancor più cupo era il piccolo drappello di frati e «confrati» incappucciati e vestiti con grossi sacchi neri che scortavano l’imponente crocifisso che, nella prima oscurità della sera, appariva ancora più grande e incuteva paura e soggezione. Il gruppetto avanzava verso la chiesetta di S. Maria in Montemorello dove si preparavano le celebrazioni per le missioni, mentre la piccola campana batteva i rintocchi.
Gli occhi sgranati del piccolo conte dicevano tutto lo spavento dei suoi tre anni, terrore che continuò a perseguitare le sue notti per settimane facendolo gridare di paura per i «bruttacci». Lo stato di agitazione era tale che i suoi genitori ebbero molta paura per la sua salute ma, soprattutto, temettero per la sua mente.
Forse aveva superato, anche se non del tutto, il suo timore quando dopo poco più di un anno, il padre, prendendolo per mano lo accompagnò in una sala del palazzo allestita come una camera ardente, conducendolo accanto al catafalco ricoperto di un drappo rosso, dove era disteso il corpicino, rigido da molte ore, del fratellino Luigi vissuto solo nove giorni:
“Baciate vostro fratello, figlio mio, egli ora è in cielo”.
Così, in modo crudo, il contino, che nonostante la tenera età era dotato di un’acuta sensibilità, fu avvicinato al mistero della morte e mentre il suo sguardo profondo percorreva il corpo del piccolissimo fratello, le lacrime gli sgorgavano copiose rigandogli le gote. Ed ancora il sonno scomparve per molte notti.
Angoscia già adulta la sua, che si univa alle consuete paure infantili: la paura del buio, il timore del tuono ma anche di quegli scoppi gioiosi che, nei giorni di festa, si udivano risuonare, a quel tempo, nei villaggi. Paure, terrori che lo segneranno e non l’abbandoneranno più, nonostante gli sforzi dell’austero genitore di insegnargli a dominare le paure con la ragione.
Ma come – direte voi lettori – anche i geni hanno provato le nostre paure? Ma soprattutto hanno avuto il coraggio di confessarlo?
Eh sì, cari ragazzi, perché il piccolo timoroso e profondo contino “diventerà” Giacomo Leopardi, il più grande poeta-filosofo del nostro Ottocento.
Suo padre, Monaldo, a vent’anni si era innamorato follemente della marchesina Adelaide Antici sorella del suo più caro amico. Contro il volere della famiglia (a quel tempo i matrimoni erano per lo più combinati) egli la sposò, mentre i francesi invadevano, per la seconda volta, lo Stato Pontificio. Nel febbraio del 1797 Napoleone attraversò Recanati, a cavallo, scortato dal suo drappello di guardie che «tenevano i fucili in mano col cane alzato» ma, mentre tutti correvano a vederlo, il conte Monaldo, coerente e fedele al governo Pontificio, non si sporse nemmeno dal verone del suo palazzo «giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo».
Era il 29 giugno del 1798 quando, «dopo tre giorni interi di doglie», la contessa Adelaide diede alla luce il suo primogenito cui il marito impose i nomi di Giacomo, Taldegardo, Francesco Salesio, Saverio, Pietro. Un anno dopo nacque Carlo per il quale il poeta provò sempre un «amor di sogno» e l’anno seguente Paolina, la diletta «Pilla». Altri figli verranno, ma sono questi due che hanno vissuto la storia di Giacomo.
Giacomuccio, chiamato affettuosamente Buccio o Muccio dai fratelli, aveva un faccino con «un non so che di sospiroso e serio, che essendo senza nessuna affettazione di malinconia, le dava grazia» ed era «compiacente e lezioso, ma terribile nell’ira». I fratelli, infatti, lo chiamavano «Giacomo il prepotente» e Carlo ancora molti anni dopo ricordava i «pugni sonori» da lui ricevuti durante i giochi.
Quando la famiglia si spostava per un breve soggiorno nella campagna, appena un po’ fuori Recanati, nella tenuta di S. Leopardo, i ragazzi si scatenavano in giochi che riproducevano battaglie romane e duelli omerici, dandosi nomi storici. Era sempre Giacomo il primo, colui che saliva su una delle basse carriole che servivano a riporre i limoni e che, con la fantasia, diventavano carri da guerra per il trionfatore romano (che poi era lo stesso Giacomo). E mentre Carlo e Paolina, insieme ad altri ragazzetti, erano costretti a rappresentare schiavi e littori, e si difendevano come potevano rivolgendosi sarcasticamente all’eroe, questi, menando lo scudiscio, gridava:
«Olà, vili buffoni».
A S. Leopardo viveva pure la balia che Giacomo, spesso, andava a trovare. Felice, approfittava dell’occasione per giocare con la sua sorellina di latte e, sfidandola, le gridava con fare di superiorità maschile:
“Corri, corri fino a quell’albero, sennò ti prendo”.
Lei, ansimando, dopo un po’ si fermava. Era questo il momento che egli attendeva. Le chiedeva allora:
“Sei stanca?” e con un misto di soddisfazione e orgoglio quando lei rispondeva di sì, gridava: «si sa, sono io il più forte!»
E continuava a saltare e a correre «come un grillo» .
Monaldo guardava benevolo ai giochi dei figli e, da bravo padre, li seguiva personalmente facendosi così «compagno dei loro trastulli»; desiderando che essi crescessero robusti, aveva persino allestito nel giardino di casa degli attrezzi da ginnastica con «palle e manubri».
Pur infiammato per l’avventura e «assetato di gloria», Giacomo era delicatissimo nel sentire. Una sera che in casa Leopardi si trovavano riunite in conversazione molte persone di singolare bruttezza, il fanciullo sgomento disse piano al fratello e alla cugina Ippolita Mazzagalli:
«Non si sa ove riposar lo sguardo!» e si ritirò disgustato in una stanza buia «ruggendo come un piccolo leone», come d’altronde faceva quando si annoiava al sentire discorsi che esulavano dalla letteratura e dalla poesia.
Fin da piccolissimo Giacomino aveva una passione sfrenata per le favole, soprattutto per quelle che più avevano il carattere del meraviglioso, e seguiva ogni persona che gliene potesse raccontare qualcuna; lui stesso ne inventava e nelle mattine di festa, prima della Messa, ancora disteso a letto nella stanza che condivideva con Carlo, improvvisava le avventure di Filséro, l’eroe un po’ gradasso e ciarlatano (che poi era lo stesso Giacomo) di una storia i cui protagonisti ricordavano i caratteri di Monaldo, di Carlo e di altri personaggi che vivevano in casa.
Oltre ai Leopardi e alla servitù, infatti, vivevano nel palazzo altre persone, come il primo educatore di Monaldo, Don Giuseppe Torres gesuita «amenissimo, piacevole e condiscendente». Il conte lo considerava un amico e un consigliere ma lo ricordava pure come «l’assassino dei suoi studi» per i suoi metodi ripetitivi e noiosi. Egli giurò che, se avesse avuto figli, non sarebbero stati mai tormentati da un tipo di insegnamento così pedante. Invece si dimenticò presto di questi propositi e fu proprio il suo ex maestro ad essere scelto come primo precettore dei suoi ragazzi; così don Torres, insieme a don Vincenzo Diotallevi, al canonico Borne e al cappellano don Vincenzo Ferri, ricordato per la mansuetudine e la bruttezza del suo viso «con occhi di gatto, gran bocca e naso schiacciato», formò i ranghi religiosi e pedagogici della famiglia. Oltre a loro anche altri sacerdoti, profughi dalle Rivoluzioni che in quel tempo tormentavano l’Europa, furono generosamente accolti nel palazzo di Monaldo, come era d’uso in molte nobili famiglie italiane dell’epoca.
Bisogna ricordare, a questo proposito, che i conti Leopardi non erano affatto ricchi; infatti una serie di operazioni finanziarie sbagliate aveva definitivamente dissestato il patrimonio già gravemente compromesso. L’amministrazione venne affidata alla giovane Adelaide, poco più che ventenne, ma che rivelò un polso d’acciaio unito alla volontà ferrea di ridare lustro al casato. Ella non si perse d’animo, si rimboccò le maniche e cominciò a fare strettissime economie; vendette i suoi gioielli mantenendo solo l’anello nuziale e una modesta collana di coralli e si vestì con una semplice veste e scarponi alla contadina. Il decoro di casa Leopardi veniva comunque conservato all’esterno e così carrozza e cocchiere non mancarono mai e neppure cameriera e servitori, che venivano mantenuti e curati, in caso di malattia, come parenti.
L’apparenza era salva agli occhi dei nobili e dei recanatesi, ma le ristrettezze all’interno della famiglia erano tremende al punto che, alle volte, il buon padre Torres traeva da una «certa calzetta lunga, sottile, sdrucita, qualche piastra messicana» per aiutare l’economia familiare. In questo modo, pur così giovane, Adelaide rimise sì in sesto il patrimonio e ridiede lustro al casato ma ad un prezzo altissimo: l’inasprimento del suo carattere già naturalmente introverso e il pochissimo tempo dedicato ai figli cui concedeva come unica carezza il suo sguardo. Anche se il suo temperamento non era certo incline a quelle tenerezze e a quei gesti che sono propri di tutte le mamme, c’era in lei, però, qualcosa di particolarissimo, solo suo, che rivelava come li amasse pur senza manifestare alcun gesto esteriore di affetto materno, come ad esempio il voler tenere puntigliosamente, nella sua camera, una seggiolina sulla quale si erano seduti tutti i suoi figli o il voler curare personalmente i loro malanni senza permettere che nessun servitore se ne occupasse (cosa assai rara nelle nobili famiglie del tempo).
Ma l’aspetto più rilevante della sua personalità riguardava la sfera religiosa, vissuta in forma quasi maniacale: ella vedeva Dio non come un padre ma solo come un giudice severo e implacabile. Di conseguenza tutta la vita andava vissuta non con la gioia di essere suoi figli ma solo con il timore del castigo.
Adelaide, che la figlia definì come «ultrarigorista, un vero eccesso di perfezione cristiana» e che pare rispecchiarsi nel ritratto, lasciato da Giacomo, di una madre gelida e terribile, passò alla storia e fu vista dalla maggior parte dei biografi di Leopardi come un modello negativo che influì non poco sulla formazione dei suoi figli, in particolare su quella di Giacomo che ella chiamava, a volte, con il nomignolo di Mucciaccio.
A sua difesa però bisogna considerare le responsabilità di cui il destino l’aveva caricata subito dopo il matrimonio con Monaldo e soprattutto quel tipo di religiosità antecedente il Concilio Vaticano II troppe volte basata sulla paura del giudizio divino più che sull’amore.
La religione era talmente presente in casa Leopardi, pur se in modo distorto, che i ragazzi molto spesso si divertivano a giocare con «gli altarini» mentre la piccola Paolina, che assomigliava ad un piccolo abate perché portava i capelli corti e una stretta vesticciuola scura, aveva la funzione del celebrante e per questo veniva chiamata dai fratelli «Don Paolo». I cori che intonavano erano così acuti che Monaldo, nella biblioteca al piano di sotto non riusciva a studiare; prendeva allora una lunga canna che teneva pronta accanto allo scrittoio e picchiava con essa il soffitto più volte per farli smettere.
Quella biblioteca (ricca oggi di 20.000 volumi) di cui il conte Monaldo era orgoglioso, si era formata inizialmente secondo un criterio casuale e quantitativo; dall’età di tredici anni fino ai sedici egli aveva comprato libri alla rinfusa senza nemmeno capirne il valore, ed anche successivamente egli acquistò i volumi a peso, alle pubbliche aste di beni ecclesiastici messi all’incanto secondo quanto prevedevano le leggi napoleoniche che stabilivano la chiusura di svariati conventi. Accumulò gli innumerevoli volumi in una chiesetta sconsacrata in attesa di approntare le sale della biblioteca le cui finestre si affacciano sulla piazzetta, oggi chiamata, del Sabato del villaggio.
Al tempo dell’ infanzia e giovinezza di Giacomo la biblioteca contava circa 12.000 volumi e, a 14 anni nessuno gli era sconosciuto.
Giacomo, Carlo e Paolina avevano iniziato a studiare molto presto sedendo ad un unico tavolo sotto l’occhio vigile del padre che lavorava allo scrittoio vicino. In seguito quando furono più grandi, ad ognuno fu assegnato un tavolino; questi erano posti in fila uno dietro l’altro perché non vi fosse occasione di distrazione.
Nonostante queste precauzioni i tre fratelli trovavano il modo di farsi quegli scherzi che tutti i ragazzi di tutti i tempi si sono fatti e continuano a farsi; così non era raro vedere nella severa stanza qualche “oggetto volante non identificato”, un bianco bigliettino che uno dei tre cercava di recapitare agli altri.
Ma neppure il severo precettore, Don Sanchini che, nel 1807, aveva preso il posto del buon padre Torres nell’educazione dei ragazzi Leopardi, era immune dagli scherzi. Egli si ritrovava spesso sul tavolo certi sonetti, con l’indirizzo: «tavolino», che Giacomo gli inviava scrivendogli ad esempio «Mio Signore più non tollera/La mia musa d’indugiare,/ Che la vostra fiera collera/Non vuol’ella provocare» mentre, alla fine, anziché firmarsi, egli sfidava il buon prete: «Indovini di chi sono questi versi».
Al termine di ciascun anno di studi i ragazzi discutevano un saggio finale inerente ai programmi svolti, dapprima solamente davanti ai parenti, in seguito, con una certa pompa, davanti ad un dotto pubblico composto da prelati e nobili studiosi che interrogavano a piacimento lo studente tenuto a rispondere in lingua latina. L’esame preoccupava soprattutto Carlo che si premuniva accordandosi per eventuali suggerimenti con Giacomo. Questi, sempre disponibile, quando vedeva il fratello in difficoltà, con abili movimenti delle dita lo aiutava nelle risposte.
Il padre era naturalmente orgoglioso della sua prole e procurò che lo studio fosse quotidiano e senza interruzioni di vacanze, eccetto quelle per le festività; inoltre tenne lontano i figli da qualsiasi divertimento «teatro, pubblici spettacoli e dalla compagnia di altri giovani» per averli «affezionati alla casa e non distratti da desiderii e pensieri che potessero alienarli dalla applicazione». In questo modo i figli del conte Monaldo crebbero con «l’idea che lo studio sia la occupazione connaturale dell’uomo» e non vi mostrarono la benché minima avversione.
Giacomo dimostrò ben presto il suo ingegno: a dodici anni (conosceva e padroneggiava già benissimo il latino) studiando la grammatica e il dizionario si rese padrone del francese e dello spagnolo, mentre a quindici apprese il greco, sempre da solo. Gli fu utile, a questo scopo, la Bibbia poliglotta che presentava la traduzione in ebraico, aramaico, siriano, samaritano, arabo, etiopico, greco e latino; la stessa opera monumentale gli servì anche successivamente quando a sedici anni intraprese lo studio dell’ebraico. Trascrisse, a questo scopo, tutto l’alfabeto in un piccolo foglietto e se ne servì per i suoi esercizi.
Nel 1812 il buon precettore Don Sanchini si trovò disoccupato per quanto riguardava Giacomo. L’allievo aveva brillantemente e ampiamente superato il maestro e il bravo prete dovette riconoscere che «non aveva più altro da insegnargli».
Giacomo ormai studiava da solo nella biblioteca; avvicinava il suo tavolino alla finestra che si affacciava sulla piazzetta e, spesso, guardava il fattivo mondo contadino di Recanati che si affaccendava nelle incombenze quotidiane.
In compagnia di Carlo, un quadretto ben più attraente si presentava, a volte, agli occhi di Giacomino, talmente gradevole da fargli dimenticare le «sudate carte» e i «leggiadri studi». Nella piccola casa del cocchiere che sorgeva sull’altro lato della piazzetta, una ragazza della loro età sbrigava le faccende domestiche gioiosamente cantando con voce argentina. Era Teresa che attirava l’attenzione dei due adolescenti relegati in casa, prigionieri del proprio rango, quella Teresa che diventerà la famosa Silvia di una delle liriche più famose di Giacomo Leopardi. C’era anche Maria Belardinelli che abitava nelle vicinanze del palazzo, anch’essa umile popolana, tessitrice gracile e bionda che non ardiva sollevare gli occhi sui giovani signori. Anche questo fu un «amore lontano e prigioniero» e sarà lei la Nerina delle Ricordanze.
Qualche ragazza un po’ più intraprendente però c’era, come quella Brini che si vestiva di rosso con un gran fazzoletto in testa e camminava frettolosamente pur fermandosi qua e là «instabile come un’ape». La giovinetta “osava” salutare sempre il giovane conte quando l’incontrava, più volte nello stesso giorno. Anche se le convenzioni sociali impedivano a lui di soffermarsi a parlarle, quell’abito rosso ritornò nei suoi sogni privi di barriere dove si vedeva, inchinato, mentre le baciava la mano.
I giochi con i fratelli e quelli serali con i familiari con la tombola e gli scacchi non bastano a riempire il cuore del sensibilissimo Giacomo; nel suo pensiero egli si costruisce un giardino segreto, un giardino che, nella realtà, è rappresentato da quel colle che sorge accanto al «paterno ostello»: il monte Tabor. Questo monte che porta un nome evangelico è ora chiamato “Colle dell’infinito” per ricordare la sublimità dei versi che scaturirono un giorno dal cuore e dall’arte di Giacomo, che si rifugiava in quel luogo da dove si possono vedere i «monti azzurri» (Sibillini) e il lieve luccicore del mare nelle giornate serene. Luogo privilegiato questo, per sognare ed immaginare….
L’erudizione di Giacomo divenne sempre più vasta e, a diciassette anni, egli scrive una voluminosa Storia dell’Astronomia. Le sue prime composizioni però risalgono al 1809 e sono sonetti, canzoni, favole in versi e altri componimenti poetici in italiano e in latino. A tredici anni compone la sua prima tragedia: La virtù indiana, mentre l’anno successivo la seconda: Pompeo in Egitto. Ambedue verranno offerte al padre in occasione del Natale e saranno rappresentate, dagli stessi fratelli, in una sala del palazzo adibita a tale scopo e perciò dotata di un piccolo rialzo nel pavimento che funge da palcoscenico.
Sono gli anni più belli per Giacomo, che più tardi ricorderà: «La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo è quando vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore, […]. Questo divino stato l’ho provato io di 16 o 17 anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz’altri disturbi e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire».
Molto presto Recanati, culturalmente grigia, comincia a stargli stretta e così egli sogna di poterla lasciare per conoscere luoghi più stimolanti e persone con le quali dividere i suoi interessi letterari.
Il suo fisico irrimediabilmente rovinato dalle tante ore di studio «matto e disperatissimo» contrastava orrendamente con la delicatezza del suo cuore e la sua acuta sensibilità, colpite dagli insulti che il volgo recanatese gli rivolgeva chiamandolo «saccentuzzo, filosofo [in tono dispregiativo], eremita» o, peggio, «presuntuoso gobbaccio» quando, alla pubblicazione delle sue due prime Canzoni, non se ne compresero i versi.
Le cose peggiorarono quando, a diciannove anni, iniziò ad uscire da solo. Con gli occhi già rovinati dall’affaticamento, un giorno d’inverno Giacomo, immerso nei suoi pensieri, si incamminava verso il “suo” monte Tabor. Un colpo di vento dispettoso gli fece, d’improvviso, volare via il cappello. Egli se ne accorse, dopo un po’, e, rinunciando a rincorrerlo, avvolgendosi il mantello intorno alla testa per ripararsi dal freddo se ne ritornò in paese. La gente, nel vederlo così imbacuccato, lo derise lanciandogli epiteti, mentre i monelli l’accompagnarono fino all’uscio del palazzo facendo un chiasso indecoroso. Egli fece finta di niente ma, una volta, oltrepassato il portone, mormorò con la voce che tradiva l’emozione del suo cuore: «zotici, vili, vili!». Ed intanto pregustava, in cuor suo, il momento in cui se ne sarebbe andato lontano, via, via verso la libertà.
Così quando usciva aveva preso l’abitudine di camminare rasente le case mentre i ragazzacci gli gridavano: «Il gobbo di Monte Morello!». Anche se Giacomo per farli stare buoni distribuiva loro qualche moneta, loro continuavano ad ingiuriarlo:
«Gobbus esto,
fammi un canestro…»
Ma più vigliacca di tutte le angherie fu la frustata del conte Domenico Galamini, parente dei Leopardi. Pare che costui un giorno stesse pavoneggiandosi, atletico e sciocco com’era, nella strada principale di Recanati, il corso Persiani, con uno scudiscio tra le mani. Giacomo che si trovava a passare, assistendo alla scena, disse a bassa voce: «Imbecille».
Il conte, inferocito come tutti i vanitosi, nel vedere scoperta la sua miseria e vanagloria, lasciò cadere il suo scudiscio in piena faccia a Giacomo. Quel gesto rappresenta, in modo eloquente, quello che il destino gli andava riservando.
Perché, ricordiamo, Giacomo Leopardi non fu capito dai suoi contemporanei, non ottenne la gloria che pur meritava, non fu amato da alcuna donna e la natura non fu certo generosa con il suo fisico. Si è rifatto ampiamente dopo la sua morte. Lo dimostra il fatto che i saggi sulla sua Opera non si contano, ma soprattutto la risposta che danno tanti adolescenti alla domanda: “Chi è il tuo poeta preferito?” e che è sempre: “Giacomo Leopardi”. Chissà, forse sarà la magia dei suoi versi o il fascino della sua personalità? Voi che dite?
Il seguito di questa storia, ve lo insegnano a scuola cari ragazzi. Io ho voluto raccontarvi i primi anni di vita di quell’uomo che fu Giacomo Leopardi, poeta sì e filosofo anche, ma prima di tutto UOMO perché
“Né il titolo di filosofo né verun altro simile è tale che l’uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L’unico titolo conveniente all’uomo, e del quale egli s’avrebbe a pregiare si è quello di uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo e con questa condizione il nome d’uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch’egli è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta” (Zib. 2493 del 24.6.1822) .
[pubblicato in: “Il Messaggero dei ragazzi”, ediz. Il Messaggero, Padova 2002]
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