nota 5stelle.
Si sta consumando in questi giorni un penoso teatrino a caccia di poltrone. Questo è quello che emerge dalle continue diatribe riportate sulle cronache locali per le prossime candidature al consiglio provinciale di Macerata.
Ma come, potrà dire qualcuno, le province non erano state abolite dal governo Renzi? Risposta: NO!.
Restano in vigore, anche se depotenziate di molte funzioni e compiti. L’unica cosa che è stata realmente cancellata è la possibilità dei cittadini di votare ed eleggere coloro che andranno ad occupare le poltrone della Provincia. Un po’ quello che accadrebbe con la riforma del Senato, voluta sempre da Renzi, che NON abolisce il Senato, ma lo riduce solo nei numeri e sostituisce la volontà elettorale con la nomina dei suoi componenti da parte delle forze politiche. Ecco un bel motivo per votare NO al prossimo referendum, ad una riforma che illude i cittadini, ma non risolve i problemi del bicameralismo: una riforma antidemocratica che di fatto non elimina il Senato, ma toglie solo ai cittadini il diritto di votarlo.
Questo affannarsi sulle province è strano, visto che le cariche non sono più remunerate, è però probabile che i molti privilegi connessi a certe posizioni di potere rimangano ancora per anni e dunque molti jurassici della politica smaniano per candidarsi e sedersi in provincia. Il M5S, che è stato sempre favorevole all’ABOLIZIONE TOTALE delle province, non parteciperà a questa ennesima farsa: i consiglieri comunali del M5S non parteciperanno a queste elezioni e rimarcano, consapevoli e rispettosi dell’impegno assunto, che un doppio incarico è ancora una volta un pessimo esempio di essere al servizio della collettività. Lasciamo la lotta per le poltrone a coloro che sono soliti promettere e non mantenere.
I consiglieri comunali del MoVimento 5 Stelle di
Recanati Susanna Ortolani
Porto Recanati Sauro Pigini
Potenza Picena Franco Senigagliesi, Danny Palmieri
San Severino M. Mauro Bompadre
Tolentino Gianni Mercorelli
Civitanova M. Mirella Emiliozzi, Pier Paolo Pucci.
Matelica Leonardo Mori
Approfondimento
Verità e bugie sull’abolizione delle province
di Nicola Salerno
Ripercorriamo in estrema sintesi i punti principali del Ddl:
– Lì dove esisteranno Città metropolitane (e non è ancora defito quante e quali), queste dovrebbero inglobare la loro Provincia e rilevarne le funzioni. La piccola scala che ingloba la grande fa presumere che il passaggio possa non svolgersi in maniera così fluida. Potrebbero risultarne indebolite le funzioni di governo delle (ex)Province, dei Comuni che si sono storicamente relazionati con la loro Provincia, oltrechè delle Città metropolitane. Città grandi, come Roma, Napoli, Reggio Calabria, sarebbero coinvolte in un cambiamento istituzionale improvviso proprio mentre dovrebbero focalizzare energie e competenze sulla risoluzione di gravi squilibri di bilancio. Se alla base dell’introduzione dello status di Città metropolitana c’era l’idea di assegnare potestà straordinarie per fronteggiare realtà urbane ampie, multiformi e complesse, adesso è concreto il rischio che sovrapponendo la Città alla Provincia si faccia un passo indietro, e si diluiscano quei poteri e quelle energie che si volevano focalizzare. Si deve a tutti i costi evitare che si apra una lotta “fratricida” tra interessi delle Metropoli e interessi dei territori;
− Le altre Province (quelle senza città metropolitana) dovrebbero rimanere vive ma “depotenziate”, per occuparsi solo delle funzioni fondamentali. Anche qui, passare dal dire al fare è tutt’altro che ovvio. Infatti, se le macrocategorie sono chiare, distinguere nella pratica dove finisce “il fondamentale” potrebbe richiedere tempo, a fronte anche di processi produttivi e di governance che sinora hanno funzionato in maniera congiunta (facendo anche capo ai medesimi uffici e alle medesime professionalità). C’è poi da aggiungere che appare irrealistico che le funzioni non fondamentali possano passare attarverso fasi di discontinuità, anche annunciate come solo temporanee, disinteressandosi totalmente di quello che accade (ci sono cittadini fruitori, ci sono controparti contrattuali, etc.);
− Le funzioni “non fondamentali” dovrebbero (è questa l’interpretazione prevalente del testo) passare ai Comuni in ossequio al principio di sussidiarietà. Ma il singolo Comune sarà davvero in grado di assumere responsabilità con effetti (diretti e indiretti) che travalicano il proprio bacino geografico di competenza? Prima ancora che sostenibile sul piano economico, siamo sicuri che tutto ciò manterrebbe una logica di rappresentanza politica? Risposte tutt’altro che ovvie anche queste. Non a caso su questo punto il Ddl si muove cauto e lascia aperta la via a trasferimenti di funzioni alle Regioni o, in alternativa, alla creazione di “consorzi” o “coordinamenti” tra Comuni. Per le Regioni potrebbe presentarsi il problema opposto a quello dei Comuni: livello troppo alto e dimensioni troppo grandi, con necessità di delega sussidiaria per articolare le scelte sul territorio. Le aggregazioni dei Comuni, dal canto loro, altro non sarebbero che Province rifondate, che potrebbero sì esser migliori di quelle attuali, ma che di sicuro hanno bisogno dei tempi dell’analisi economica (costi/benefici, ottimizzazione di scala, etc.) e dell’interazione politica e istituzionale.
C’è da domandarsi se non si stiano gravemente sottovalutando i rischi di questi cambiamenti. La promessa di ritornare in tempi stretti sul tema con una riforma costituzionale vera e propria non ci mette per sè al riparo. Invece che essere il viatico alla riforma costituzionale (come si legge), questi cambiamenti potrebbero avere l’effetto opposto: aumentare entropia, creare nuove conflittualità, trasmettere ai cittadini la sensazione di un disorientamento istituzionale, confondere e disconnetere le basi su cui la nuova implacatura, quando la si deciderà, dovrà essere montata.
Non dimentichiamoci che l’Italia è ancora immersa in un processo di ridisegno federalista aperto da oltre quidici anni e costellato di ripensamenti sia di filosofia che di strumenti. Dovremmo aver imparato a nostre spese che mettere mano alla struttura del Paese è una cosa troppo importante per esser fatta in fretta, in attesa di maturare idee migliori e, soprattutto, in assenza di una visione della nuova fisiologia-Paese.
Sì, perchè è questo che emerge con forza dal Ddl e dal dibattito che lo sta accompagnando in questi giorni: che non si sia ancora scelto per davvero “chi farà che cosa”, e che a comandare siano obiettivi di breve periodo, come il poter mostrare attivismo riformatore o il poter portare a casa risparmi annui di modesta entità (sic dixit la Corte dei Conti). Risparmi di modesta entità, per un periodo breve prima della modifica costituzionale vera e propria, non è detto che valgano i rischi che il Ddl apre.
Inoltre, al di là di tutto, c’è una valutazione ancora più generale da fare, talmente grande che stupisce sia rimasta totalmente elusa. Siamo davvero sicuri che convenga dismettere le Province e non le Regioni? I dubbi sul testo del Ddl possono esser letti anche come dubbi su quale sia il livello ottimale di governo intermedio tra Stato e Comuni.
Mediamente l’80% del bilancio delle Regioni riguarda il Sistema Sanitario, con risorse che le stesse Regioni allocano alle Asl e da queste affluiscono alle unità operative sul territorio (le aziende ospedaliere e i fornitori di prestazioni pubblici e accreditati/convenzionati). Esigenze di razionalizzazione, abbattimento dei costi fissi, ottenimento di maggior peso contratuale nel procurement, coerenza di programmazione all’interno di bacini territoriali integrati, etc., hanno già convinto molte realtà ad accorpare più Asl in Aree Vaste che assomigliano molto a confini provinciali. Pronvince e Comuni si fanno già carico (risorse permettendo) di prestazioni sociali e socio-sanitarie per le quali è chiara da tempo la necessità del raccordo con le prestazioni erogate dal Sistema Sanitario, all’interno di una regìa unificata che punti su prevenzione, deospedalizzazione, territorializzazione con servizi e prestazioni adattati il più possibile ai bisogni dei cittadini. Se la sanità passasse alle Province si accorcerebbe la filiera di governo.
Il rimanente 20% del bilancio delle Regioni riguarda soprattutto le politiche per il territorio e l’ambiente e per la promozione delle attività economiche. Funzioni che potrebbero esser passate alle Province che, tranne qualche caso, hanno già una dimensione di scala adatta ad occuparsene. Anzi, probabilmente sono nel “giusto mezzo” tra l’Italia dei Comuni e il governo nazionale.
Il Consiglio Provinciale potrebbe esser formato da selezioni dei consiglieri dei Comuni appartenenti alla Provincia. E selezioni dei consiglieri provinciali – anche variabili a seconda dei temi – potrebbero riunirsi nel Senato federale per discutere e trovare soluzioni su questioni di coordinamento tra territori. La base degli eletti sarebbe sempre quella a livello comunale, con assunzione di incarichi di rappresentanza e governo a livelli ascendenti (Provincia e Senato). Razionalizzazione, trasparenza, e anche efficacia del processo di governo, che potrebbe partire dallo stimolo sul territorio sino ad arrivare, attraverso il confronto con i livelli successivi, a tramutarsi in agenda.
È una “visione” abbozzata e anche opinabile, che necessiterebbe poi di un sistema elettorale coerente con le sue caratteristiche e anche di nuovi strumenti di governo (solo per fare un esempio: un bilancio consolidato di Provincia che, per aggregazione tra Province vada poi a formare il bilancio del Paese). Dal Ddl “Delrio” non emerge una visione e, quello che è più grave, navighiamo senza visione da troppo tempo e il “Delrio” rischia di essere solo l’atto più recente.
Siamo sicuri che non convegna potenziare le Province e mandare in soffitta le Regioni? Tra l’altro il Trentino Alto Adige è già fondato su due Province e la Valle d’Aosta è una Regione-Provincia. Sulle altre 18 ragioniamoci bene. In fondo, non mancano altri fronti di azione e a questa questione si può e si deve dare il rilevo che merita e necessita.
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