Cacciari: in papa Francesco povertà ma non pauperismo e grande apertura al mondo
Come cambia la Chiesa con l’elezione del primo papa gesuita e il primo proveniente dal continente americano? Lo abbiamo chiesto in questa ampia intervista al filosofo Massimo Cacciari, a Firenze per un incontro sull’agostinismo politico.
28/03/2013 di Antonio Lovascio
Come sarà la Chiesa di Papa Bergoglio, che invita i cristiani – soprattutto i giovani – «a non essere tristi», «a non farsi rubare la speranza»? Con quali predicazioni e linee pastorali saprà convertire un mondo sempre più assuefatto all’indifferenza? «Continuando a pregare perché sia dato il tempo, anzitutto. Ma anche perseverando nella sua azione pedagogica nei confronti di quei figli che ancora non sanno di essere figli. Le conversioni immediate sono sempre possibili, però la missione della Chiesa appartiene principalmente all’ambito dell’educazione. Dell’attesa, quindi. E della pazienza». Questa, in sintesi, è l’analisi del filosofo Massimo Cacciari, uno dei maggiori studiosi del Cristianesimo.
Lo incontriamo nel convento fiorentino di Santo Spirito: ha appena finito di parlare di Sant’Agostino. E, riprendendo con monsignor Giovanni Scanavino, Marco Vannini e Maria Concetta Guida una vecchia idea di padre Gino Ciolini (morto otto anni fa, il 14 marzo 2005) ha promesso il suo contributo intellettuale per creare a Firenze, nel 2014, un «Laboratorio di teologia politica».
Professor Cacciari, molti osservatori hanno visto nell’elezione di Papa Francesco un segno di svolta epocale per la Chiesa. Lo è anche per lei?
«I segni più significativi sono quelli del nome che Bergoglio si è dato ed il fatto che sia della famiglia dei Gesuiti. Vuol dire l’indicazione di una volontà di profonda unione spirituale all’interno della Chiesa. I simboli teologici che questo fatto rappresenta sono evidenti: la scelta da parte della Chiesa di una paupertas francescana, che non ha nulla a che vedere con quel pauperismo che alcuni commentatori hanno inteso e confondono. La povertà di Francesco significa fare un vuoto in sé per avere il luogo dove accogliere lo spirito. San Francesco d’Assisi uscì dal recinto della Chiesa ed andò incontro al mondo. Sapeva che Dio è amore e che l’amore deve venire prima del giudizio. Certo non tradiva la Chiesa, non tradiva ciò in cui credeva. Conosceva bene il nemico della Chiesa, ma cercava l’abbraccio prima di altro».
Papa Bergoglio non manca di sottolineare ogni giorno il suo ruolo di «vescovo di Roma»…
«Questo ha un valore ecumenico molto forte. Chiamarsi “vescovo di Roma” significa voler tornare al momento in cui davvero Roma, in quanto sede di Pietro e Paolo, era luogo del martirio dei fondatori del Cristianesimo. Il Papa così afferma la centralità di Roma nella cristianità dicendo: sono anch’io vescovo, come ogni altro vescovo. E questa affermazione sottolinea una forte collegialità ecclesiale e allo stesso tempo un’apertura alle altre confessioni religiose. L’Ortodossia, ad esempio, riconosce la centralità di Roma, ma non quella di un Papa monarca. Quindi ora si tratterà di capire se, con questo gesto del nuovo Pontefice, evolveranno – rispetto alle difficoltà incontrate da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – i rapporti con il Patriarcato di Mosca, il più importante tra le Chiese ortodosse».
A quale dei suoi predecessori più si avvicina Papa Francesco? E al di là di questa svolta quali sono i tratti di continuità?
«Questo è presto per dirlo. I simboli con i quali Papa Francesco ha iniziato il suo Pontificato sono segnali di grande novità e non lo avvicinano praticamente a nessuno. Si tratterà, poi, di vedere concretamente gli aspetti di continuità e discontinuità sul piano della dottrina; o meglio: sugli aspetti etici della dottrina. Quello che farà penso che, per ora, nessuno possa prevederlo».
In un’intervista ha detto che il nuovo Pontefice le ricorda il cardinale Martini. Perché?
«Mi auguro proprio che assomigli al cardinale Martini, un grande innovatore nella storia della Chiesa, che ha preso iniziative straordinarie come la “Casa dei non credenti”, sulla cui scia ora prosegue il cardinale Gianfranco Ravasi con il “Cortile dei gentili”, momenti di grande dialogo con la Cultura contemporanea, con i laici. Poiché si è chiamato Francesco, penso che continuerà in questa direzione. Francesco, il santo del rapporto, del colloquio, del perdono prima del giudizio, della massima apertura non solo verso le altre fedi, con il suo viaggio non da crociato in Terra Santa. Al di là del fatto che come l’ex arcivescovo di Milano è un gesuita, vedo già una forte componente martiniana nella sensibilità spirituale di Papa Bergoglio».
Con un Pastore latino-americano alla guida della Chiesa, quale sarà il ruolo dell’Europa?
«Questo è un nodo molto problematico. Salvo tutto ciò che si è detto sul valore di questo inizio di Pontificato, rimane il fatto che il cuore della cristianità finora è stato qui, sulla spinta anche di Wojtyla e Ratzinger, ma ora non lo è più. Il prossimo Conclave vedrà sicuramente una presenza minoritaria di cardinali europei e passeranno degli anni prima di vedere eletto un Papa del nostro Continente o addirittura un italiano. Di per sé questo non vuol dire niente, perché la Chiesa cattolica è universale; però vuol dire qualcosa perché la storia non è acqua. Questo spostamento d’asse certamente non sarà ininfluente. La Chiesa non sarà più quella di prima».
E la Chiesa italiana cosa dovrà fare?
«La Chiesa italiana dovrà ritrovare la sua unità, perché prima della rinuncia e del gesto di Benedetto XVI ha vissuto una stagione non certo felice e quindi dovrà riprendersi con un ruolo molto più attivo, dinamico ed evangelizzante della Conferenza episcopale italiana».
Inizia un’epoca diversa anche nel rapporto tra Chiesa e politica?
«È presto per dirlo. Dipenderà molto da come Papa Francesco affronterà i grandi temi dottrinali che più interferiscono con l’agenda politica. Sulle questioni sociali ed economiche sicuramente ci saranno convergenze o addirittura piena sintonia; invece su alcune questioni morali (possiamo immaginare quali) inevitabilmente ci sarà un conflitto con la politica».
Lei è uno studioso di Sant’Agostino. Che insegnamento possiamo ricavare oggi dalla sua teologia politica?
«Più andiamo avanti e più mi convinco che non c’è altro modo per cercare di comprendere il nostro tempo. Due sono gli insegnamenti. Il primo è la desacralizzazione di ogni agire politico: come diceva Simone Weil, la sua legittimità consiste nel contenere il Male, nel frenare la nostra natura vulnerata. Nessuna missione salvifica potrà porre termine alla nostra “civica confusionis”. Il secondo è un’idea del potere politico alla luce del concetto di rappresentanza, costituiva della nostra civiltà occidentale. Ciò apre problemi infiniti, anche per le contraddizioni che troviamo. Che la nostra sia un’epoca apocalittica mi pare indubbio. Viviamo in una dimensione globale che neppure l’Impero romano aveva conosciuto. E questo comporta una continua omologazione dei princìpi, dei comportamenti, dell’etica, come ho cercato di spiegare nel mio ultimo libro “Il potere che frena”, edito da Adelphi».
Ha avuto una lunga amicizia con padre Gino Ciolini, che più volte l’ha invitata ai Convegni di Santo Spirito. Che risposte avete dato insieme agli interrogativi del nostro tempo?
«Con padre Ciolini non si davano risposte, era un “pellegrino interrogante”. Abbiamo affrontato molti dei temi che abbiamo appena discusso, di una Chiesa accogliente e dialogante, con un profondo spirito martiniano. Oggi sono certo che saluterebbe con grande gioia i primi passi di Papa Bergoglio ed il nome che si è dato, pieno di buoni auspici. Come sarebbe felice se il prossimo anno venisse realizzata una sua vecchia idea: quella di creare nel convento agostiniano di Firenze un Laboratorio di teologia politica, per elaborare i problemi nel nostro tempo sulla scia dei Convegni quattrocenteschi di Santo Spirito, che si svolgevano proprio in questa sala, che la prima volta suscitò in me un grande timore. Santo Spirito è sempre stato per me la creatura più perfetta, la vera summa dell’Umanesimo italiano ed europeo, e considerando tutte le arti, non solo l’architettura. E dentro c’era questo frate intelligente, preparatissimo e insieme umilissimo, con un vivo senso dell’attualità, capace di promuovere – sviluppando e proiettando ai nostri giorni il pensiero agostiniano – una riflessione alta su temi come il dialogo ecumenico, l’incontro delle fedi, le diverse mistiche, la speranza, ma in modo mai accademico, ispirandosi sempre al senso cristiano del fare».
Toscana Oggi
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