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Nostalgia della disciplina Storia di tabelline, di poesie imparate a memoria, e della nostra ignoranza

da Raimondo Giustozzi

Se impari i nomi delle influencer poi nel tuo cervello non resta spazio per seguire il consiglio di Calvino, né per gridare come Richard Burton i versi di Shakespeare tutti d’un fiato

 

Questa non è la storia di che cos’era e che cos’è l’amore, di che cos’era e che cos’è l’ambizione, di che cos’era e che cos’è la morale, di che cos’era e che cos’è la genitorialità, di che cos’era e che cos’è la disciplina – oddio, forse di quest’ultima cosa un po’ sì.

Questa è la storia di me che non so niente, ma niente di niente, non so neanche le cose che credevo di sapere, un fidanzato di quand’ero giovane diceva che io camminavo tranquilla, sembrava tutto sotto controllo, e poi a un certo punto si apriva una voragine di lacuna e ci precipitavo dentro, e più invecchio più spesso vorrei chiamarlo e dirgli quanto aveva ragione, ma non lo faccio perché ho paura che risponda «Guia chi?».

Questa è la storia di noi, noi della mia età, che a volte non sappiamo niente di niente, con un’amica ogni tanto rievochiamo quella conoscente che una volta ci disse che i tre gradi di giudizio funzionavano a spareggio, non importa se la Cassazione ti dà ragione, se in due gradi su tre ti danno torto hai comunque perso, ed era una tizia piena di dottorati e fu quel giorno di molti anni fa che smettemmo di credere nell’accademia (ma pure nelle ore di educazione civica alle scuole medie).

Questa è la storia della mia convinzione che esistiamo noi di prima; noi che però, pure quando non sappiamo i gradi di giudizio, pure quando scopriamo che pensavamo di sapere tutto di Richard Burton e invece non sapevamo le cose davvero importanti, pure coi nostri precipitevolissimevolmente dentro voragini di lacune, noi adulti che però due cose le sappiamo sempre, due cose che poi sono la stessa cosa.

C’è un’intervista che fecero a Italo Calvino nel 1981, ogni tanto qualcuno la tira fuori perché prima che le immagini fossero troppissime erano poche e quindi preziose, e le apparizioni televisive dei giganti del Novecento chi è un po’ attento le ha viste tutte. A un certo punto gli chiedono tre suggerimenti per il futuro, e uno dei tre è: imparate le poesie a memoria.

È un suggerimento buffo perché è il 1981, è quando siamo andati a scuola noialtri che certo che imparavamo le poesie a memoria, era ovvio, era scontato, non ci sembrava possibile fare altro a scuola: mandare a memoria le poesie e le tabelline.

C’è un film che non so se uscirà mai in Italia, si chiama “Mr Burton”, ed è un film su un tizio del quale non sapevo nientissimo, perché so tutto del Burton quarantenne che stava con Liz Taylor, quello i cui diari sono uno di quei libri che apro in un punto a caso quando voglio trovare qualcosa di intelligente che m’illumini la giornata (quelli, o le lettere di Hemingway), ma del Jenkins scolaro che rinuncia al cognome del padre minatore – che lo vende per cinquanta sterline – per farsi adottare dal professor Burton che gli ha dato da imparare a memoria per punizione il prologo dell’“Enrico V”, e mica è stato ’sto gran castigo, «I bloody loved it», dei versi a memoria che ti cambiano la vita abbastanza da fare di te Richard Burton, di quella gioventù bramosissima e faticosissima non sapevo niente.

Però qualche giorno prima di vedere il film mi era comparso sui social il video di una tizia che si accende la telecamera del telefono in faccia, una di quelle tizie di cui cerco di non occuparmi perché tra dieci anni non ci ricorderemo chi fosse, e io sono convinta che sia necessaria un’igiene dell’intelletto, se impari i nomi delle influencer poi nel tuo cervello non resta spazio non dico per il prologo dell’“Enrico V”, ma neanche per quella donzelletta che, dai, quella, cos’è che faceva pure in sul calar del sole?

E insomma in questo video rispondeva a qualcuno che da casa le chiedeva una tabellina, lei proponeva di dire quella del sei, e poi non la sapeva, diceva «sei per quattro venti», e io ho passato ore a chiamare tutti i miei coetanei, quelli coi figli, quelli con gli allievi, e a dire scusate ma io non è che so otto per otto sessantaquattro perché ho una mente matematica, io lo so perché le tabelline si imparavano a memoria, come le poesie, che sempre questione di memoria e di scansione numerica sono, questi derelitti che state crescendo non imparano più le tabelline a memoria?

È evidente che Calvino era Calvino anche perché vedeva il futuro e capiva dove saremmo finiti, in una scuola che mi dicono non faccia più studiare le cose a memoria un po’ perché le ore scolastiche se le mangiano tutte le puttanate di sensibilizzazione a un po’ tutto, dall’ecologia ai sentimenti, e non riesci a trovare il tempo di fargli imparare l’ortografia figurati le poesie, e un po’ perché in una classe hai tanti di quelli esentati da tutto ciò che va mandato a memoria perché qualche psicologo che deve pur guadagnarsi da vivere ha certificato qualche tratto speciale, che alla fine no, gli umani che sono piccoli oggi non sapranno mai a memoria né Shakespeare né Dante né che i quarantaquattro gatti erano in fila per sei col resto di due.

A un certo punto di “Mr Burton”, Richard Jenkins decide che vuole fare l’attore, e Philip Burton prende sul serio la sua ambizione come si faceva quando per realizzarla era necessario il talento, e inizia a cercare di raddrizzargli quella schifezza di dizione gallese. Poi lo porta nei campi e gli dice che deve restare lì a urlare, solo nella notte, finché non impara a usare il diaframma, «Nessuno può recitare Shakespeare finché non sa dire in un solo respiro i primi sei versi del primo Salmo». Allora pensavano che il professor Burton fosse un pervertito che voleva ingropparsi il giovane Richard (lo pensa anche il padre, che comunque per cinquanta sterline l’uno gli cederebbe volentieri tutta la discendenza, «ne ho altri dieci»); oggi lo denuncerebbero per maltrattamenti di minore: come sarebbe, il diaframma e la dizione e le fatiche? Come sarebbe, pretendi che si sbatta per diventare un attore di successo?

Sono andata a leggermi i primi sei versi del primo Salmo (ho fatto le scuole cattoliche invano), fanno così: «Beato l’uomo che non cammina nel consiglio degli empi, non si ferma nella via dei peccatori e non si siede in compagnia degli schernitori, ma il cui diletto è nella legge dell’Eterno, e sulla sua legge medita giorno e notte. Egli sarà come un albero piantato lungo i rivi d’acqua, che dà il suo frutto nella sua stagione e le cui foglie non appassiscono; e tutto quello che fa prospererà. Non così sono gli empi; ma come pula che il vento disperde. Perciò gli empi non reggeranno nel giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti. Poiché l’Eterno conosce la via dei giusti, ma la via degli empi porta alla rovina». In un solo respiro.

In quella stessa intervista, Calvino diceva «Sono un po’ diffidente sul fatto della creatività, dato come fine dell’educazione, come principio primo, ogni lavoro dev’essere creativo: no, il lavoro dev’essere esatto, metodico, fatto con certe regole».

Undici anni fa chiesero a Lorne Michaels, il capo del “Saturday Night Live”, se il programma aveva mai sofferto delle costrizioni della tv generalista. Disse di no, perché i vincoli fanno bene alla creatività: «Non puoi scrivere un sonetto che non sia di quattordici versi: se non è di quattordici versi, non è un sonetto».

Sono undici anni che ci penso, e adesso è arrivata quella tizia famosa per essere ignorante, e quella tizia non sa di cosa sia multiplo quattordici, e Google dice che è nata nel 1979, quindi ha fatto le scuole nello stesso secolo mio, e di Richard Burton, e di Lorne Michaels, e di Italo Calvino, e quindi no, questa non è la storia di quando abbia cominciato ad andar tutto in rovina, perché no, anche questa volta io di questo declino non ho trovato il bandolo, bandolo che in questa matassa s’è nascosto così bene che con sforzo minore avrebbe potuto mandare a memoria tutto Leopardi.

 

Linkiesta, L’avvelenata, 16 aprile 2025,

di Guia Soncinipriscilla-du-preez-qyn-wwcpfi-unsplash-1024x682

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