
Fonte internet
di Michele Farina (Corriere.it)
«A man carries the body of a child at the hospital morgue following Israeli army airstrikes in Khan Younis, southern Gaza Strip, Tuesday, March 18, 2025 (AP Photo/Mohammad Jahjou). Questa è la didascalia arrivata oggi nel «rullo» delle agenzie a corredo di una serie di foto. Mohammad Jahjou è entrato questa mattina nell’obitorio dell’ospedale di Khan Younis, nella Striscia di Gaza. C’era grande affollamento, di morti e di vivi, di adulti e di bambini.
Un uomo ha deposto una bambina bionda di fianco a un altro corpo. Ci sono una serie di fotografie che precedono questo scatto, in cui l’uomo grida come l’Urlo di Munk e la bambina senza vita nelle sue braccia ha un filo di sangue rappreso sul volto. Ora i piccoli cadaveri «guardano» dall’altra parte, «per rispetto» a loro stessi e a noi spettatori. L’uomo è curvo, come un papà che dà la buona notte ai figli addormentati sul letto a castello.
I raid sono arrivati nella notte, dopo le 2. Gli adulti erano forse già svegli, per preparare il magro pasto che precede il digiuno del Ramadan che comincia alle 4 del mattino. I bambini, come tutti i bambini di questo mondo, dormivano. Dopo due mesi di tregua, forse avevano già cominciato a dimenticare il rombo delle bombe, il fuoco delle esplosioni? Ci vogliono anni, e a volte non basta una vita, per dimenticare certe cose. Ma ai bambini serve poco, pochissimo, per guardare avanti.
Un uomo, una bambina. La didascalia non dice i loro nomi. È accaduto spesso, in questi anni di guerra, che certe vittime siano rimaste senza nome. La maggior parte dei morti palestinesi sono innominati. Se è stato ucciso un capo di Hamas, è facile che sia citato, e magari dotato di una biografia in cui vengono ricordate le efferatezze commesse. Di quei due bambini sul letto a castello nell’obitorio di Khan Younis non sapremo praticamente niente: le cose belle della loro breve vita, quelle che sognavano di fare.
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