Ci sono avvenimenti che si radicano nella memoria collettiva, a prescindere dall’età delle persone a cui li si nominano.
Così un bambino nato nel 2012 sa perfettamente cos’è successo l’11 settembre del 2001, esattamente come lo sa un ragazzo del 1999, che quando sono state abbattute le due torri c’era, ma probabilmente non ha ricordi diretti. A entrambi è stato spiegato a scuola, avranno visto i video di quegli istanti drammatici e la loro percezione non è forse così diversa da tutti quelli che nel 2001 avevano già l’età per ricordarsi cosa stessero facendo quando hanno saputo che il mondo non sarebbe più stato lo stesso.
Se invece ai nati negli anni Ottanta chiedessero di associare un evento alla data del 25 maggio 1922, è molto probabile che il loro sguardo si farebbe vacuo. A qualcuno forse potrebbe scattare la scintilla con l’11 giugno del 1984, ma non sarebbero molti di più: c’erano i Mondiali? No, quelli erano nell’82. C’erano gli Europei, ma l’Italia non si era nemmeno qualificata. E allora perché quella data ci suona così familiare?
Sono passati esattamente 100 anni dalla nascita di Enrico Berlinguer, che è morto a Padova, l’11 giugno dell’84 dopo aver avuto un ictus quattro giorni prima.
Chi ha meno di 38 anni non ha avuto la fortuna di incrociare il suo cammino con quello del politico a cui dobbiamo il compromesso storico, eppure molti di noi se lo ricordano comunque.
Lo abbiamo trovato nei libri di storia, e anche se non ci piaceva la storia abbiamo intuito che ciò che ha fatto era importante. Quella di Berlinguer era una politica fatta per le persone, non per la fama, per il portafoglio o per la poltrona. Una politica fatta con una passione sorvegliata, quella di chi non alza la voce, ma riesce a trasmettere a tutta la platea che bisognava lottare per qualcosa di più grande degli interessi del singolo: si stava costruendo un mondo diverso, un’Italia diversa, e la sua morte è stata il simbolo di una frattura insanabile tra un ideale e il corso della storia.
E poi ci sono quelli troppo piccoli per rendersi conto di ciò che stava succedendo: “Avevo quattro anni quando è morto – scrive Roberta Canu in un commento su YouTube – e ricordo il giorno dei funerali, ai quali parteciparono mio padre e mio nonno; ricordo mia nonna e mia sorella allora sedicenne in lacrime a guardare la tv, ed io che ancora non capivo, sentivo che era mancato qualcuno di famiglia. Era un grande uomo, un grande politico e uno di noi”.
Ed era davvero uno di noi. Lo abbiamo capito quando abbiamo visto i filmati del funerale (“Ma sono davvero così tanti i comunisti?” si chiedono ironicamente i Modena City Ramblers, sapendo bene che lì in mezzo c’era “un popolo intero”, senza distinzioni partitiche), lo abbiamo capito quando nostro nonno ha bruciato la bandiera rossa nel camino, che non era più la stessa cosa, lo abbiamo capito guardando gli occhi dei nostri genitori, che magari si commuovevano quando al telegiornale si ricordava l’anniversario, e poi però negavano tutto, perché ok, bravo Berlinguer, ma vuoi mettere il compagno Pertini? Quello era un vero comunista!
A noi che da adolescenti abbiamo vissuto le prime esperienze politiche a Padova, gravitando intorno alla sede del PDS e poi del PD di via Beato Pellegrino, non interessa quale punteggio totalizzava Enrico Berlinguer nella classifica del “comunista vero”.
Noi ce lo ricordiamo nelle parole dei politici locali, che ci raccontavano di quando durante il malore di quella sera sciagurata gli avevano tolto le scarpe e avevano trovato un calzino bucato e i pantaloni lisi. Perché quando stai dando vita a un ideale non puoi certo stare a preoccuparti di cose di nessuna importanza come lo stato dei tuoi calzini, anche se tutti ti definiscono uno elegante.
“Avevo 14 anni – racconta Giulia – la prima volta che ho sentito quella storia. Ricordo ancora le liti con mia madre, perché voleva che mi comprassi dei calzini nuovi quando i miei si rompevano. So che suona infantile, ma i calzini rotti mi facevano sentire più vicina a lui, che era un po’ un mito per me. A 14 anni siamo tutti così, no?”
Sì, molti di noi erano così. Eravamo affezionati ai nostri calzini rotti, o a qualsiasi altro vezzo che ci facesse tenere la bussola ben salda verso quello che volevamo diventare. Forse il problema non è suonare infantili, ma preoccuparcene 25 anni dopo, quando magari andremo a votare perché “ci tocca”, quando avremo dimenticato l’ultimo comizio a cui abbiamo presenziato, quando avremo smesso di credere che le nostre azioni possano avere un impatto sulla società.
Con Berlinguer non è morto solo un uomo, ma un modo di fare politica. Con lui è morto il sogno di poter cambiare davvero le cose, al di là delle ideologie e al di là delle bandiere. Forse anche per questo ci è rimasto un ricordo così vivido, un ricordo che lotta per non essere dimenticato anche quando si infrange contro la realtà dei fatti. È per quella politica, oltre che per Enrico Berlinguer, che a volte ci sorprendiamo a piangere: “Mi ricordo – racconta Paolo – di quando un vecchio compagno dei tempi di Sherwood mi ha fatto fare un giro della Padova Comunista. Siamo passati dalla sede dell’MSI dove c’era stato l’agguato, ai vari stabili occupati, o dove erano state fatte barricate e via dicendo. A un certo punto siamo arrivati in Piazza della Frutta, lui si è messo dove era posizionato il palco su cui era morto Berlinguer ed è scoppiato in lacrime”.
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