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Storia di un emigrato in terra d’Argentina

Torresidi Raimondo Giustozzi

“Amatissimo fratello e compare Gino – Morrovalle, non ho parole adatte per descrivere la mia contentezza nel ricevere dopo tanto tempo un tuo lungo scritto, pieno di vecchi ma bei ricordi, nei quali mi sembra di rivivere, leggendo la tua lettera. Tredici anni di lontananza sono passati come per incanto e sembrerebbero un sogno, se non dovessimo volgere lo sguardo indietro e dare un’occhiata al passato” (Luigi Torresi, Storia di un emigrato in terra d’Argentina, pag. 17, tipolitografia T.A.F, s.r.l. di Corridonia, febbraio 1998).

Chi scrive è Luigi Torresi, emigrato in Argentina nel 1921, Cañada de Gòmez, dove si trovavano già altri fratelli emigrati prima di lui: Francesco, detto Checco, e Giuseppe. Checco ritorna nel 1913 a Morrovalle. Nello stesso anno parte per l’Argentina Alfredo, nell’anno successivo è la volta di Vincenzo (Quinto). Giuseppe, Alfredo, Vincenzo e Luigi sono rimasti per sempre in Argentina. Alla comitiva nel 1922 si aggiunge Umberto, un altro fratello, anche lui rimarrà in Argentina. Il destinatario della lettera è Gino Torresi, il fratello più piccolo. Luigi Torresi era stato il padrino di cresima di Gino, ecco perché lo chiama compare. Gino Torresi è anche mio zio, in quanto marito di Adina Giustozzi, sorella di mio papà Luigi Giustozzi. Zio Gino ha sempre tenuto una fitta corrispondenza epistolare con tutti i fratelli e parenti in terra d’Argentina.

Luigi Torresi, a seguito della lettera ricevuta dal fratello Gino, concepisce l’idea di lasciare ai parenti e ai discendenti una memoria scritta della sua vita, che serva a non dimenticare e soprattutto ad educare le nuove generazioni ai valori, che sono state alla base della sua esistenza: Dio, patria e famiglia. Luigi Torresi (1898 – 1992), figlio di Costantino e Teresa Pepa, nasce a Morrovalle, provincia di Macerata ed è il sesto di dieci fratelli, cui vanno aggiunti altri due, morti in tenerissima età, ed un terzo, Nazzareno, morto a dieci anni. La sua sarebbe stata una storia come tante, conosciuta solo dai parenti più stretti e amici, se non avesse avuto il desiderio di farla conoscere, appuntando per iscritto e periodicamente le fasi della propria vita.

Il merito del nipote Giuseppe Torresi, contitolare della ditta Traini & Torresi con sede a Civitanova Marche, è stato quello di riportarla in un libro, pubblicato nel 1998, cento anni dopo la nascita dello zio d’America. Il prezioso e elegante volume, Luigi Torresi, storia di un emigrato in terra d’Argentina, di 219 pagine, fa seguito alla pubblicazione di altri libri, pubblicati dalla stessa ditta negli anni precedenti: “’Na storia, ‘na città” di Sandro Bella, “La Careide” di Annibal Caro, “Arcobaleni”, raccolta di poesie e infine “I canti di Giacomo Leopardi” con il saggio di Goffredo Binni. Alla base della scelta di finanziare la cultura c’è la consapevolezza che le conquiste economiche devono supportare la crescita culturale della popolazione. E’ la riproposizione nei nostri giorni dell’antico mecenate, che nasce nella Roma antica, si sviluppa nel Rinascimento e continua nel Novecento italiano con Adriano Olivetti, Agnelli e Diego della Valle.

“Il libro”, scrive Giuseppe Ascani, per anni docente di Lettere presso L’istituto Tecnico Commerciale Filippo Corridoni di Civitanova Marche, trascrittore e curatore dell’”Istoria di un emigrato italiano, “è diviso in due parti ed un’appendice: la prima parte comprende la storia vera e propria, scritta a più riprese da Luigi, ed il diario del suo primo viaggio di ritorno in Italia nel 1947, dopo ventisei anni che era emigrato in Argentina; la seconda parte, invece, è costituita da scritti sparsi, tra i quali una lettera di Gino Torresi alla cognata Viola, rimasta precocemente vedova” (Giuseppe Ascani, Introduzione, in “Storia di un emigrato in terra d’Argentina).

Aggiungo che nel corso del suo primo viaggio in Italia nel 1947, Luigi Torresi venne anche a Santa Lucia, frazione di Morrovalle, in visita alla mia famiglia, in occasione della promessa di matrimonio di zia Norina, altra sorella di mio papà, con Enrico Mecozzi di Appignano (MC), altro mio zio. In quella occasione, in una fotografia scattata proprio da Luigi Torresi ci sono anche zio Gino, zia Adina, Teresa, la loro prima figlia e mia cugina Gabriella, figlia di mio zio Alberto, fratello di mii papà oltre ai nonni e ad altri zii e zie. Sono indirettamente memorie anche mie. Giuseppe Torresi, di Civitanova Marche, nipote di Luigi Torresi si è recato ben sette volte dai parenti di Argentina e si è assunto sempre il gravoso incarico di continuare l’azione dello zio Luigi, per mantenere ben saldi i rapporti tra i Torresi d’Italia e i Torresi d’America (Introduzione).

Copia de una carta scritta al fratello de Italia.

La carta in italiano è la lettera. Tutte le note al testo sono messe in appendice per non diminuire il gusto della lettura, scrive Giuseppe Ascani nell’introduzione. Il racconto di Luigi Torresi nasconde una sorridente ironia, perché sa guardare con distacco le vicende narrate, anche quelle dolorose. La narrazione e la descrizione sono sempre pacate. I primi giorni dell’arrivo in Argentina si consumano tra visite, banchetti e feste tra un parente e l’altro, quando arriva il “Cammino del Calvario”, scrive l’autore. Arriva il tempo del duro lavoro: “Ricordo, come se fosse ieri, che mi presentai a lavorare alla “cosecha” con le bretelle ai pantaloni, scarpe e calzetti e con le mani, che sembravo uno scrivano. Fatti una risata, compare, come adesso faccio io, però a quei tempi erano altri che ridevano di me. La cosecha passò con non poco sacrificio e con essa passò ugualmente il tempo delle bretelle e dei calzettini. In seguito partii da “cucinero per la machina” (cuoco che cucinava per il gruppo di persone che in Argentina andavano a mietere il grano) sconosciuto in mezzo a tanti argentini che godevano solo quando si trovavano con un povero gringo che non conosce la lingua (Con gringo gli argentini chiamavano tutti gli stranieri). Dicevo dentro di me se era possibile che fossi venuto in America per passare da imbecille” (Luigi Torresi, op. cit. pag. 17).

Il nostro, col tempo, acquista la simpatia di tutti, lavora alla raccolta del granturco, fatica immane se paragonata a quella che si praticava in Italia, scrive Luigi, e dopo tre anni, semina il grano, il granoturco ma non lo raccoglie lui, lo fa raccogliere. E’ diventato padroncino di un appezzamento di terreno e proprietario di una piccola casetta. In realtà è solo il padrone di un debito considerevole, scrive ancora e aggiunge con sottile disincanto: “Meglio povero io che poveri noi”. La fortuna sorride agli audaci, sembra dire. Stanco di stare solo, decide di sposarsi con Adele Torresi ma solo dopo aver chiesto e ottenuto la dispensa dell’autorità ecclesiastica, in quanto Adele è cugina di secondo grado. Correva il mese di gennaio 1925. Dal matrimonio nasceranno: Marcello, Velia, Nelso, Maria Rosa, Manuela, Luisa, Irene. “Manuel, Dio lo richiamò al cielo dopo un solo mese dalla sua nascita” (pag. 29). I raccolti sono buoni, tanto che Luigi accede alla “porta di ferro”, chiamato così la Cassa di Risparmio, dove depositare i risparmi del lavoro. Luigi si considera “più ricco che povero”, come scrive nella lettera, quando si arriva al 1929, anno infausto perché improvvisamente viene a mancare il fratello Giuseppe Torresi che lascia la vedova Viola con otto figli da crescere.

Il dolore è grande, ma Luigi trova la forza, anche in questa situazione di immenso dolore, di guardare oltre. D’accordo con gli altri fratelli e parenti d’Argentina, vende tutto quello che ha, casa e capitale, per “recarsi con la propria famiglia nella casa di Viola, per reggere provvisoriamente il destino anche di quella famiglia”. Passati due anni in quella casa, facendo il possibile per il buon governo di tutti, visto che ad un chilometro di distanza dalla casa di Velia si vendeva una “ciachera” (fattoria, azienda agricola), decide di acquistarla, assicurando alla vedova che avrebbe dato nello stesso tempo uno sguardo ai suoi lavori ed ai suoi interessi, assieme ad Alfredo Torresi, altro fratello di Luigi, che abitava poco distante, anche lui partecipe del dolore e unito nell’aiutare Viola con consigli e qualche servizio. Il dolore si trasforma in solidarietà manifesta, le finanze di Viola col tempo migliorano, i suoi figli crescono grandi lavoratori e risparmiatori. I risparmi consentono a Luigi Torresi l’acquisto di un’automobile, poi di una Radio, per di più vive in una casa grande e bella. I primi tempi sono un ricordo del passato. “Da qui a cent’anni tanto vale la seta che la stoppa”, scrive Luigi Torresi, dicendo insomma che non vale proprio la pena di passare in questo mondo una vita da rospi. Nella stessa lettera ragguaglia il compare Gino sulle condizioni economiche dell’altro fratello Umberto Torresi anche lui in Argentina, nella stessa città, Cañada de Gòmez.

Seconda parte 1934 – 1955 Cañada de Gòmez, 13 dicembre 1955

Il ricordo della patria lontana è forte ma Luigi Torresi manifesta tutta la propria “ammirazione ed il rispetto verso questa seconda patria adottiva, la Repubblica di Argentina, madre buona e generosa dei nostri figli, cresciuti sotto il manto della sua celeste e bianca bandiera, segnalando a tutti gli uomini di buona volontà il fine ultimo: il Cielo” (Ibidem, pag. 29). Rimane forte il desiderio di rivedere il fratello Gino e la sorella Rosetta Torresi (19039 che a seguito di una lunga malattia da cui guarisce e entra nell’ordine delle Figlie dell’Addolorata come suora.

Mettendo da parte i risparmi, Luigi “si sistema in un altro terreno di centonovanta ettari di proprietà dell’attuale padrone Albertengo”. Gli anni che vanno dal 1939 al 1942 permettono a Luigi di “acquistare un trattore con un aratro da quattro solchi e un generatore di energia elettrica”. Alla fine diventa proprietario di quarantacinque ettari di terreno che viene lavorato con contratto di affitto dal fratello Quinto, detto anche Vincenzo. “Quando tutto sembrava andare per il meglio, scoppia la seconda guerra mondiale. Il pensiero corre ai parenti di Morrovalle, ma anche per la nuova patria di elezione le cose non vanno affatto bene. Si sa che una guerra porta al blocco dei traffici: “Tutto si paralizzò in quanto il nostro raccolto non incontrò il mercato estero. Gli anni che vanno dal 1942 al 1945 furono i peggiori che ricordiamo” (Ibidem, pag. 31). Cessato il conflitto mondiale, il commercio riprende in modo vigoroso. I guadagni aumentano, tanto che nel 1946, Luigi Torresi manifesta ai propri familiari il desiderio di rivedere i parenti dell’Italia. Il sogno si avvera il 12 luglio del 1947, quando si imbarca sul “Vapore di bandiera Panamense” alla volta di Genova dove arriva il 23 dello stesso mese ed il 31 a Morrovalle nelle braccia dei propri cari che non vedeva dopo ventisei anni di lontananza. Il viaggio di ritorno si conclude il 31 ottobre dello stesso anno; ad aspettarlo a Buenos Aires ci sono il fratello Alfredo e il cugino Nazzareno, nello stesso giorno, verso mezzanotte è nella propria casa di Cañada de Gòmez.

Chi non ha il coraggio, non va in guerra”, scrive Luigi Torresi. Così, spendendo un po’ dei propri risparmi, compra un nuovo terreno di 74 ettari, pagandone solo una parte. Mentre sotto l’aspetto finanziario tutto procede bene, dall’Italia gli giunge una notizia triste. Il 22 giugno, all’età di 86 anni muore il papà Costantino. Anche Luigi accusa qualche malore. I dottori gli scoprono un principio di ulcera. Sarebbe meglio operarsi subito. Traccheggia fino al settembre del 1955 quando finalmente decide di farsi operare. Gli anni che vanno dal 1949 al 1952 volano letteralmente. Il 1952 un violento nubifragio si abbatte sulla propria casa, ma anche in questo frangente, temprato dalla forza di volontà, assieme a tutta la famiglia si risolleva in fretta: “Non c’è male che per bene non venga”. E’ un altro dei tanti aforismi disseminati nel testo. Nel 1953 sogna di far venire in Argentina il proprio fratello Gino per fargli conoscere la propria famiglia. L’operazione non va in porto per difficoltà burocratiche. I figli intanto crescono e ognuno segue la propria strada. Velia entra nel convento di Mercede, in provincia di Buenos Aires, per il noviziato delle Sorelle di Sant’Antonio. La sua vestizione avviene il 15 agosto del 1954. Nell’anno successivo Marcello, il figlio più grande si sposa con  ”Bianca Olmo, ragazza di buona famiglia” (pag. 36). Luigi Torresi è ormai un argentino di fatto. Gli anni che vanno dal 1952 al 1958 sono quelli della seconda presidenza di Juan Domingo Peron. Se gli anni della “Prima presidenza trascorrono con tutta normalità”, scrive Luigi, non avviene la stessa cosa per gli anni successivi, quando lo stesso presidente scatena una violenta repressione contro la chiesa cattolica. L’esercito si prepara al golpe per far cadere Peron. E’ il 16 giugno 1955. Il governo per il momento non vacilla. La rivoluzione viene rimandata solo di tre mesi. E’ il 16 settembre dello stesso anno. Peron scappa nel vicino Paraguay. Queste annotazioni ed altre relative ad anni successivi, quelli del dopo Concilio Vaticano, ad esempio la ribellione di trenta sacerdoti della diocesi di Rosario al proprio vescovo, per schierarsi dalla parte del popolo contro ogni forma di sopruso e di ingiustizia, fanno di Luigi Torresi un acuto osservatore della realtà sociale, politica e religiosa de paese Sud Americano.

Terzera e ultima parte di questo “istorico(sic) racconto – Cañada de Gòmez, 1977

In questa parte, Luigi Torresi fa un bilancio della propria vita: “Quando si sino raggiunti i settantotto anni non è facile ricordare le date necessarie a continuare la storia di una vita. Nonostante tutto proverò ad accontentare il desiderio, che adesso è anche dei miei figli, che con tanta insistenza reclamano un mio ultimo sforzo” (Ibidem, pag. 39). Tutta quest’ultima parte gira attorno alla sistemazione dei propri figli. Maria Rosa si sposa con Mario Mosca nel 1956. Il figlio Nelso convola a nozze nel 1958. La figlia Velia, religiosa, nello stesso anno “fonda in Colombia la prima casa delle sorelle di Sant’Antonio in terra straniera”. Manuela e Luisa si sposano ambedue nello stesso giorno, l’una con Dovilio Biagetti, l’altra con Emir Bigoglio. Irene, l’ultima figlia, terminati gli studi, si sposa nel 1966 con Giulio Bonfigli. Il tre novembre dello stesso anno, un male incurabile porta nella tomba Manuela, a soli ventinove anni, già madre di una bambina: “La sua morte lasciò un vuoto irreparabile, che solamente la fede e la rassegnazione potevano rimarginare” (Ibidem, pag. 40). Intanto, Luigi si era già trasferito nel giugno del 1960 in città “per passare gli ultimi anni di meritato riposo dopo tanto lavoro e per lasciare ai figli la libertà di governarsi da soliI due figli, Nelso e Marcello, lavorano in società con reciproco rispetto e con l’ansia di continui progressi” (Ibidem, pag. 40).

Dopo un anno di sofferenze per la perdita della figlia Manuela, rispondendo all’invito del nipote Torresi Remo che avrebbe celebrato il proprio matrimonio il 22 settembre del 1967, Luigi Torresi decide di ritornare in Italia in compagnia del figlio Nelso, ma non con la nave ma in aereo, destinazione Roma, aeroporto “Leonardo da Vinci”. La permanenza a Morrovalle si prolunga fino al 29 ottobre dello stesso anno. Il ritorno in Argentina, sempre in aereo è del 30 ottobre. Nel frattempo, in Argentina, “La situazione economica di tutti i figli e dei parenti prospera sempre più: sia quella delle famiglie di Alfredo, di Quinto e di Umberto, sia quella di tutti gli altri Torresi e dei Mosca. Tutti sono proprietari di buoni terreni, di automobili, di macchine agricole di ogni tipo e di molte altre comodità, che assicurano loro un avvenire sicuro anche per una lunga anzianità. Per quanto riguarda i nostri figli, tanto Marcello che Nelso abitano qui in città, ben sistemati in case comode e ben ammobiliate; i figli studiano e le vicende familiari trascorrono senza  problemi” (Ibidem, pag. 43).

Ma una nuova tragedia incombe sui Torresi d’America. Alfredo, il più grande dei fratelli emigrati in Argentina, colui che in qualche modo era stato per i Torresi d’America come un padre, muore nel 1971, dopo sei mesi di malattia. Anche lui aveva compiuto un viaggio in Italia e ne stava programmando un altro per festeggiare le sue nozze d’oro. “Che Iddio lo tenga nella sua gloria”, scrive Luigi nel proprio diario. La fede in Dio è una costante in tutto lo scritto. Nell’anno successivo, rispondendo alla richiesta di Gino Torresi, che lo invitava alla festa per il matrimonio della propria figlia Marisa, Luigi Torresi vola di nuovo in Italia, in compagnia del proprio nipote Nazzareno, destinazione aeroporto di Milano, dove è accolto dal nipote Giuseppe Torresi, che ha nella città lombarda “Una importante succursale della sua impresa trasporti” (pag. 45).

Questo terzo viaggio in Italia è motivato sì dalla richiesta del fratello Gino ma anche dal desiderio di rivedere l’altro fratello “Ceccho” (Francesco Torresi, insignito della medaglia d’argento al valore militare), da qualche mese ammalato. Il libro riporta due fotografie, ambedue del 1967, durante il secondo viaggio in Italia di Luigi Torresi; in una, Luigi è in compagnia del fratello Gino, nell’altra, scattata lungo il viale Cesare Battisti di Morrovalle, Luigi Torresi è in compagnia del fratello “Checco” (Luigi Torresi, Storia di un emigrato in terra d’Argentina, pag. 41, Traini & Torresi Iveco, Corridonia, febbraio 1998). Al banchetto di nozze di Marisa Torresi e Angelo Lorenzetti è presente anche Checco. La gravità del male “Precipita nel mese del nostro ritorno in Argentina e il 29 novembre rendeva l’anima a Dio all’età di ottantuno anni. Pace nella sua tomba”, scrive Luigi Torresi.

Nella storia dei Torresi emigrati in Argentina capitano nuove disgrazie. Nel 1974 muoiono Battista Torresi, fratello di Adelina e Umberto Torresi, fratello di Luigi. Giunto ormai ad un’età avanzata, Luigi fa il bilancio della propria vita. Ringrazia Dio di tutti i doni ricevuti. Ricorda i primi difficili anni vissuti in Argentina e il cammino percorso, l’anniversario delle prossime proprie nozze d’oro, la sistemazione dei figli e il ricordo della propria famiglia d’origine, del papà e della mamma. Dalla sorella suor Costantina gli giunge la pergamena con la benedizione papale da parte di Paolo VI per le proprie nozze d’oro. Mantiene sempre la corrispondenza con compare Gino e il nipote Remo, figlio di Giovanni. Nell’Appendice del libro ci sono molte lettere di zio Gino e di Luigi Torresi. Non manca un lungo diario di bordo, scritto da  Luigi durante il suo primo viaggio in Italia (1947).

Non tralascia di ricordare l’abbandono dell’abito religioso da parte della figlia Velia giustificato da quest’ultima con queste sole poche parole: “Non sono riuscita ad adattarmi ai cambiamenti operati dentro la Comunità, in seguito alla riforma del Concilio Vaticano II, che è stata interpretata in maniera esasperata” (Ibidem, pag. 50). Anche se sorpreso per la decisione della figlia, Luigi Torresi dimostra nei confronti della stessa grande tatto e amore di padre. Innanzitutto con la scelta di Viola non ravvisa la violazione di nessun sacramento che ci sarebbe stata in caso di matrimonio o di Ordine Sacro: “Nel caso di Velia si era trattato solo di una promessa di osservanza di regole, previste dal precedente statuto; dunque non aveva accettato le nuove regole, imposte contro la sua volontà” (Ibidem, pag. 50).

Luigi Torresi ricorda la propria Scuola Elementare chiamata “Molino Franceschetti” perché vicina al molino omonimo, gestito da Claudio e Annibale Franceschetti: “la frequentazione della scuola fu di soli tra anni: il massimo esistente in quei tempi nelle scuole di campagna. La mia condotta è stata sempre buona e la maestra mi considerava il migliore della classe, forse perché ogni tanto nostro padre le mandava qualche regalo” (Ibidem, pag. 52). Nelle stesse pagine, l’autore del libro ricorda tutti i suoi fratelli: Francesco (1891), soldato nella guerra in Tripolitania e richiamato nella prima guerra mondiale, Antonio (1896) anche lui soldato nel primo conflitto mondiale, Giuseppe, Alfredo e Quinto già emigrati in Argentina prima di lui. Francesco (Checco), ferito in battaglia nei pressi d Gorizia, fu ricoverato nell’spedale di Udine. Ottenne per il suo comportamento in battaglia, la medaglia d’argento al valore militare. Antonio si ammalò di febbri malariche in Tripolitania, passò da un ospedale all’altro per curarsi. Si trasferì anche lui in Argentina ma ritornò in Italia per l’aggravamento del suo male e morì all’età di 28 anni. Anche Luigi partecipò come soldato alla prima guerra mondiale. Dopo aver ricordato tutti i suo fratelli in Argentina e in Italia, Luigi descrive la composizione della sua famiglia in Argentina e ricorda con gratitudine la vecchia casa paterna.

 

Ultima parte, un regalo in più (pp. 58- 96)

Conscio di aver raccontato quasi tutto della propria vita, Luigi Torresi non demorde e in poche pagine dense di avvenimenti, passa in rassegna gli anni che vanno dal 1979 al 1984. Sono anni accompagnati da vicende allegre e tristi. Di tanto in tanto fornisce anche alcune sue valutazioni sulla vita politica in Argentina. Non mancano le visite di nipoti che vengono dall’Italia, tra tutti il nipote Giuseppe e sua moglie Graziella che lo raggiungono in Argentina diverse volte. Trova anche il tempo per descrivere la guerra delle Isole Maldive, rivendicate dal governo britannico. Scrive: “L’Argentina, pur dimostrando la sua bravura, non riuscì a vincere il nemico e fu obbligata alla restituzione e ancora una volta bisogna dire che contro la forza la ragione non vale” (Ibidem, pag. 61). In alcune pagine, intrise di indicibile dolore per la perdita del proprio figlio Nelso, Luigi Torresi scrive: ”Dio ha voluto provare la mia fede con queste ultime disgrazie. Questo deve essere uno dei tanti misteri che noi non comprendiamo” (Ibidem, pag. 83).

Un pregio del libro citato è la ricchezza di fotografie, bene scelte, che testimoniano e raccontano il profondo legame tra l’Italia e l’Argentina. Ci sono foto che illustrano luoghi e angoli, monumenti di Cañada de Gómez e Morrovalle, la trebbiatura del grano in Argentina e nelle campagne attorno a Morrovalle, le foto di nozze, la casa di Luigi Torresi in Argentina e quella paterna a Morrovalle, la prima macchina acquistata da Luigi Torresi, gli edifici religiosi a Morrovalle e a Cañada de Gómez, il lavoro nei campi con l’uso dei buoi nella campagna morrovallese, gli automezzi Iveco della ditta Traini & Torresi nella sede di Civitanova Marche e a ridosso del Colosseo a Roma, la chiesa di San Claudio al Chienti, il mulino Franceschetti, le feste in famiglia, gli incontri durante i viaggi in Italia di Luigi Torresi con i sacerdoti di Morrovalle e di San Claudio – Corridonia (MC), profondamente legati a Costantino Torresi il capostipite della famiglia.

Le note (pp. 197 – 218) rappresentano un valore aggiunto al volume. Sono ventidue pagine ricche di ulteriori notizie, frutto di minuziose ricerche fatte dal prof. Giuseppe Ascani, che non ha lesinato tempo e profondità di indagine. Alcuni termini, un tempo propri delle nostre campagne, oggi in disuso, sono rievocati con molta precisione. Zio Gino, lo chiamo così per ciò che ho detto nel testo, nella lettera (Ibidem, pp. 133 – 141) inviata da Morrovalle (MC) e indirizzata alla cognata Viola, rimasta vedova e con tanti figli da crescere, manifesta a lei tutta la propria vicinanza e affetto. Nello scritto accenna anche alla mancanza di braccia, indispensabili per la coltivazione del terreno; invece sono rimasti in pochi, in quanto Giovanni, l’altro fratello, che abita nel fondo di proprietà della parrocchia San Bartolomeo di Morrovalle, parte per il servizio militare il 17 aprile del 1928. Scrive Gino Torresi: “Così al lavoro siamo rimasti ormai Cric, Croc e Manico d’Ancì” (pag. 139). Insomma, quelli rimasti erano pochi (Cric e Croc) per di più deboli, perché manico d’Ancì significa avambraccio a forma di uncino.

E’ una espressione dialettale persa, così come è andato perso il termine “rapazzole”- “giaciglio rustico costituito da pali e traverse su cui viene steso un saccone di foglie secche” (Dizionario “Nuovo De Mauro”- fonte Internet). E’ una parola che sentivo spesso pronunciata da mio papà. Nella casa di campagna, a San Claudio, da ragazzo andava a dormire sopra questo giaciglio perché le camere di casa non bastavano per tutti. Nel libro la parola viene usata da Luigi Torresi che descrive brevemente la cuccetta del piroscafo San Giorgio che lo riporta in Argentina dopo il suo primo viaggio in Italia (ottobre 1947): “La mia cuccetta si trova al secondo piano di un letto a castello e con la suddetta sono subito in “rapazzola”. Il mio pensiero ritorna a quando giovane, per la prima volta in viaggio per l’Argentina, dovevo prendere la scaletta per raggiungere il letto o rapazzola marchigiana” (Ibidem, pag. 113).

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