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Montolmo, Pausola, Corridonia e gli emigrati in Argentina

Dicerie popolari marchigiane copertina V volumedi Raimondo Giustozzi

Si sa che tutte le vallate delle Marche, sono state interessate tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 a massicce ondate emigratorie verso le Americhe. Si racconta che da Corridonia, chiamata anticamente Pausola, poi Montolmo ed infine in onore di Filippo Corridoni, compagno di studi e di lotte politiche di Mussolini, con il nome che ha tutt’ora, fossero emigrati tanti contadini, tra questi, due fratelli che avevano lasciato a casa il fratello maggiore. Quando erano partiti per l’Argentina, la città si chiamava ancora con l’antico nome, quello di Corridonia era ancora di là da venire. I tre fratelli si tenevano costantemente in contatto tra loro.

Quello rimasto a Montolmo scriveva spesso ai due che erano oltre Oceano e si lamentava con loro che il governo al potere si mangiasse tutto, che le cose non andassero affatto bene, che i raccolti fossero scarsi, tanto che temeva per la perdita del piccolo podere che lavorava da solo con grande dispendio di energie. Il campicello era l’unica proprietà lasciata loro dal babbo. Si sa che quando si è lontani da casa, le preoccupazioni si ingigantiscono. Le lettere, quelle per la posta aerea orlate ai bordi con i colori del tricolore, arrivavano ai due fratelli lontani con continuità ed il contenuto era sempre lo stesso: quelli al potere erano dei ladri, tutto andava alla malora, ruberie di ogni sorta disegnavano la grama vita dell’unico fratello rimasto in Italia.

Un bel giorno i due decidono di rientrare anche per verificare da vicino se quello che il fratello scriveva loro era vero o falso. Si imbarcano sulla nave e dopo alcuni mesi di navigazione, giungono finalmente al porto di Genova. Scendono e si recano alla vicina stazione ferroviaria. Chiedono un biglietto per Montolmo, linea Civitanova – Macerata- Albacina. Il bigliettaio li guarda stupito. Il nome della stazione di destinazione non esisteva nell’elenco. I due si agitano e ripetono il nome. L’addetto allo sportello tenta un’ulteriore verifica, ma non c’è nulla da fare. I fratelli si ricordano allora l’antico nome di Pausula e lo ripetono al bigliettaio. Nell’elenco non c’era nemmeno questo nome. Costernazione sul volto dei due sventurati. Aveva ragione il fratello: “s’avevano magnato tutto”, tanto che era scomparso anche il nome del paese. Ritornano allora al porto e si imbarcano di nuovo per l’Argentina, lontano dalla terra che li aveva visti nascere e dalla quale se ne erano andati molti anni prima.

 

Nel secondo dopo guerra c’era chi premeva per rimettere alla cittadina della vallata del Chienti l’antico nome di Montolmo. Ma non se ne fece nulla. Qualche buontempone tuttavia, un po’ per burla, un po’ perché era vero che il paese cambiasse nome ad ogni soffio di vento, si divertiva a chiamare la cittadina con i tre nomi in fila: Montolmo, Pausula, Corridonia. Ora avvenne che agli inizi degli anni cinquanta arrivasse a Corridonia un signore veneto giunto dalle nostre parti per motivi di lavoro. Sale alla stazione di Civitanova Marche per recarsi in treno in quella di Corridonia. In treno, il bigliettaio, all’approssimarsi della stazione, anche per informare i signori viaggiatori, annuncia con voce potente: Montolmo, Pausula, Corridonia, Pausula, Montolmo, Corridonia.

 

Il signore veneto si porta all’altezza dell’uscita, pronto per scendere dai predellini  del treno. Ignaro com’era di tutto, sentendo quel baccano infernale fatto dal vociare continuo del bigliettaio, credeva di essere arrivato ad una città talmente grande da perdersi in essa. Scende e sbotta: “Ostrega, de tre paesi, ghe ne fosse uno”. La stazione di Corridonia, ieri come oggi, è molto lontana dal paese. Se oggi, la frazione di Piediripa è abbastanza popolata, agli inizi degli anni cinquanta lo era ancora di meno. Ma oggi, Corridonia è una città molto cambiata rispetto a quella nella quale abitavano i tre fratelli di Montolmo e come la conobbe l’occasionale viaggiatore veneto. Da città di emigranti è diventata paese di immigrati con la più numerosa comunità di Pachistani della provincia di Macerata, tanto che qualcuno scherzosamente l’ha ribattezzata Pakistonia.

 

 

Gagghjulino, Lisci de lu Cannò e Nèno de Sciròlu

 

Gagghjulino nasce a Montolmo (Corridonia) il 5 dicembre 1884 da Enrico Gismondi, canapino, e da Pasqualina Cesca, casalinga, e fu figlio unico. Fin da ragazzo venne mandato nella bottega di Alessandro Giachini, perché imparasse il mestiere di sarto. Non si applicava molto nel lavoro. Come sarto rimase uno scarzacà, uno scalzacane, perché era intento a correre dietro alle sue mattane. Svolgeva contemporaneamente più mestieri tra i quali anche quello di pescatore e di campanaro. Si sposa il 27 maggio 1907 con Margherita Buccolini, nata il 4 luglio 1881, quindi tre anni più anziana di lui. Dal matrimonio nascono uno dietro l’altro tre figlie: Delfina, che visse soltanto due anni, Assunta, che sposerà un carabiniere, e nel 1911 nasce la terza figlia Italia Vittoria Cirene. Da Montolmo, allora, partono in molti per l’Argentina, anche Gagghjulino vuole tentare la fortuna e parte per il paese Sudamericano in compagnia di Luisci de lu Cannò e Nèno de Sciròlu.

 

Si imbarcano al porto di Genova verso l’Argentina. Durante la traversata oceanica, Luisci e Nèno si rammaricano più volte di aver lasciato in Italia le loro giovani mogli, e rosi dalla gelosia si mostrano preoccupati per gli eventuali tradimenti delle rispettive consorti. Gagghjulino, sentendo i discorsi degli altri due, anche lui mostra le medesime preoccupazioni. I suoi due compagni se la ridono, dicendogli: “Va là, che tu ppòli sta’ ttranguillu: è ttando vrutta Marghirita chji vòli che tte la sfòja?”. Suvvia, tu puoi stare tranquillo. Margherita è tanto brutta, chi vuoi che te la tocchi. Invece al ritorno dall’Argentina e dopo aver combattuto come soldato nel corpo dei Bersaglieri nella prima guerra mondiale, ritornando a Montolmo, scopre che Margherita l’ha davvero tradito.

 

Durante il soggiorno in Argentina, Gagghjulino si adatta a fare lo scaricatore di porto, un lavoro scandito da orari precisi, da una disciplina rigida. Tutto gli pesa molto e il desiderio di ritornare in patria si fa sempre più forte. Anche gli altri due, che non si sono adattati a fare niente, manifestano l’intenzione di rimpatriare. Gagghjulino sospirava: “Ah, la Lindèrna! Se ccavo a recchjappà’ la Linderna, dì ppure che la Mèreca a mme no’ mme rvede più!”. Ah, la Lanterna (la famosa Lanterna, il faro di Genova). Se riesco a riacciuffare la Lanterna, dì’ pure che l’America non mi rivede più. Così i tre emigranti, approfittando dei viaggi gratuiti, assicurati a coloro che si arruolavano come soldati nella prima guerra mondiale, ritornano in patria.

 

Mentre degli altri due non si sa che fine abbiano fatto, Gagghjulino, come detto sopra entra a far parte del corpo dei Bersaglieri e a guerra finita ritorna a Montolmo. Durante la sua prolungata assenza era successo che Margherita, pur avendo lavorato di brutto per tirare avanti la famiglia, aveva ceduto, anche se per una sola volta, come precisava lei stessa, alle insidie di Duminàcciu, un carrettiere di Cerqueto, che era allora una sorta di capopopolo. Da questa relazione anche se fugace nascono due gemelle che vengono fatte sparire con la complicità della mammana, l’ostetrica e dalla nonna delle due creature. Le liti tra Gagghjulino e la moglie iniziano quando il marito, reduce dalla guerra, viene a sapere questa cosa poco edificante.

 

La scoperta è del tutto casuale. Un bel mattino, sotto il porticato del cimitero di Montolmo, viene trovato dal custode un neonato in un canestro. Tutti i presenti manifestano l’indignazione più profonda verso la svergognata che ha avuto il coraggio di compiere un gesto così nefando. Gagghjulino si unisce al coro e lancia parole di fuoco contro la mamma che ha fatto una cosa simile. Il custode del cimitero, stanco di sentire le parole oltremodo critiche di Gagghjulino verso chi aveva abbandonato la creatura, sbotta: “Ma ‘llucca e ppiagni, su ‘lle pòre creature tua, che non ze sa che ffine ha fatto!”. Ma urla e piangi, su quelle povere creature tue, che non si sa che fine abbiano fatto!.

 

Tutta la città conosce la vicenda, solo Gagghjulino non sa  nulla. “Da quel momento prese di petto la moglie, la mammana e poi la madre sua per avere ogni notizia al riguardo, così venne a sapere che le due gemelle erano state portate al brefotrofio di Fermo, e che – grazie a Dio – erano state sistemate poi presso una famiglia che le aveva adottate” (Claudio Principi, Dicerie marchigiane tra l’ottocento e il novecento, vol. III, pp. 50 – 53, Edizioni Simple, Pollenza (MC) dicembre 2010).

 

Scrive la prof.ssa Maura Francavilla nella post fazione al V e ultimo volume: “Le Dicerie sono un patrimonio culturale di inestimabile valore, un dono prezioso, un’opera grande e irrinunciabile che ci restituisce quella parte di noi, della nostra storia messa in un canto, dimenticata e quasi annullata dalla rapida trasformazione del mondo d’oggi. L’autore sa raccontare in modo superbo, ponendosi contemporaneamente fuori e dentro la materia con una passione ed un divertimento che lo rendono partecipe e protagonista di ogni aneddoto. Il suo sorriso illumina i racconti, i suoi commenti in diretta accentuano la forza del ricordo, il suo linguaggio forbito e elegante, il suo stile fluido e potente sono qualcosa di estremamente godibile, a volte esilarante, la battuta finale con cui stigmatizza il significato del racconto è assolutamente da non perdere” (Claudio Principi, Dicerie marchigiane tra ottocento e novecento, vol. V, Postfazione della prof.ssa Maura Francavilla, pp. 505 – 511, Edizioni Simple, Pollenza (MC), dicembre 2011).

 

Raimondo Giustozzi

 

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