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Le Marche fuori dalle Marche Storie di emigranti marchigiani in terra argentina

parenti in Argentina nonna paternadi Raimondo Giustozzi

Nell’ultimo decennio del 1800, i contadini in esubero nelle campagne, sono impiegati come muratori e manovali nella costruzione della grande vetreria di Porto Civitanova, che inizia la produzione il primo gennaio del mille ottocento ottantanove. Sono i più fortunati, per gli altri è aperta solo la strada dell’emigrazione verso le Americhe. Gli anni che vanno dal 1887 al 1913 sono quelli della grande emigrazione. Le cifre che riguardano Civitanova Marche sono puramente indicative e vanno lette per difetto, sono cioè molto più alte: 114 emigrati nel 1887, 166 nel 1888, 151 nel 1889, 110- 150 nei primi anni del ‘900, 323 nel 1912. Emigrano un po’ tutti, ma soprattutto contadini assunti come braccianti, pescatori.

A Civitanova, la mancanza di un porto rifugio ostacola di molto l’attività del settore. I paesi dell’emigrazione: Argentina dove arriva il 62% degli emigranti, il Brasile con il 25%, questo nel 1887; qualche anno dopo, l’88% degli emigranti sceglie l’Argentina. Portocivitanova era uno snodo importante per l’emigrazione per tutta la provincia di Macerata. Agivano nella cittadina, diversi sub agenti per le compagnie di navigazione che organizzavano i viaggi transoceanici. La presenza della stazione ferroviaria permetteva alla gente di risalire la penisola per imbarcarsi al porto di Genova, da qui in nave, negli Stati dell’America Latina.

“L’ondata migratoria, protrattasi per oltre un trentennio, fu alimentata un gran parte da questi casati maggiori d’origine contadina e marinara: i Capozucca con 44 membri; i Foresi con 39; i Recchi con 36; i Marinelli con 33; i Fioretti con 32; i Garbuglia con 28; i Macellari, Panichelli e Ripari con 27; i Cervellini e Micucci con 23; i Paolini e Sacripanti con 22; i Silvestrini con 20; i Pierangeli con 19; i Diamanti con 18; i Cardelli e Frattari con 16; gli Angelomè e Mengoni con 15; i Rossi e Sbrascini con 14; i Fagioli, Fioravanti, Gavasci e Nataloni con 13; i Fedeli, Gaetani e Luciani con 12; i Chiaramoni, Catinari, Melappioni, Trisciani con 11; i Cattolica, Fontana, Paparini, Sopranzi e Sorichetti con 10. Poi ancora tanti nuclei familiari con più di cinque unità fra i muratori, i manovali ed i braccianti, dei quali alcuni ceppi, come i Pesaola di Fontespina, sono quasi del tutto scomparsi dall’anagrafe dei residenti del nostro comune” (Ricciotti Fucchi, L’emigrazione all’estero dal territorio di Civitanova tra Ottocento e Novecento, pp. 215-  249, in “Civitanova Immagini e Storie”, Vol. 3, Comune di Civitanova Marche, 1992).

Argentina terra promessa

Nazzareno Giosuè, nasce a Montecosaro, in provincia di Macerata, nel 1887, in una famiglia di mezzadri, patto colonico comune alla maggior parte dei contadini del tempo. Giunto all’età di quindici anni, si pone per lui, come per tanti altri ragazzi della sua età, il problema del lavoro. Anni prima era partito per l’Argentina un suo zio, tale Forconesi, che lavorava a Buenos Aires in una impresa edile. Il ragazzo non ci pensa su due volte. Chiamato dallo zio, parte anche lui, destinazione la capitale argentina. Correva l’anno 1902, uno di quelli che gli storici chiamano della “Bella Époque”. Che epoca bella era se un giovane di appena quindici anni era costretto a lasciare il paese in cui era nato, i propri genitori, i pochi amici ed emigrare in una terra così lontana, in un paese a lui sconosciuto?

Nazzareno Giosuè si imbarca al porto di Genova sul piroscafo, destinazione Buenos Aires, dove lo attende lo zio. Qui trova quasi subito lavoro in una fabbrica metal meccanica che costruisce locomotive e materiale rotabile per le ferrovie dello stato argentino. Il reparto è quello delle forge. La forgia è uno strumento per riscaldare il metallo per la lavorazione a caldo. Il metallo portato ad una temperatura elevata viene poi forgiato, modellato da presse o da magli, quando i pezzi sono grandi, quando sono piccoli, la modellatura avviene a colpi di mazza. Tirare la mazza vuol dire un grande dispendio di energie e di forza fisica. L’operaio ed il pezzo di ferro diventano quasi un tutt’uno. Vietato sbagliare, non c’era nessuna tolleranza, perché i pezzi assemblati andavano a costituire le fiancate della locomotiva o del fumaiolo.

La nostalgia verso la patria lontana viene mitigata dalla presenza di volti amici, quello dello zio e della zia. In breve, Nazzareno, dopo quattro anni decide di ritornare in patria. Ha acquisito esperienza ed inghiottito tanta nostalgia. Ha fatto esperienza di uomini, di cose e di ambienti, che gli saranno utili nel nuovo lavoro.

Ha circa vent’anni. Nel grande quadrante della storia si vanno apparecchiando nuovi scenari che porteranno di lì a poco a terribili sconvolgimenti. Ma i venti di guerra sono ancora lontani. E’ tempo allora per Nazzareno Giosuè entrare alla Alfa Romeo a Milano, settore ferrovie dello Stato, reparto forge, sempre l’antico mestiere imparato in Argentina.

Prima di essere assunto deve superare un esame tecnico pratico, che in azienda chiamano “Il capolavoro”. Dato un pezzo di ferro, deve produrre in tempi stabiliti una squadra in ferro, perfettamente ad angolo retto, senza nessuna tolleranza di errore. Nazzareno supera brillantemente la prova e gli si spalancano i cancelli della prestigiosa fabbrica milanese. Si permette di fare anche lo spiritoso, quando gli mettono davanti un gigantesco maglio, chiedendogli se conosce questo strumento di lavoro. Risponde che conosce il maglio come l’anima del proprio padre defunto.

Ma la guerra annunciata, scoppia improvvisa. Nazzareno rimane in fabbrica, per tutta la durata del conflitto (1915 – 1918), a produrre bielle per locomotive, ganci per carri ferroviari, materiale rotabile per l’Esercito Italiano impegnato in un gigantesco sforzo militare contro l’Impero Austro Ungarico. Per tutto il tempo della guerra è un militare in tuta da lavoro.

Si sposa, nel 1913, con Rosa Costantini, e dal matrimonio nascono Paolo, detto “Pino”, nel 1914 e Otello nel 1916; i due bambini, nati a Morrovalle, seguono i genitori a Milano, ma per poco tempo. Rosa è troppo legata alla propria famiglia di origine, ecco allora che Nazzareno ritorna con i figli e la moglie nelle Marche e va ad abitare a Santa Lucia di Morrovalle in contrada Montanari Maragatta, in una casa di sua proprietà, poco lontana dalla strada che in un continuo saliscendi collega Civitanova Marche, Montecosaro, Morrovalle, Macerata (Remo Giosuè, I miei ricordi … una vita, una famiglia, un’azienda, pp.19 – 23, Recanati, 2014).

Partire è un po’ morire

Pietro, Enrico, Alfredo sono tre fratelli di Giuseppe Giustozzi, mio nonno paterno, emigrati in Argentina, città di Buenos Aires. Abitavano tutti sotto lo stesso tetto, in una casa posta sulla collina che sovrasta la linea ferrata per Civitanova Macerata, poco lontano dalla stazioncina di San Claudio. La terra lavorata come mezzadri non era più sufficiente a sfamare tante bocche. Da qui la decisione di emigrare in Argentina. Zio Pietro fece da battistrada. Era il 1914, prima che scoppiasse il primo conflitto mondiale; lo seguirono poi gli altri due fratelli. Insieme misero in piedi una vetreria. Gli affari non andarono bene. Alfredo si infortunò sul lavoro. Batté pesantemente la testa su un carrello trasportatore della fabbrica. Ebbe bisogno di cure continue che costavano molto. Il successo arrise ad altri parenti che venivano da un paese dell’alto maceratese.

Finché visse mio nonno ed anche oltre, mio papà teneva sempre una fitta corrispondenza epistolare con loro. Ricordo le buste da lettera, orlate ai bordi con i colori del tricolore. Era il marchio della posta aerea con l’estero. Pietro era molto legato al nipotino, zio Alberto, appena quattro anni, quando lui partiva per l’Argentina. Voleva portarlo con sé; scherzando lo aveva messo dentro una valigetta di cartone per provare se c’entrava. Era quasi fatta su misura. Restò in Italia, zio Alberto; si sposò con zia Nerina, sorella di mia mamma e tutti assieme: mio papà, mio zio Alberto, zia Nerina e mia mamma sono vissuti per quaranta anni sotto lo stesso tetto a Santa Lucia di Morrovalle, d’amore e d’accordo, condividendo assieme fatiche, gioie e dolori, in serenità ed armonia.

Enrico e Maria Giacomini

I genitori di mia nonna paterna, Giacomini Enrico e Maria emigrarono in Argentina, ma nella città di Santa Fé, per seguire due figli partiti precedentemente: Poldo ed Alfredo. Provenivano anche loro da Morrovalle, contrada Burella. La loro casa c’è ancora, minuscola, posta ai lati della strada, una delle poche ancora bianche, con la breccia. Lui faceva il carrettiere, lei la bustaia. La poca terra che possedevano era costituita solo da un piccolo orto. Erano chiamati “li curtinà”, forse dall’antico latino “curtis”, la corte, quelli che non avevano tanta terra né bestie nella stalla. Si aiutavano e sbarcavano il lunario facendo più lavori di servizio.

Il carrettiere delle nostre contrade era il “cavallant” della Brianza. Trasportava merci per conto terzi; possedeva il cavallo ed il carretto, altre volte lavorava alle dipendenze di un padrone. Enrico e Maria, dopo qualche mese di permanenza in terra argentina, spedirono ai propri parenti in Italia una fotografia che li ritraeva vestiti di tutto punto. La foto era l’evidente testimonianza della posizione e del benessere raggiunto. Gli status symbol erano: scarpe lucide ai piedi, vestito completo, non spezzato, orologio attaccato ad una catenina fissata ad un occhiello del panciotto, cascante su uno dei due taschini, capelli rasati lui, acconciati in trecce raccolte dietro alla nuca, lei. La mano della moglie appoggiata ad un ripiano del mobiletto, quella del marito, più in alto, sul pomello; stanno quasi ad indicare un movimento di entrambi per procedere assieme incontro alla vita.

Quella della fotografia era un rito comune anche alla Brianza, investita fin dai primi anni sessanta da un’immigrazione biblica: veneta e meridionale. L’immigrato calabrese, che si recava nello studio fotografico di Walter Pedretti, chiedeva: “Caccia ‘a foto sana”. Padre e figlio si guardavano increduli, non avendo capito la richiesta. Il cliente chiedeva che gli facessero una foto intera, non a mezzo busto, per mettere in evidenza le scarpe nuove ai piedi, il vestito, l’orologio al polso. La persona si metteva in posa, spiegandosi con ampi gesti delle mani quello che gli serviva. Walter Pedretti scattava la fotografia che dopo qualche giorno veniva spedita ai parenti ed agli amici dell’immigrato, rimasti in paese. Il vestito, le scarpe, l’orologio erano i segni tangibili di un benessere raggiunto. Chi era partito con poche cose raccolte alla meglio dentro ad una valigia di cartone, ci teneva a far vedere che con il lavoro aveva potuto acquistare beni di un certo prestigio sociale.

Niente di nuovo sotto il sole, anche in epoche a noi più vicine. Ricordo le sere trascorse nella sede ACLI di Giussano, ad insegnare l’Italiano ai primi immigrati albanesi. Era il 1991. Venivano in tanti. L’Italiano lo parlavano già abbastanza bene per via della televisione e del campionato di calcio italiano che conoscevano meglio di me. Quello che mi colpiva era che venivano sempre con tante fotografie, scattate sui gradoni dello stadio di San Siro quando andavano a vedere le partite del Milan o dell’Inter, nel prato davanti alla loro momentanea abitazione messa a disposizione dal Comune, accanto alla macchina o ad una motocicletta acquistate con il lavoro. Chiedevo perché mai scattassero tutte quelle foto. Mi rispondevano dicendomi che le avrebbero mandate ai propri genitori, parenti ed amici rimasti in Albania. Erano il segno tangibile che stavano bene e ci tenevano a farlo sapere. Il Lambro, Il Chienti, il Rio de la Plata, fiumi distanti geograficamente tra loro, ma uniti da memorie comuni, muti spettatori di storie vissute dai nostri emigranti, da qualsiasi angolo della terra provengano.

La terra “scordareccia”

“Quanno che jétte a la ‘Mereca io, la prima ‘ota, ci – aio scì e nno sedecianni. Partèmme da Mondòrmu ch’erammo ‘ na vindina, e a mme me se ‘ffijò Annetta de Catèlla, de jo – ppe’ la Piana. Lu passàgghju co’ le varcu, me recòrdo, da Jènoa a Bbonassàire, nér cingue, me costò véndi scuti. Nér trédece, quanno rvénne, èra gghià rengaratu de cingue scuti, mica frégne”. Traduzione: “Quando andai in America io, la prima volta, avevo sì e no sedici anni. Partimmo da Montolmo (oggi Corridonia) che eravamo una ventina di persone, e mi si affigliò (affidamento temporaneo di minorenni) Annetta de Catèlla (nomignolo) di giù la Piana (contrada rurale). La traversata col bastimento, mi ricordo, da Genova a Buenos Aires, nel cinque (1905), mi costò 20 scudi (scudo era chiamata la moneta d’argento di 5 lire, quindi 20 scudi = 100 lire). Nel tredici (1913), quando tornai, era già rincarata di cinque scudi: dico, dovetti pagare la bellezza di centoventicinque lire, mica storie” (Claudio Principi, La terra scordareccia, pp. 254- 263, in Civitanova Immagini e Storie, Vol. 3, Civitanova Marche, 1992).

La traversata dell’Atlantico su piroscafi, che sembravano più delle vere carrette del mare, era chiamata lu passàgghju, il passaggio, e già il termine suonava sinistro, alludendo quasi al trapasso da questo all’altro mondo. C’era nell’uso del linguaggio, da un lato la fatalità, rallegrata però da una sana ironia. Chi si era imbarcato pensava anche che, se doveva succedere di perdere la vita, succedesse pure. Oltre ai lunghi mesi di navigazione, al mal di mare, alla nostalgia di dover abbandonare la propria terra, non era infrequente anche qualche affondamento. Nel 1906, a Porto Palos, il piroscafo Sirio, urtando contro uno scoglio, calò a picco e nonostante la tempestività dei soccorsi, nel naufragio morirono più di duecento emigranti, tra i quali diversi marchigiani.

Per la traversata, gli emigranti indossavano i panni più lisi e frusti. Erano li pagni de lu passàgghju. Questi indumenti, a causa degli strapazzi giornalieri a bordo della nave e per la prolungata e deleteria azione salmastra, erano destinati alla più completa rovina, tanto che una volta arrivati a destinazione, gli emigranti li gettavano nelle acque luride del porto di arrivo, vestendosi con i panni nuovi (li pagni vòni), gelosamente tenuti in serbo per potersi presentare in modo decente nel nuovo mondo. Con i panni nuovi, gli emigranti scendevano dalla nave, stringendo nelle mani lu spapiè rrùsciu, il passaporto, che era chiamato così per la copertina rossa. In tasca avevano poche lire e ll’òu tòsto de la ‘Scinziò, l’uovo sodo dell’Ascensione, chiamato così perché deposto dalla gallina in quel santo giorno, fatto rassodare appositamente e conservato per la bisogna. Si credeva che esso avesse il potere di preservare i cristiani da tutti i pericoli che si possono correre sulle acque, scampare cioè da naufragi e annegamenti. Contro gli stessi pericoli, la gente della costa preferiva invece, portare come amuleto l’occhjo de Sanda Lucia. Questo amuleto, l’occhio di Santa Lucia, era costituito dalla concrezione calcarea con un disegno a spirale che si forma sul piede d’un mollusco gasteropode, l’Astrea rugosa, il quale usa tappare ermeticamente la propria conchiglia. Quando non era possibile trovare questa sorte di amuleto, lo si sostituiva con un ciottolo scelto a piacimento lungo la riva del mae (Claudio Principi, ibidem, pp. 255- 263).

La locuzione li pagni de lu passàgghju, annota sempre Claudio Principi nell’articolo citato, è stata prolifica se, fino a qualche tempo fa, ha dato origine ad espressioni entrate a far parte del linguaggio popolare della media val Chienti: “Quèssa camiscia me pare quella de lu passàgghiu; che ‘spetti a ccammiàttela?”. (Codesta camicia mi pare quella del passaggio; che aspetti a cambiartela?). Oppure. “’Sté caze, a ffòrza de commatte co’ lo stabbio, è ddovendate comme quelle de lu passàgghju! (Questi calzoni, a forza di brigare con il letame, sono diventati come quelli del passaggio). E ancora: “Quissu vistitu èsso no’ mme lu mittirìo mango pe’ lu passàgghju!”.  (Codesto vestito costì non lo metterei neanche per il passaggio). Lo stabbio, il letame, deriva dalla parola latina stabula. Erano i ricoveri per gli animali. Parlavano in latino i nostri contadini di una volta, altro che ignoranti, se mai gli ignoranti erano gli altri che li deridevano perché per loro non sapevano parlare correttamente in italiano. Avevano solo trasferito il contenente (stabula) con il contenuto, il letame degli animali, altro termine latino da laetamen laetaminis, ciò che dà giovamento al terreno. La stalla, stabula in latino, era il ricovero per le mucche, lu stallittu, locale più piccolo, per i maiali.

Inutile dire poi che l’emigrazione in terra argentina portò nell’uso comune altre espressioni, alcune delle quali, ricordo, pronunciate da mio nonno paterno, originario di San Claudio, frazione di Corridonia (MC). L’argentino veniva storpiato nel nostro dialetto e dava origine ad una parlata che non sapeva di nulla, non era né italiana, né argentina, ma erano espressioni e neologismi. Esisteva in Argentina un villaggio chiamato Civiscòjo, Chivilcoy, piccolo centro situato a circa cento cinquanta chilometri a ponente di Buenos Aires, dove era facile trovare lavoro seppur temporaneo come ortolani e come braccianti presso le molte fornaci di laterizi esistenti in zona. La località era fuori mano, lontana, dimenticata quasi da Dio e dagli uomini, come l’interno della Lucania nel romanzo Cristo si è fermato ad Eboli, di Carlo Levi. Ecco allora le espressioni: “Ma vanne a Ccivisciò!”. (ma vai a quel paese), “Te daco un gazzòttu che tte sbarzo a Civisciò!”. (Ti do un cazzotto che ti mando a finire a Civiscòjo). “E ddò madòsca sì jitu a ffunì’ che no te se ‘éde più? Do sarai jitu de casa a Civisciò?” (E dove diamine sei andato a finire, che non ti si vede più? Dove hai eletto il domicilio, a Civisciò?).

L’America era per qualcuno una terra che faceva dimenticare il proprio passato e i propri legami familiari. L’uomo sposato partiva per l’Argentina, dicendo alla propria moglie che sarebbero stati separati solo per un paio d’anni, perché o avrebbe chiamato laggiù tutta la famiglia o sarebbe ritornato. Invece, spesso questo non accadeva. Tralascio il testo in dialetto e trascrivo solo la traduzione di Claudio Principi: “Partì nel venti (1920), dopo la guerra, e mi lasciò con due creature a casa di sua madre, una santa donna. Io tirai avanti con quel poco che guadagnavo facendo la lavandaia. Andavo a lavare laggiù alla fonte de Lu Cannellò ( così volgarmente chiamata in loco Fontemurata),  e solo questa povera testa mia sa quanti panni ho trasportato, e solo queste braccia sanno quanti panni ha insaponato e sfregato. Ma a tirare avanti mi aiutò anche la madre, che sfaccendava in giro 8che faceva servizi domestici). Di lui, di quel marito mio scellerato, una lettera per dirmi che era arrivato, e poi più nulla. Nessuno di quelli che tornavano mi sapeva dare qualche notizia, nessuno l’aveva visto; era sparito”.

Fontemurata è una delle tanti fonti che si trovano attorno a Macerata. La donna, nel corso della conversazione con Claudio Principi, conclude dicendo: “Che mi stai a discorrere: quando c’è di mezzo la lontananza e il mare profondo, tutto finisce, perché la lontananza cancella il ricordo e il mare affoga i sentimenti. Quella puttanaccia di terra è proprio terra scordareccia”. Alla richiesta di notizie sui figli ormai grandi, l’arguta vecchietta risponde orgogliosa: “Sistemati benino, grazie a Dio! E quel padraccio non l’hanno cercato mai. Penso che se lo dovessero trovare davanti, prima lo smerderebbero (smerderìa), e poi se lo toglierebbero ben bene dai coglioni (cojòmbri)”. Alla domanda se il marito sia ancora vivo, la donna risponde incattivita: “Se vive, il suo sarà un gran brutto vivere, perché le imprecazioni o le maledizioni io gliele ho mandate tutti i giorni. Se è morto, ebbene non vedo l’ora di andare all’inferno per alimentare il fuoco sotto di lui (non véco ll’ora de jjì a ll’inferno per fàje fòcu)” (Claudio Principi, ibidem, pp.261 – 265). A seguito di questa intervista e di altre ricerche sull’emigrazione degli abitanti di Montolmo, così veniva chiamata Corridonia prima del ventennio, Claudio Principi scrisse, in dialetto di Montolmo, un canto di lamentazione intitolato “La Mèreca”, l’America (Ibidem, pp.267 – 270). E’ di una struggente malinconia ma riproduce emozioni e sensazioni di un passato lontano.

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Claudio Principi (Corridonia 1921- Corridonia 2014) è stato un grande studioso di storia marchigiana. Ha dato alle stampe cinque volumi ineguagliabili: “Dicerie marchigiane tra Ottocento e Novecento”. Costituiscono, al pari di articoli, libri su Montolmo ed il suo territorio, un lascito inestimabile.

Ricciotti Fucchi, di origine romagnola, insegnante nella Scuola Elementare, dopo aver girato per diversi anni in molte sedi scolastiche, dal 1956 scelse Civitanova Marche come la propria patria di elezione. Ha pubblicato due biografie di interesse storico: Michelangelo, un uomo e il suo genio, Fermo, 1974, Francis Drake, il pirata della regina, Bologna, 1961, Spanì e Spanò, Fermo, 1982, un racconto di letteratura per l’infanzia, 101 Amusing Short Stories, testo in Inglese, Gruppo Editoriale Marche, Civitanova Marche, 2005. Al suo paese d’origine, Mensa – Matellica, frazione di Ravenna, ha dedicato i volumi: “C’era una volta “e’ paès”, Ravenna, 1992 e “Il paese e dintorni”, Ravenna, 1995. Ha pubblicato su diversi numeri della collana “Civitanova, Immagini e Storie” studi su Sibilla Aleramo, Giacomo Ciamberlani, Prudencio Jenis, Tonino Bianchini, Giuseppe Gaggegi, l’ippodromo delle Marche, l’emigrazione civitanovese e la storia delle amministrazioni comunali, trattata anche nel volume “Le Municipalità civitanovesi dall’Unità d’Italia ad oggi” (1860-1995), Civitanova Marche, 1998).

Remo Giosuè (Morrovalle 1938 – Morrovalle 2017) è stato cofondatore della ditta Giosuè Otello & Remo, sita a Santa Lucia, frazione di Morrovalle. Nel 2014 ha pubblicato il libro I miei ricordi … una vita, una famiglia, un’azienda.

 

Bibliografia

  1. Ricciotti Fucchi, L’emigrazione all’estero dal territorio di Civitanova tra Ottocento e Novecento, in “Civitanova Immagini e Storie”, Vol. 3, Comune di Civitanova Marche, 1992.
  2. Claudio Principi, La terra scordareccia, in “Civitanova Immagini e Storie”, Vol. 3, Civitanova Marche, 1992.
  3. Claudio Principi, Dicerie marchigiane tra Ottocento e Novecento,  5 Vol. Simple Editore.
  4. Remo Giosuè, I miei ricordi … una vita, una famiglia, un’azienda, Recanati, 2014.
  5. Raimondo Giustozzi, Civitanova nel romanzo “una donna” di Sibilla Aleramo, pp. 12- 18 in Millepaesi, Anno XXXIII – N° 7-  luglio 2014.
  6. Raimondo Giustozzi, Quelli erano giorni, Unitre – Civitanova Marche, 2014.

 

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