di Raimondo Giustozzi
Tra le difficoltà più grosse che l’emigrato incontrava, appena metteva piedi in terra argentina, c’era la non conoscenza della lingua spagnola. Questo dava luogo a malintesi e imbarazzi a volte anche esilaranti. Si racconta di un nostro emigrato che, appena sbarcato a Buenos Aires, vede sul molo due giovanottoni in divisa. Sono due gendarmi. Stanno armeggiando intorno ad un involto. L’italiano, incuriosito, si avvicina a loro, che per tutta risposta lo apostrofano in modo brusco, dicendogli: “Siques de acà!”. Togliti di qui, levati di mezzo. Dal suono della frase, il nostro emigrante capisce: “Sèghete le mà!”. Ségati le mani, e tutto risentito, a muso duro, indicando con un dito i loro piedi, ribatte: “E vvu’ segàteve li pé!”. E voi segatevi i piedi. I due gendarmi non capiscono quello che l’altro abbia detto, ma per la grinta e per il gesto del sopravvenuto, si ritengono offesi e vogliono arrestarlo all’istante per insulti alla forza pubblica. Fortuna vuole che un vecchio connazionale, accorso sul posto, chiarisce l’equivoco e tutto si ricompone.
Tra gli immigrati c’erano anche i lavoratori agricoli stagionali. Erano chiamati “Golondrinas”, le rondinelle. Si sa che l’Argentina si estende tutta nell’emisfero australe, per questo le stagioni sono invertite rispetto alle nostre. Quando qui è estate, laggiù è inverno. Molti marchigiani, quindi, durante la nostra estate lavoravano nella campagna. Al sopraggiungere dell’inverno emigravano nel paese Sud americano per la mietitura e la raccolta del grano (cosecha – pronuncia coséccia). Durante il breve soggiorno imparavano solo pochi termini, pronunciati in modo sbagliato, mescolati a termini dialettali nostrani, creando insomma una lingua tutta loro. Quando rientravano in Italia, parlavano davanti a chi non conosceva una parola di spagnolo, dicendo castronerie le più impensate.
Le cronache raccontano di uno che, per dare ai suoi familiari un’idea della vita condotta in America, se ne esce con questo vanto del tutto spropositato: “Tra ‘na coséccia e ‘n’antra, travaccavo in una cocerìa. Me frecavo quattro cagné a gghiòrnu, e’ ppò, perdìa! Javo in galèra!”. Si dice che alla vecchia madre, sentito questo racconto, per poco non prese un infarto, mentre il figlio con lo sproloquio aveva semplicemente inteso dire: “Tra una mietitura (cosecha, coséccia) e l’altra, lavoravo (travajaba, travaccavo) in una rimessa di vetture a nolo (cocheria, coceria). Mi gustavo (bevendo) quattro bicchierini di distillato di canna da zucchero (cana, cagna) al giorno, e poi, perdiana! Andavo in giro con tanto di cilindro in testa (galera = cappello da cerimonia), perché evidentemente faceva il cocchiere (Claudio Principi, la terra scordareccia, pp. 256- 257, in Civitanova Immagini e Storie, Vol. 3, Capodarco di fermo, 1992).
L’esperienza, vissuta in terra d’Argentina, lasciava il segno, se un cittadino di Corridonia, una volta ritornato in patria, amava parlare in spagnolo, traducendo in dialetto locale quello che stava dicendo nel corso di una conversazione con Claudio Principi. E’ una bella giornata d’autunno, piena di sole: “Linda día” – esordisce il signore che è ritornato dall’Argentina. L’altro capisce che è un modo per dire buongiorno nella lingua spagnola. Claudio Principi conosce il proprio interlocutore e sa che è ritornato dal paese Sud americano. “Linda día – Adè comm,a ddì vella jornata, e ddónga: vongiorno. Linda día adè castegiano, e linda día e bbèlla jornata, se non è ‘guale, se rsomèja come lo córe e lo fugghjà”. E’ come a dire bella giornata, e dunque: buongiorno, Linda día è castigliano, e linda día e bella giornata, se non sono la stessa cosa, si rassomigliano come il correre e lo scappare” (Claudio Principi, Dicerie popolari marchigiane tra Ottocento e Novecento, vol. III, pag. 126, Edizioni Simple, Tipografia San Giuseppe, Pollenza (MC), prima edizione, dicembre 2010).
La traversata dell’Atlantico poteva durare qualche mese se tutto andava bene. Una volta arrivati in Argentina, la difficoltà di comunicare si sommava ad altre mille difficoltà. Andava tutto bene se si incontrava la solidarietà della gente del posto. Si racconta di un emigrato, che giunto in Argentina viene assunto in una falegnameria. La sera stessa della sua assunzione viene invitato a cena dal padrone, uno spagnolo che conosce solo qualche parola spuria di italiano. Il nostro lavoratore parla solo il dialetto, quello di Macerata, e qualche parola di italiano, per altro pronunciata in modo inesatto. La moglie del padrone, per mettere a proprio agio l’ospite, gli chiede se gradisce mangiare lo zapallo (pronuncia zapàgio). Il poveraccio, in preda ai morsi della fame, dovuti ai forzati digiuni della traversata, accetta di mangiare lo zapallo. Gli presentano un piatto di zucca. Lui, più contrariato che deluso, indicando con un dito l’odiato vegetale, identificato con sicurezza, se ne esce, dicendo: “Si cammiato nome, ma te rconòscio, e no’ mme fréchi: tu si la zucca!”. Hai cambiato nome ma ti riconosco, e non mi imbrogli: tu sei la zucca. Poi, prima di iniziare a mangiare, borbotta tra sé un intercalare tutto nostrano, che sentivo spesso ripetere anche da mio zio e mio papà, quando dovevano mangiare la zucca: “La zucca resana, la zucca refresca, un gòrbu a la zucca e a cchji la smenèstra”. La zucca risana, la zucca rinfresca, accidenti alla zucca e a chi la scodella.
Alfabeti di Babele
La contaminazione tra lingue diverse ha dato origine all’uso di termini del tutto nuovi pronunciati e scritti in modo errato sia in Italiano che in Spagnolo. L’elenco è lungo. Bastano alcuni esempi. La “chapa” diventa la ciappa, lamiera ondulata, placca, lamina metallica. Dalla combinazione di due termini, “mas o menos”, è derivato l’avverbio italianizzato dialettizzato massomeno, più o meno, all’incirca. Dalla parola “papelito” nasce la parola papilitu, pezzetto di carta qualsiasi, ma da noi, in provincia di Macerata, cartina per sigaretta da arrotolare con le dita della mano. Il “poncho”, mantello tipico sudamericano, è diventato pongéllu, mannella di canapa pettinata a regola d’arte, pronta da tessere. Il termine era in voga nelle nostre case rurali quando le donne contadine usavano il telaio in casa per tessere. Oggi è diventato un residuato di una vita materiale che non esiste più da tempo. Il verbo “trabajar”, lavorare, nel dialetto si è trasformato in “travaccà”, lavorare.
Mi sia consentita una veloce scorribanda sullo stesso tema ma in contesti storici e geografici diversi. Fin dai primi anni cinquanta del secolo scorso e nei decenni successivi, la Brianza viene investita da una biblica ondata migratoria dalla Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Veneto. Le grandi fabbriche del mobile hanno bisogno di manodopera. Secondo certe stime da Francica, paesino della provincia di Catanzaro, arrivano a Giussano (Mb) più di tremila immigrati. I matrimoni misti, lui calabrese, lei brianzola o viceversa fanno lievitare la cifra iniziale a circa seimila nuovi cittadini giussanesi, di sangue misto. All’inizio, oltre alla mancanza dell’abitazione, molti vanno ad occupare le cascine dismesse o i casot di manzoniana memoria, le difficoltà più grosse derivano dalla lingua parlata dai nuovi arrivati e gli autoctoni. Gli uni e gli altri parlano poco e male l’italiano e si affidano al dialetto. Da qui nascono situazioni a dir poco esilaranti.
“Ul mè magiur l’è a suldà”, dice il signore brianzolo al futuro consuocero calabrese. Questo, sentendo parlare di maggiore e di soldato, si mette sull’attenti, pensando che il proprio interlocutore fosse un maggiore dell’esercito. Il primo voleva dire semplicemente che il figlio più grande (maggiore) stava espletando l’obbligo militare. “La mia miè l’è sempre indree coi bagaj”. Mia moglie è sempre indaffarata con i bambini. Lo stesso calabrese, sentendo parlare di bagagli, si guardava attorno ma non vedeva nessun bagaglio in giro e rimaneva perplesso. I bagaj erano e sono nel dialetto brianzolo i bambini, i ragazzi. Sui piroscafi che trasportavano i migranti, i ragazzi a bordo della nave erano considerati come se fossero bagagli al seguito.
Raimondo Giustozzi
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