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Libri. Santa Lucia di Morrovalle nella ricerca storica Epigrafi, manufatti, toponimi

Santa Lucia di Morrovalledi Raimondo Giustozzi

Santa Lucia, frazione di Morrovalle: una chiesa per altro chiusa, una scuola elementare trasformata nel centro ACLI,  uno spaccio dove si può acquistare di tutto, una ditta artigiana che produce carpenteria in ferro, una fabbrica di mobili, poche case che si distribuiscono ai lati della strada per Civitanova – Macerata, attorno tutta campagna profonda coltivata a grano, girasoli, erba medica, vigne. Negli anni Sessanta del secolo scorso, la frazione pur piccola era densamente popolata. Oggi ci sono più case che abitanti. Molti sono andati ad abitare a Civitanova Marche, Monte San Giusto, Montegranaro, Trodica, altra frazione di Morrovalle, dove c’era lavoro, soprattutto nel settore della calzatura e nel suo indotto: scatolifici, bottonifici, pelletterie, tomaifici, solettifici.

Santa Lucia di Morrovalle, un posto anonimo, da sempre lontano dal mondo, dirà qualcuno. Eppure, leggendo quel che è stato pubblicato da appassionati di storia locale e da studiosi del passato, la frazione occupa un posto di rilievo nella ricerca storica. Mario Latini, Pietro Diletti, Vincenzo Galiè, per restare a quelli più recenti, hanno consegnato ricerche non di poco conto legate alla piccola frazione di campagna. Eccezionali rinvenimenti archeologici hanno permesso di scrivere la storia di Morrovalle, in parte partendo proprio da qui.

Scrive Mario Latini: “Presso la frazione di Santa Lucia, in un terreno di proprietà dei conti Lazzarini, nel luglio 1878, fu rinvenuto un monolito cilindrico di tufo, alto cinquanta centimetri dal diametro esterno di quarantadue centimetri e interno di centimetri trentadue. La parte superiore del cilindro ha un foro di circa tre centimetri che si allarga in forma conica verso il basso, restringendosi poi nuovamente fino a formare un solido battente combaciante con il pesante basamento su cui poggia. Attraverso il piccolo foro della parte superiore passavano le monete e attorno ad esso, disposta in modo circolare, si evidenzia questa scritta: “Maxima Nasia C.N.P. Apoline dat”. Armellini, archeologo e Sangiorgi, antiquario, dichiararono che la scritta andava così interpretata: “Maxima Nasia Gnei filia Apollini dat (offert)”(Mario Latini, attorno al castello di Morro, un  giorno lontano, pp. 10 – 11, Pollenza, 1979).

L’epigrafe va tradotta così: Nasia, donna di una certa importanza (maxima), figlia di Gneo (nome gentilizio) , (offre) in dono ad Apollo l’offerta (la /e moneta /e). Il culto verso Apollo era assai diffuso nelle campagne attorno a Santa Lucia. Scrive Pietro Diletti: “Il tempio dedicato ad Apollo doveva sorgere vicino ad una fonte antica accanto al fosso Rio Maggio, a metà della strada che congiungeva l’abbazia di S. Maria in Cervara e Santa Lucia” (Pietro Diletti, per la storia di Morrovalle, contributi e ricerche, pag. 31, Macerata, 1991). Sul famoso cippo, dedicato ad Apollo con l’iscrizione riportata sopra, Pietro Diletti scrive che “Fu rinvenuto nel terreno del sig. Emiliani, situato verso il Fosso delle Cervare, in località Santa Lucia” (Ibidem, pag. 31).

Sull’ubicazione del fosso e della strada, Vincenzo Galiè, uno dei topografi più insigni, scrive: “Dalle mappe apprendiamo chiaramente che l’attuale fosso delle Cervare aveva, invece, il nome di Rio Maggio. Anche gli Statuti di Morrovalle, stampati nel 1570, chiamano il fosso con tale nome” (Vincenzo Galiè, la città di Pausulae e il suo territorio, pag. 90, Macerata, 1989). “Il nome Cervare non va riferito al fatto che nella località sarebbe esistito un parco di cervi, ma va riferito al sanscrito Sarvari ed al greco Kerberos che significano l’oscurità della notte. Era la notte – dunque – quella a cui si rendeva culto nell’estremità, verso oriente, del nostro territorio, là dove nel Medioevo si trovava l’Abbazia di S. Maria in Cerbaria” (Foglietti, Nota 14, ibidem, pag. 31).

Continua ancora Vincenzo Galiè: “Nella descrizione delle strade, infatti, compare un diverticolo che da Santa Lucia conduce al ponte della Cervara che è posto sul rivo chiamato dal volgo Rio Maggio; tale via, è da tenere a mente, conduce fino ai confini di Morro e Macerata. Anzi, dal catasto morrovallese del 1589 e da quelli posteriori veniamo a conoscere che lo spazio situato a ponente della chiesa di Santa Lucia viene indicato con il nome della santa, mentre quello situato a sud – ovest porta il nome di Rio Maggio; questo toponimo viene utilizzato per designare l’area collinare a ponente del fosso omonimo” (Ibidem, pag. 90).

Grandi i contadini (volgo) di allora. Non ho mai avuto nessun dubbio su questo. Devono ricredersi coloro che li hanno sempre indicati come ignoranti. Chiamavano il fosso delle Cervare con il vero nome di Rio Maggio, come negli Statuti Comunali. Il diverticolo di cui parla il testo c’è ancora. E’ una stradina brecciata che inizia sulla destra, per chi viene dal capoluogo comunale, poco prima dell’insegna che reca scritto Santa Lucia frazione di Morrovalle. La stradina è seminascosta da grandi querce secolari.

La strada scende verso la campagna, costeggia due case coloniche, attraversa il fosso per mezzo di un ponte e risale la collina delle Cervare. L’attraversamento del fosso è stato sempre un problema, soprattutto quando piove a dirotto e il ponte si allaga. Giuseppe Gioachino Belli, molto legato a Morrovalle per l’amicizia che lo legava alla marchesa Vincenza Roberti, fu costretto a rimanere per più giorni in casa di una famiglia di contadini e mangiare quel che c’era, perché alle Cervare era crollato il ponte sul Rio Maggio.

Scrive ancora Vincenzo Galiè: “Un tesoretto di denari repubblicani in località Montanari – Santa Lucia è stato dissotterrato nel 1965. Ebbene, credo si possa affermare che tutti i ritrovamenti rinvenuti nell’area dal 1830 al 1965 riguardano la stessa area santuariale, cioè quella della fonte antica situata a nord – ovest della casa colonica abitata, fino a qualche anno addietro, dal sig. Bigioni, soprannominato Visciò o Vescovo. Come racconta il sig. Sesto Foresi di Civitanova, che conosce bene la zona, la sorgente un tempo era situata circa 150 metri più in alto, in direzione sud – est e l’acqua, attraverso una conduttura ora stravolta, veniva convogliata nella fonte” (Vincenzo Galiè, la città di Pausulae e il suo territorio, pag. 95, Macerata, 1989).

Santa Lucia di Morrovalle è balzata agli onori della cronaca qualche anno fa a seguito degli scavi per la posa in opera del metanodotto San Marco – Recanati. All’inizio si pensava ad una fornace di epoca romana anche per la grande quantità di ceramica a vernice nera e soprattutto una gemma in ematite raffigurante un individuo che suona la cetra. I reperti hanno lasciato supporre, come sostenuto in passato da molti studiosi, sulla presenza nelle vicinanze di un Fanum. Il termine indica nelle fonti antiche genericamente un luogo sacro. Poco distante da questa area, nel medesimo sito, altrettanto interessante è la presenza di due strade di epoca romana.

I preziosi reperti archeologici ritrovati e restaurati sono ora nel Museo Pinacoteca di palazzo Lazzarini a Morrovalle e possono essere visitati con la guida gratuitamente a cura dell’Archeoclub di Morrovalle”(turismo.comune.morrovalle.mc.it; http://turismo.comune.morrovalle.mc.it). I resti di una strada consolare romana, che metteva in comunicazione la valle del Potenza con quella del Chienti, furono scoperti per caso da padre Antonio Maria Costantini, frate e amatore di antiche memorie, di Potenza Picena. In un mese imprecisato del 1716, a seguito di piogge torrenziali che procurarono nel territorio smottamenti e frane, andando a spasso per la campagna di Montelupone, giunto all’altezza dello Scorofione, gli accadde di vedere un ammasso di pietre già disciolte dalle acque, ed una strada larga dai 15 ai 20 palmi, con pietre ben connesse e lastricate.

Lo Scorofione, scriveva il Costantini, “somiglia ad una torre lavorata ad arena e calce all’antica, come diciamo noi, fabbricato a cassone… di consimile forma, di positura e di lavoro” (Vincenzo Galiè, personaggi, insediamenti e istituzioni medievali nell’area di Monte San Giusto, pag. 39, Macerata, aprile, 1990. Lo Scorofione esiste tuttora e rappresenta il termine di divisione tra il territorio di Morrovalle, Macerata e Montelupone. Nei campi prospicienti il manufatto è possibile anche oggi trovare ancora molto pietrisco disseminato nel terreno. Quanto alla strada doveva essere abbastanza larga. Se 1 palmo misurava 25 – 26 centimetri, la strada era di circa 5 metri.

Il frate di Potenza Picena chiede ai contadini della zona notizie su questa novità che aveva scoperto con i propri occhi. “Questi risposero con franchezza che le piogge avevano scoperto quella strada che dal piano del Potenza saliva a quella parte, la sommità del territorio delle Cervare, ed andava verso il Chienti, dove era una città grande come Roma”. Nella loro fantasia, la città di Pausola che si estendeva nella vallata del Chienti, era simile alla città eterna. “Nel sentire la semplicità dei contadini” – continua il religioso – “e le frange della tradizione, o memoria della città, mi posi a vedere, e nel tempo stesso ammiravo la scoperta della strada che poteva essere sotterra circa sette o otto palmi (circa 2 metri), tutto disposto ad una pubblica via consolare, e ne partii con la continua ricordanza… ora, combinando io le distanze dalle vere rovine della città di Potenza fino al pezzo della strada scoperta dalla pioggia, e di qua intersecando i campi di Santa Lucia, senza attraversare il Trodica (fosso) fino verso il sito di Pausola… con pieno ripensamento vengo a concludere… che ella tenea la sua locazione nei piani di San Claudio, come nel Ministerium (Nota) di San Giuliano sopra il Trodica, come nei piani superiori spettanti al territorio di Morro in Ministerio Valle o de Valle, e come città vasta e numerosa di popolo, questa tenea la sua locazione in diversi luoghi tra il piano e la costa del Chienti, come anche persino all’Asola” (Mario Latini, Nebbia di ricordi, profumo di cose perdute, pp. 114- 115,  Recanati, aprile 1995).

Pausola era una città romana di piccole dimensioni, mi diceva don Benedetto Nocelli, parroco di San Claudio per oltre cinquant’anni, cultore come pochi altri di memorie locali. Aveva messo più di dieci anni per decifrare un’epigrafe ora incastonata sul muro di contenimento della scalinata esterna per salire alla chiesa superiore, a destra prima di entrare nella chiesa inferiore di San Claudio. L’epigrafe, messa su una tomba di epoca romana, parla di una bambina morta in tenera età e pianta dai propri genitori sconsolati. Il parroco riteneva che Pausola era una piccola sosta quasi obbligata per chi percorreva la “Via antiqua quae venit a mare”, prima di scendere verso il mare o salire verso l’interno.

Non costa niente immaginare queste antiche strade consolari romane percorse da focosi cavalli iberici trainare il cisium, un calessino veloce e leggero. La raeda, carro a quattro ruote, trainato da cavali o da buoi, era invece un mezzo di trasporto per carichi pesanti. Anche il plaustrum, a due ruote, ma solido, era ugualmente usato per il trasporto delle merci, tirato da buoi, asini o muli. Il serracum, con ruote più basse e più solide, era impiegato per il trasporto di carichi pesanti. Elegante e comodo era anche il carpentum, a due ruote, tirato da due muletti. La carruca, carro coperto, vi si poteva anche dormire, per le comodità, per la finezza degli ornamenti e la relativa celerità, era un veicolo di lusso. Era anche facile incontrare lungo le strade consolari più importanti le positae, vere e proprie stazioni di servizio, vi si poteva dormire, mangiare un frugale pasto e cambiare i cavalli per il giorno successivo. Senz’altro ce ne saranno state lungo la “via antiqua quae venit a mare” che costeggiava il fiume Chienti e collegava con atri diverticoli dell’interno  l’Adriatico con il Tirreno.

Molte volte mi sono chiesto dove fosse ubicato, a Santa Lucia di Morrovalle, l’antico castello dei Lazzarini, fatto demolire da Giulio II nel 1500 per alcuni misfatti operati da membri della famiglia. L’antico portale di questo castello è lo stesso dell’attuale palazzo Lazzarini in piazza Vittorio Emanuele, il salotto buono di Morrovalle. Abitando per tanti anni, l’infanzia e l’adolescenza, nella piccola frazione di campagna, ho immaginato sempre che fosse posto sulla sommità della collina dalla quale lo sguardo spazia dal mare Adriatico ai Monti Azzurri di leopardiana memoria. E’ il posto più incantevole, quale si addiceva ad un casato di alto lignaggio. Il terreno lavorato da mio papà e da mio zio, mezzadri dei Lazzarini, rendeva sempre dopo ogni aratura: mattoni, blocchi di marmo e reperti fittili. La mia è solo un’ipotesi non suffragata da documenti scritti, ma questo è solo un dettaglio. Saranno altre ricerche a documentarlo, per ora gli storici non hanno risolto l’enigma se così può essere definito un problema del tutto secondario.

Nota: Il  “ministerium” già dall’epoca carolingia ed ottoniana era un insieme di beni che potevano andare dal possesso di terreni, abbazie, riscossione di imposte per conto dell’imperatore.

 

Raimondo Giustozzi

 

Bibliografia

  1. Mario Latini, attorno al castello di Morro, un  giorno lontano, Pollenza, 1979.
  2. Pietro Diletti, per la storia di Morrovalle, contributi e ricerche, Macerata, 1991.
  3. Vincenzo Galiè, la città di Pausulae e il suo territorio, Macerata, 1989).
  4. Mario Latini, Nebbia di ricordi, profumo di cose perdute, Recanati, aprile 1995.
  5. Vincenzo Galiè, personaggi, insediamenti e istituzioni medievali nell’area di Monte San Giusto, Macerata, aprile, 1990.

Su don Vincenzo Galiè rimando al link sotto riportato.

https://www.lavocedellemarche.it/2018/03/parroco-e-storiografo/

 

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