di Raimondo Giustozzi
La chiesa
Dopo i terremoti del 2016- 2017, molte comunità hanno abbandonato i propri territori d’origine in attesa di tempi migliori. Morrovalle è stato toccato solo marginalmente dagli eventi sismici. Eppure molti suoi edifici di culto sono stati dichiarati inagibili; lo è stato anche per la chiesa di Santa Lucia, piccola frazione del capoluogo comunale. Il terremoto ha aggravato la sua struttura per altro già precaria. La costruzione poggia, infatti, su un terreno estremamente friabile. Il sondaggio eseguito l’ha evidenziato chiaramente. A scopo precauzionale, la parete che guarda verso la strada provinciale per Macerata e una porzione di quella che insiste sulla piccola piazza antistante sono state puntellate con colonne in ferro per tutta l’altezza dell’edificio. Le due finestre in alto, che guardano sempre verso ovest, sono state rinforzate da travi in legno.
La spesa per il lavoro di consolidamento di tutta l’area perimetrale dell’edificio sacro si aggira sui cinquantamila euro. Sarà la parrocchia di San Bartolomeo a farsi carico di coprire la spesa. Sono ben accette donazioni di privati cittadini che vanno a sostenere il progetto peraltro già approvato. Attorno all’area esterna e interna sarà messa una sorta di micropali con colate di calcestruzzo che consolideranno il terreno sottostante. Questo fu comunicato alcuni anni fa dal parroco don Luigino Marchionni dopo la celebrazione eucaristica presso il Circolo ACLI trasformato in una Domus Ecclesiae, casa dell’assemblea, come succedeva nei primi anni dell’era cristiana.
Scheda tecnica della chiesa
La facciata della chiesa, a capanna, costituita da due spioventi, che seguono la forma dell’unica navata, è sormontata dal frontone, di forma triangolare. Quest’ultimo racchiude il timpano, la porzione di muro posta all’interno della cornice del frontone. Il portone, in legno, è sormontato degli stessi elementi architettonici ma in scala ridotta. Tutto l’edificio sacro, all’interno e all’esterno era stato restaurato pochi anni prima del terremoto. Anche l’annessa canonica, abitata in anni diversi da famiglie diverse, è stata fatta oggetto di una robusta ristrutturazione. Negli anni in cui non era abitata, i locali al primo piano venivano usati un giorno alla settimana, dopo cena, per gli incontri di formazione con la presenza di don Eugenio De Angelis, il vice parroco della parrocchia San Bartolomeo di Morrovalle. La chiesa è dotata di un piccolo campanile a vela. La campana veniva suonata tre volte prima delle due messe, celebrate di domenica, la prima alle 8,00, la seconda alle 11,00.
L’abside della chiesa, a pianta semicircolare, ospita al centro una grande pala d’altare raffigurante la Sacra Famiglia e Santa Lucia nell’atto di venerazione verso la Madonna, il Bambino Gesù e san Giuseppe. La tela, in olio, è di un pittore civitanovese. Sulla parete di sinistra, una tela sempre ad olio ha per tema la Madonna che raccoglie sulle proprie braccia il corpo di Gesù. Due nicchie racchiudono due statue in gesso, l’una di Sant’Antonio patrono degli animali, l’altra di San Vincenzo Ferreri, patrono della campagna. Sulla parete di destra spicca un grande crocifisso in legno. Altre due nicchie ospitano, una l’effigie della Madonna di Loreto e una statua del Sacro Cuore di Gesù. Nell’aula adibita all’assemblea dei fedeli, sulla parete di destra, in occasione del dogma dell’Immacolata Concezione, una nicchia riproduce l’apparizione della Vergine Maria a Santa Bernadette Soubirous. I contorni della nicchia, in cartongesso, riproducono con una certa quel grazie la grotta di Massabielle. La base della stessa, adornata di vasi, reca scritto: “Io sono l’Immacolata Concezione”
La volta della chiesa è un controsoffitto in cannicciato intonacato, priva di qualunque funzione statica, costruita per abbellire e nobilitare lo spazio dell’edificio sacro con colori tenui. Ricordo di aver notato questo tipo di controsoffitto, chiamato anche camorcanna, quando mi sporsi da una piccola feritoia nel piano superiore della casa attigua alla chiesa e vidi il controsoffitto della chiesa costruito con tante canne legate assieme a formare dei graticci e curvate leggermente. Ero poco più che un ragazzo. Si sa che certe scoperte rimangono impresse nella memoria anche se il tempo passa.
Le memorie del passato
Gli abitanti di Santa Lucia ci tengono alla loro chiesa. In un passato remoto, la locale chiesa era anche parrocchia. La parrocchia, altro termine greco, derivante da due parole traslitterate nella lingua italiana in parà e oichìa, attorno e casa, sta ad indicare quel territorio più o meno esteso che sta attorno alla casa per eccellenza per un cristiano, la chiesa, dove si raduna l’assemblea (ecclesia) dei fedeli. In un documento risalente all’ottocento d. C. (IX sec.), esistente nei musei vaticani, a Roma, si attesta l’esistenza della parrocchia Santa Lucia, inglobata poi nell’attuale parrocchia San Bartolomeo. L’altra parrocchia, quella del Sacro Cuore è a Trodica di Morrovalle, la frazione più popolosa del comune, tanto che ha superato e notevolmente la popolazione residente nel vecchio centro storico.
La costruzione della chiesa dedicata a Santa Lucia, nell’omonima frazione, risale alla fine del mille ottocento. Forse il primo edificio di culto era quattrocento metri più avanti, andando verso Macerata, prima del curvone, a sinistra, sull’altro lato della strada. Al posto della chiesetta, proprio nello spicchio di terreno, che fa angolo, c’è ora una casa privata, recentemente restaurata. L’esistenza del luogo di culto è testimoniata anche da una carta topografica molto antica; alla stessa altezza dove ora si trova la casa privata, viene riportata una croce che nelle carte del tempo indicava sempre un edificio religioso. Anni addietro, a seguito di scavi effettuati attorno al perimetro dell’abitazione, furono rinvenuti resti di tombe. Si sa che prima dell’editto di Saint Cloud (12 giugno 1804) emanato da Napoleone Bonaparte, i morti erano sepolti nelle chiese.
L’edificio in questione si trovava poi all’inizio della stradina brecciata che, intersecando i campi di Santa Lucia ad Est, andava verso Morrovalle. Costeggiava sul fondovalle le fonti d’acqua sorgiva. La stradina era chiamata dagli abitanti del posto la “corta”. In realtà il tragitto per Morrovalle era più breve. Fino agli anni cinquanta del secolo scorso era percorsa soprattutto da chi andava a piedi o in calesse tirato dal cavallo. Le fonti d’acqua rappresentavano il ristoro e una breve sosta all’ombra di querce secolari. L’avvento della macchina cambiò tutto. Si preferì allora disegnare sul territorio altri tracciati che permettessero di affrontare salite più dolci. Di questa stradina ora non rimane più nulla. Per un breve tratto è ancora brecciata, poi diventa sterrata. Il ponticello che permette di superare il fosso c’è ancora. Le fonti sono ricoperte da piante infestanti. Cinquanta, sessant’anni fa le donne vi si recavano per fare il bucato.
Le chiese di campagna come le scuole rurali hanno da sempre rappresentato l’identità di un territorio e gli unici luoghi di aggregazione. Negli ultimi decenni la campagna è stata abbandonata a favore delle aree urbane. Anni fa l’Archeoclub di Macerata censì quasi tutte le chiesette rurali della provincia. “Situate spesso in luoghi fuori mano, inaccessibili o remoti, talvolta inglobate in altre strutture che le celano all’occhio meno attento, le chiese di campagna hanno la sorte di essere meno conosciute” (Gianfranco Paci, Alla scoperta di un patrimonio: le chiese del Maceratese). Ricordo ancora la chiesetta San Giacomo, in località Bitonto di Macerata. Era davvero fuori mano, circondata soltanto dal silenzio della campagna. Nella casa attigua vi abitava una zia, sorella di mia mamma. La chiesa di Santa Lucia, frazione di Morrovalle non morirà mai finché ci sarà chi si occuperà di lei. Il direttivo del Circolo ACLI l’ha presa come in affido.
Quando la casa annessa era abitata, la famiglia provvedeva alla custodia dell’edificio e a tutte le altre incombenze come pulire la chiesa, adornare l’altare con fiori, suonare la campana che chiamava i fedeli alle due messe della domenica. Negli spazi attigui alla casa c’era anche un giardino con tante rose e un orto ben tenuto. In un’altra striscia di terreno, donato dalla parrocchia, negli anni settanta del secolo scorso un bocciodromo che ha favorito per circa vent’anni una grande socializzazione.
Le festa di Sant’Antonio
Due erano le feste religiose molto sentite dai fedeli, la festa di San Vincenzo Ferreri, patrono della campagna e Sant’Antonio Abate. La prima cadeva generalmente a primavera inoltrata, la seconda il diciassette di gennaio. La festa di Sant’Antonio cadeva e cade tuttora al diciassette di gennaio, quando le giornate si allungano e le notti si accorciano: “Per Sand’Andò, un cargio de vò/ Per Pasquetta, ‘na mezz’oretta”. Recitava così l’antico adagio popolare. Generalmente, nei giorni più freddi del mese, il contadino rimaneva rintanato nella stalla, riscaldata dall’alito delle mucche. Aggiustava gli attrezzi agricoli che sarebbero tornati utili nel lavoro dei campi all’inizio della bella stagione: rastelli, vanghe, zappe, roncole, falcia fienaie. Intrecciava canestri di vimini usati per il trasporto del fieno nella mangiatoia. Riparava le cassette per la raccolta dell’uva. Se possedeva il capanno, si dava da fare per smontare e rimontare tutte le parti di cui era composto il trattore agricolo, un Fiat 125: motore, freni, frizione, cambio, cingoli. Mio zio, da autodidatta, era capace di ricomporlo perfettamente dopo averlo smontato pezzo per pezzo e aver provveduto a pulire, oleare tutte le parti meccaniche. Possedeva conoscenze e risorse impensabili.
Se le giornate si allungavano e il ghiaccio non imprigionava più la campagna, si andava a potare gli alberi che crescevano sugli argini dei fossati. I tronchi e le fascine raccolte venivano riportate in seguito nello spazio coperto, attiguo al forno dove settimanalmente si cuoceva il pane per la famiglia. Quando si lavorava nei campi era superfluo sapere che ora fosse. Se era mezzogiorno, bastava che mio papà e mio zio alzassero gli occhi verso casa. Se vedevano che alla ringhiera del terrazzo era appesa una grande tovaglia bianca, voleva dire che mia mamma e mia zia avevano preparato il pranzo. Li aspettava una calda zuppa di fagioli o di ceci di cui andavano ghiotti.
E arrivava così il 17 gennaio, la festa di Sant’Antonio, il protettore degli animali. Le stalle erano piene di mucche, vitellini e manzi. Il pollaio era il regno di polli, galline, anatre, oche, tacchini. I maiali grugnivano nei loro ricoveri, con la “trocca”, il trogolo riempito continuamente di ghiande, zucche, barbabietole, il tutto mischiato ad una brodaglia calda, resti della cucina. La festa di Sant’Antonio, nella piccola frazione di campagna, veniva celebrata con una messa e con la benedizione delle panette. Erano dei piccoli pani che venivano dati in pasto agli animali in segno di devozione. Questi ultimi, fossero da stalla o da cortile, rappresentavano la ricchezza, l’unica che si conoscesse, in tempi assai grami. Ecco perché tutta l’attenzione era rivolta verso di loro. Non c’era stalla qui ma anche nella Brianza contadina che non avesse il calendario di Sant’Antonio.
Oggi, scomparso il mondo contadino, chiuse le stalle, rimangono, tra gli animali, quelli che fanno compagnia. Senza di loro la vita risulta più triste e monotona. Sono gatti, conigli, cani al guinzaglio di ogni taglia, in braccio ai loro patroncini e una capretta. La statua del santo è davanti alla facciata della chiesa. Tutto viene fatto nella semplicità e nel buon gusto. Non mancano le panette che una volta il contadino dava alle mucche nella stalla. Gli animali sono i fedeli amici degli uomini. Danno gioia, aiutano a superare la solitudine. A loro si deve rispetto perché fanno parte del creato. Sono doni, come la pioggia, la neve, il sole, il vento. Le radici e le ali. Le radici sono quelle che uno si porta dietro fin dalla nascita. Si costruisce la propria identità. Si conoscono ambienti, situazioni, persone. Le ali rappresentano i sogni, i desideri, la realizzazione di sé, che non si raggiunge da soli ma assieme agli altri. Anche la festa di Sant’Antonio, protettore degli animali, è un mezzo per riaffermare la capacità di stare insieme e di sconfiggere la solitudine e la tristezza per gli effetti del terremoto prima, della pandemia dopo e della scellerata guerra in Ucraina dei nostri giorni.
La festa di San Vincenzo Ferreri
La festa di San Vincenzo Ferreri, protettore delle campagne, cadeva all’inizio della primavera. Richiamava tanta gente dalla campagna ed anche dalle frazioni più lontane: Burella, Cervare, Montenovo. Un tempo la campagna attorno a Santa Lucia di Morrovalle era densamente abitata. In ogni casa, sotto lo stesso tetto, abitavano più nuclei familiari. Era il modello della famiglia patriarcale. Nella mia famiglia era anche l’occasione per incontrarsi con i parenti. Si andava a parente. Non lo si sapeva, ma quando si usava questa espressione ci si rifaceva alla lontana lingua latina. Il termine parens, parentis è il genitore. Le zie, figlie dei miei nonni paterni, venivano a trovare i propri genitori (ad parentes, complemento di moto a luogo. tradotto dai / presso i genitori). Con gli zii e zie venivano anche i cugini con la corriera di Perogio.
La festa era organizzata dai festaroli, volontari che pensavano a tutto. Al mattino i festeggiamenti religiosi prevedevano ben quattro messe; al pomeriggio c’era la tradizionale processione con la statua di San Vincenzo, adagiata su una sorta di portantina, portata a spalla da quattro uomini. Non mancavano poi gli spari che aprivano la giornata di festa ed accompagnavano la processione stessa. Arrivavano le catene, le giostre rudimentali di allora, che si piazzavano sul prato antistante la vicina casa colonica di Stefoni Galizio. Alla sera, divenuto buio, si fissava un grosso lenzuolo bianco su una parete della stessa casa, le persone si accomodavano come potevano in terra sul prato e si dava il via alla proiezione di film strappa lacrime: “Catene“, “Le piccole orfanelle“, con Amedeo Nazzari, Alida Valli ed altri grandi attori del momento.
La corrente elettrica viene portata a Santa Lucia nel 1954. Paolo ed Otello Giosuè non disarmano. Sanno il fatto loro. Adattano il proiettore del film al motore di un trattore, proprietario Sante Pezzola e con la potenza adeguata riescono a far girare un gruppo elettrogeno. Non mancavano le bancarelle con le girandole, le noccioline, i lupini, le bambole, esse si distribuivano davanti alla casa di Garbuglia Luigi e di sua moglie Arduina, proprietari di una piccola cantina, dove si vendeva anche sale e tabacchi. Altre bancarelle si mettevano di fronte alla chiesa ed ai lati della strada che attraversa la piccola frazione in tutta la sua estensione. Veniva poi il momento dei giochi popolari: la corsa con i sacchi, la rottura delle pigne, la gara della pastasciutta, l’albero della cuccagna, il tiro della fune, il gioco delle bocce a campo libero, il gioco delle carte o della morra.
Un altro sport praticato dagli appassionati di caccia, tra tutti Paolo ed il suo amico Umberto Garbuglia, era il tiro del gallo, uno sport messo al bando qualche anno dopo per la crudeltà con cui veniva trattato il malcapitato animale. Questo sport venne sostituito con il tiro al piattello. Alla sera non mancavano mai i fuochi pirotecnici che chiudevano la giornata. La festa di San Vincenzo è stata riportata agli onori della cronaca da circa quindici anni, grazie al gruppo ACLI, dopo venticinque anni di oblio. La pandemia da Covid 19 ha azzerato anche questo momento di svago molto partecipato anche per la sagra dei vincisgrassi delle vergare.
Mese di maggio e ottavario per i defunti
Altri due momenti di religiosità popolare erano rappresentati dal mese di maggio dedicato al rosario e dall’ottavario dei defunti nel mese di novembre. Il mese di maggio era organizzato nei primi anni cinquanta da Tasso Maria. Negli anni successivi l’organizzazione divenne quasi corale. Ognuno si sentiva coinvolto. L’ottavario dedicato al ricordo dei defunti durava una settimana che variava negli anni, anche perché veniva celebrato pure nella chiesa di San Bartolomeo e nelle altre frazioni della parrocchia: Borgo Pintura e Cunicchio. Nella chiesa di Santa Lucia officiava don Primo Antonelli, dopo la sua morte, la messa era celebrata da don Eugenio De Angelis o dai padri Passionisti
L’ottavario era una funzione molto sentita. “Pietà dell’alme misere./ I falli, lor perdona, /eterna pace dona, / luce perpetua dà“. Era un canto che accompagnava tutta la funzione religiosa. Non si aveva tempo di fermarsi alla cantina di “Scialò“, terminata la messa, come accadeva invece alla domenica. C’era da abbeverare le mucche o terminare la semina. Già la nebbia avvolgeva la campagna. Aggiogate le mucche, preparata la seminatrice, ci si inoltrava per i campi, accompagnando il lavoro con canti che avevano il potere di alleviare la fatica fisica. L’usanza di cantare si data in tempi assai lontani, tra le due guerre, poi questa cultura si è persa col tempo. Oggi rimane solo il ricordo di epoche lontane avvolte nella nebbia e mortificate dai tempo presente carico di preoccupazioni ogni giorno crescenti.
Mi piace comunque lasciare il lettore con la canzone “Dono del vento” di Davide Van de Sfroos, al secolo Davide Bernasconi. Ho sempre trovato la canzone come un inno alla vita: “Dove vai a cadere foglia bruna / Dove ti porteranno il vento e la fortuna…”. Van de Sfroos nel dialetto brianzolo – comasco va tradotto con vanno di frodo. Il paesaggio è quello amato dal cantautore comasco ma caro anche a me che ho fatto mio nei lunghi anni di permanenza in terra brianzola: lago di Como ma anche di Oggiono, Alserio, Longone al Segrino, poi i tanti boschi del territorio brianteo. Anche in certi angoli delle Marche o semplicemente lungo i viali alberati delle nostre cittadine e paesi è possibile vivere le stesse sensazioni, soprattutto in autunno quando cadono le foglie, segno e destino della caducità della vita. Se questo è vero, altrettanto vero è che “Nulla ci è estraneo di tutto ciò che è umano”.
Raimondo Giustozzi
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