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Libri. Santa Lucia frazione di Morrovalle: Il Circolo del Rinnovamento, gli aquiloni, Vespa e Lambretta, i giochi dei ragazzi, le partite di pallone e le merende

Vola Colombadi Raimondo Giustozzi

Il Circolo del Rinnovamento

Dell’infanzia trascorsa nel suo luogo di nascita, Gianni ricorda i mesi e le stagioni dell’anno con il raccolto del grano, dell’uva, delle olive, i normali giochi con i bambini della sua età, la Scuola Elementare ed un piccolo locale situato accanto ad un negozio di generi alimentari, gestito da Tasso Pacifico e da sua moglie Maria. La sala, chiamata col nome ambizioso “Circolo del Rinnovamento” era il ritrovo obbligato per ragazzi ed adulti che si ritrovavano assieme alla domenica pomeriggio per ammirare entusiasti, per la prima volta, sul piccolo schermo, le avventure di Rin- Tin- Tin, vedere qualche partita di calcio, seguire il Giro d’Italia o il tour  de France. Altri, allora ragazzi, oggi anziani, ricordano le puntate di “Canne al Vento”, il romanzo di Grazie Deledda nella riduzione televisiva. Gli spettatori erano ragazzi e adulti. Il locale era conosciuto anche con il Circolo delle quattro erre: rettitudine, rendimento, responsabilità e rispetto.

Si pagava una piccola tessera che dava diritto ad entrare nel locale, chi non l’aveva, rimaneva fuori; c’era anche chi non se la poteva permettere o qualche volta non l’aveva con sé, non importava, non aveva diritto ad entrare. Errico Cacchiarelli, un signore che abitava nella contrada Burella, apriva e chiudeva il circolo ogni domenica, ricorda Marcello Gabellieri. Piccoli e grandi seguivano con attenzione le notizie date dalla televisione. Non c’erano giornali, né c’era nemmeno la possibilità di spostarsi con frequenza in altri posti. Il capoluogo di provincia era lontano. Ci si arrivava con la corriera, attraverso la provinciale non ancora asfaltata. Le poche macchine che passavano sulla strada, polverosa d’estate e fangosa d’inverno, si potevano contare sul palmo di una mano. L’asfaltatura avverrà nei primi anni Sessanta sotto le maestranze dell’impresa Sardellini di Macerata. Il collegamento con Macerata e Civitanova, andata e ritorno, era fornito dalle corriere della ditta Perogio, sempre di Macerata, con tre corse giornaliere, al mattino, nel primo pomeriggio e alla sera.

Gli aquiloni

La strada era anche il palcoscenico dove un gran numero di ragazzi giocava tranquillamente senza la paura del traffico. Si improvvisavano corse ciclistiche, gare di velocità e nei giorni di sole e vento, in primavera, sempre di domenica, ci si dava appuntamento dietro la nuova scuola elementare, sotto la grande quercia che esiste tuttora, all’inizio della stradina brecciata che scendeva verso le case di Cerquetella, Giorgini, Cardinali. Ogni ragazzo portava il proprio aquilone che aveva confezionato con cura a casa. Era una fantasmagoria di colori variopinti. Si accennava una breve corsetta. Si srotolava il filo e, se il vento era abbastanza forte, l’aquilone si innalzava nel cielo. Tutti stavano con il naso all’insù per seguirne la traiettoria. Qualcuno, munito di motorino, partiva a razzo per corrergli dietro e vedere dove cadeva. Una volta, un aquilone arrivò fino alla frazione di Trodica.

“…ognuno manda da una balza / la sua cometa per il ciel turchino. // Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, / risale, prende il vento; ecco pian piano / tra un lungo dei fanciulli urlo s’innalza. // S’innalza; e ruba il filo dalla mano,/ come un fiore che fugga su lo stelo / esile, e vada a rifiorir lontano.// S’innalza; e i piedi trepidi e l’anelo / petto del bimbo e l’avida pupilla / e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.// Più su, più su: già come un punto brilla / lassù, lassù…” (Giovanni Pascoli, l’aquilone).

 

Cucciolo, Mosquito, Vespa e Lambretta

Nei primi anni Sessanta anche la piccola frazione viene raggiunta da una prima motorizzazione che con il tempo si avviò ad essere anche di massa. Qualche adulto acquistava la Vespa, qualcun altro la Lambretta. La Vespa venne presentata per la prima volta, nelle grandi città, nella primavera del 1946: “Nella sua stravaganza, colpiva, fin dalla prima occhiata, per lo sfolgorio di trovate risolutrici che annichilivano le tradizionali obiezioni contro le motociclette. Non sembrava nemmeno una moto in miniatura. Come nelle automobili, non si vedeva il motore; ma a differenza delle vetture più moderne ostentava una sorta di eleganza sua propria, senza termini di confronto con veicoli di maggior lusso. Persino le rotelline erano seminascoste, quella davanti coperta da un parafango aerodinamico sormontato dal fanale come un elmo da minatore, quella di dietro risucchiata dalla carrozzeria che sfiorava il fondo stradale. Niente raggi, niente cerchioni” (Gianfranco Vené, Vola Colomba, vita quotidiana degli italiani negli anni del dopoguerra: 1945 – 1960, pag. 169, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990).

La Lambretta della ditta Innocenti viene presentata all’inizio del 1947. “Per quanto inventata e fabbricata lungo le sponde del Lambro, fiumiciattolo lombardo allora cristallino, la Lambretta fu accoppiata dai volantino pubblicitari all’immagine di un cowboy con la faccia paffutella da bambino e il fisico da giovanotto… Vespa e Lambretta, simili per dimensioni, identiche di potenza, erano abbastanza diverse nel disegno per dividersi i favori degli italiani. La Lambretta non aveva il pancione, pedana e paraschizzi erano più agili, dalla forcella anteriore uscivano due tubi ricurvi e divergenti che fungevano da manubrio; serbatoi e vano portapacchi erano due scatole di lamiera affiancate che sorreggevano le selle; il motore era in vista ma abbastanza arretrato per non minacciare i pantaloni del guidatore; il parafango davanti, abbondante come quello della Vespa, era più squadrato, mentre il fanale stava in alto tra le corna del manubrio” (Ibidem, pp. 171- 172).

Il papà e lo zio di Gianni acquistarono la Lambretta Innocenti 125, altri possedevano la Vespa. Il nuovo mezzo sostituiva la vecchia bicicletta Legnano, per recarsi a Morrovalle all’udienza con il fattore. Tra “i lambrettisti e i vespisti” nascevano discussioni a non finire. Era meglio la candela verticale della Lambretta o quella orizzontale, quasi raso terra, della Vespa? Era più luminoso il faro in alto o in basso? Cosa significava poi quel toc-toc-toc scandito in discesa dalla Lambretta? Se si era in casa e le finestre erano aperte, si individuava facilmente se stava sfrecciando la Vespa o la Lambretta. Bastava ascoltare il ronzio del motore, come lo era per il Cucciolo o il Mosquito. Il motore del primo non scoppiettava, frullava; in pianura e sulle strade asfaltate raggiungeva quasi i quaranta chilometri all’ora ma in salita bisognava soccorrerlo con i pedali e se portava un secondo passeggero, questi doveva scendere. Il Mosquito era il suo diretto concorrente. Era di più alto lignaggio, anche se costava quattromila lire di meno. Consumava il doppio e funzionava con una miscela più cara della benzina. Era ancora più piccolo del Cucciolo. Qualcuno osservava che “Ci si poteva fare uno sbattiuova”(Ibidem, pp. 165- 168).

I giochi popolari

I giochi dei ragazzi erano variegati, si può anche dire che erano uguali sotto qualsiasi cielo d’Italia e a latitudini diverse. Cambiava solo il nome dialettale. Nella frazione di Santa Lucia di Morrovalle, un gioco comune era chiamato a ‘ccostamuro” (ad accostare al muro). Era praticato da tanti ragazzi. Si sceglieva la base del muro di una casa o di un recinto. I giocatori facevano la conta per stabilire il turno dei tiri. Con un sasso in mano, lanciato con maestria, si doveva buttar giù, ad una distanza convenuta, un mattone alla cui sommità venivano posizionate monete da dieci o cinque Lire. Chi riusciva a far crollare il mattone con sopra le monete si prendeva il premio. Lo stesso gioco veniva praticato dai ragazzi di Scafa, un paesino della media Val Pescara, in Abruzzo. Si chiamava a sbattamùre (colpire il muro), prima con i bottoni poi con le monete. Aveva le stesse regole. Cambiava solo il termine dialettale. Nei paesi della Brianza contadina, ma che si avviava già nei primi anni del dopoguerra ad un’area geografica a vocazione fortemente industriale, i ragazzi giocavano al gandùleu (la Gandùla era il nocciolo della pesca o di altra frutta). Il luogo prescelto era lo strencireu (strada in terra battuta). “S’eri là sul strencireu che jiugavi al gandoleu”, è il titolo di un bello articolo di Maria Adelaide Spreafico, pubblicato in un imprecisato numero dei Quaderni della Brianza che leggevo con avidità quando abitavo a Giussano. La rivista nacque per la volontà del senatore Vittorino Colombo, nel 1978, l’anno successivo al mio arrivo in Brianza dove sono vissuto fino al 1996. Nel dialetto brianzolo sono molti i francesismi. Il gioco consisteva nell’abbattere con un sasso il nocciolo della pesca posto su un mattone accostato al muro. Si mettevano in palio le figurine dei calciatori. La collezione di figurine era comune ai ragazzi di ogni angolo d’Italia.

“A schiaffetto militare partecipavano parecchi ragazzi. Eseguita la conta, il sorteggiato doveva volgere le spalle ai compagni, mettere la mano sinistra sotto l’ascella destra con il palmo rivolto in fuori, e la mano destra sugli occhi per non vedere. A questo punto, uno dei compagni gli dava, con la mano aperta, un forte colpo sulla mano offerta, e quando il malcapitato si girava, trovava tutti i compagni con la mano destra alzata e facevano ruotare l’indice in segno di scherno. Egli doveva cercare di individuare chi lo avesse colpito. Se indovinava, al suo posto andava quest’ultimo, altrimenti doveva rimettersi nella medesima posizione e, una volta colpito, cercare nuovamente il colpevole. Naturalmente, finché non avesse indovinato, doveva rimanere “sotto” e subire i forti colpi degli altri giocatori” (Angelo e Mariano Guarnieri, Cuscì juchìa li frichi de Portocitanò, giochi e passatempi di tanti anni fa, pag. 33, Stampa Biemegraf – Piediripa di Macerata – gennaio 1989). A Scafa era conosciuto come il gioco a schiaffìtte e in quanto a schiaffi sulla mano aperta, mentre l’altra nascondeva gli occhi, non si andava mai per il sottile (Gianfranco De Luce, Gabriella Di Giandomenico, Scafa 50 anni storia e tradizioni, pag. 194, Ceio Edizioni, Scafa 1989.

“Con le figurine (figürit) si facevano diversi giochi, fra i quali il più divertente era ul büti (il turacciolo). Consisteva nel porre sul terreno un turacciolo di sughero sul quale ogni partecipante poneva le proprie figurine, quindi, a debita distanza, si lanciavano i spiàtul (sassi di forma piatta e levigata o anche tondini in ferro); ogni giocatore vinceva le figurine che, scalzate dal büti, ricadevo sopra la propria spiàtula o a una distanza inferiore a una spanna, cioè all’apertura della propria mano” (Vittorio Buratti, Angelo Colombo, Giulio Fumagalli, Fabrizio Mavero, come giocavamo, pag. 224, in Stagioni in Brianza, Cattaneo Editore Oggiono – Lecco, 1985).

Merenda con la marmellata di mele cotogne.

Un altro luogo di aggregazione erano le case dei compagni di scuola. Si andava di domenica pomeriggio, percorrendo stradine di campagna. Ricordo ancora le partite di pallone davanti alle aie di casa, seguite quasi sempre da una abbondante merenda preparata con sollecitudine dalle mamme. In ogni casa contadina non mancava mai la marmellata, fatta con le mele cotogne. Si spalmava sul pane fatto in casa. La radio comunicava il risultato della partita Juventus Inter, giocata al Comunale di Torino. Moratti, per protesta contro la decisione della Caf che aveva annullato la vittoria a tavolino data all’Inter nella precedente partita, aveva convocato la squadra Primavera. La partita finì con un punteggio tennistico: nove a uno per la Juventus, sei gol di Omar Sivori e il gol della bandiera per Sandrino Mazzola. Fu l’ultima partita per Boniperti e la prima per Sandro Mazzola, bandiera della grande Inter allenata da Elenio Herrera, presidente Angelo Moratti. Adriano Bellesi e altri compagni di classe erano Juventini. Allora non tifavo per nessuna squadra, ma da quel pomeriggio (10 giugno 1961) mi ritrovai ad essere Interista, contro ogni sopruso, così come ho sempre fatto, non solo nel campo dello sport, ma contro ogni forma di prepotenza manifestata da chicchessia in tutte le pieghe della società.

Per raggiungere la casa di Domenico e Renato Perugini, in contrada Montanari Maragatta, si doveva  percorrere un buon tratto di una strada brecciata, in alcuni punti ridotta già a terra battuta. Era l’antico tracciato della strada per Macerata. Si inerpicava diritta per la campagna e lungo il percorso passava davanti a piccole abitazioni. Le curve ad otto volante, che risalgono dal fosso Trodica verso Santa Lucia, frazione di Morrovalle, sono di un’epoca successiva, quando la strada sarà percorsa dalle macchine che chiedevano pendenze più dolci. Era senz’altro una domenica di Primavera, quando ci ritrovammo più di dieci tra ragazzi e ragazze in casa dei due amici, emigrati poi al Nord, destinazione Como, con la propria famiglia. L’abitazione di un tempo esiste ancora ma è tutt’altro da come era allora. Il terreno è spoglio di alberi. Non esiste più traccia dell’antica strada. Seguendo invece il nuovo percorso, ad un curvone che gira sulla sinistra, sono stati trovati nel terreno adiacente alcuni resti di una fornace romana. Tutto cambia ma nel guazzabuglio del cuore umano le memorie del passato non muoiono mai.

L’abitazione di Giancarlo e Luigi Bedini era invece più vicina alla mia abitazione. La vecchia casa c’è ancora, è lungo la stradina che conduce alle Cervare, scavalcando un ponticello sul Trodica. La discesa era agevole, da mozzafiato invece la salita. Ricordo con affetto Giancarlo, mio compagno di classe e suo fratello Luigi, più grande di quattro anni. Li ho persi entrambi, il secondo molti anni fa, il primo da pochi anni. Era una ventosa giornata di Primavera. Eravamo anche allora tanti bambini. Stavamo assieme a scuola al mattino e trovavamo il tempo per frequentarci anche di domenica pomeriggio. I campi erano punteggiati dai fiori di San Giuseppe, di color giallo. Non li ho visti più nelle nostre campagne. Nei primi anni del mio ritorno dalla Lombardia, quando risalivo in macchina da Civitanova Marche verso Santa Lucia, cercavo invano di trovarne qualche traccia. E’ l’autunno, la stagione della dolce malinconia, che ci rimanda sempre alle memorie del passato personale e collettivo, che si colora di tristezza per chi non c’è più.

Raimondo Giustozzi

 

Bibliografia:

  1. Angelo e Mariano Guarnieri, Cuscì juchìa li frichi de Portocitanò, giochi e passatempi di tanti anni fa, Stampa Biemegraf – Piediripa di Macerata – gennaio 1989.
  2. Gianfranco De Luce, Gabriella Di Giandomenico, Scafa 50 anni storia e tradizioni, Ceio Edizioni, Scafa 1989.
  3. Gianfranco Vené, Vola Colomba, Vita quotidiana degli italiani negli anni del dopoguerra: 1945 – 1960, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990.
  4. Remo Giosuè, i miei ricordi … una vita, una famiglia, un’azienda, a cura del prof. Raimondo Giustozzi, Digitech, s.r.l. Recanati, 2014.
  5. Vittorio Buratti, Angelo Colombo, Giulio Fumagalli, Fabrizio Mavero, Stagioni in Brianza, Cattaneo Editore Oggiono – Lecco, 1985.

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