di Raimondo Giustozzi
Il quarto volume della collana Geopolitica, curata da Federico Rampini e pubblicata come inserto del Corriere della Sera, è un saggio classico. Il titolo, Perché le nazioni falliscono, dato dagli autori Daron Acemoglu e James A. Robinson, è un’ottima lettura per capire la storia di ogni singola nazione che sa costruire la propria potenza, unita alla prosperità, ma anche le cause che la portano alla decadenza e alla povertà. Non spaventi la corposità dell’opera. Sono quattrocento settantanove pagine, che comprendono due prefazioni e una ricca bibliografia. Il lettore può privilegiare, all’inizio, la lettura di ciò che lo interessa di più e ritornare in una fase successiva alle altre pagine. I quindici capitoli, in cui è diviso il libro, declinati da paragrafi di diversa lunghezza, aiutano anche in questa scelta. Importante comunque è la chiave di lettura del saggio. Il confronto tra nazioni avviene tra due opposti. Esistono società estrattive e società inclusive. Il libro dei due autori è stato pubblicato la prima volta da Il Saggiatore S.p.A. Milano 2013.
Scrive Federico Rampini nella prefazione alla presente edizione del volume, pubblicato nel 2022 da RCS MediaGroup S.p.A. Milano: “Le democrazie occidentali, prima ancora di essere sfidate sul piano strategico militare da avversari temibili, hanno sofferto di un’acuta crisi di autostima. Vasti strati di cittadini hanno cominciato a dubitare della loro efficienza. Sul piano dei risultati concreti, tangibili, un governo autoritario come quello cinese ha generato una ricchezza tale da consentire una nuova narrazione. Xi Jinping sfida l’Occidente dicendo: il mio sistema funziona meglio, crea sviluppo, sicurezza, ordine, su una scala mai vista prima, e in tempi rapidi. Stagnazione economica, diseguaglianze, aspettative decrescenti per il futuro, sono alcuni dei mali che ci fanno temere un declino dell’Occidente”.
“Ci si chiede, scrive Rampini, quali sono i modelli vincenti nella gara di lungo periodo tra sistemi nazionali. I due autori arrivano ad una conclusione: Sono le istituzioni politiche a fare la differenza. Le più adatte a creare prosperità sono le società “inclusive”, dove le regole del gioco coinvolgono la maggioranza della popolazione nel processo di governo. Le istituzioni politiche inclusive diffondono benessere in modo ampio. Invece le società “estrattive”, dove una minoranza si appropria di potere, ricchezze e privilegi, sono destinate a fallire. Questa distinzione non è semplicistica. Tra le caratteristiche dei sistemi vincenti ci sono anche la centralizzazione e l’autorevolezza dello stato. Lo storico Paul Kennedy s’interroga molto sul nesso tra la potenza militare e la ricchezza delle nazioni. Il libro di Daron Acemoglu e James A. Robinson invece approfondisce gli ingredienti che distinguono le economie dinamiche da quelle che mancano di vitalità, i sistemi capaci di diffondere i benefici del progresso da quelli che li concentrano nelle mani di pochi e così facendo deprimono lo sviluppo”.
L’analisi dei due autori non è affatto rassicurante per i regimi dove le decisioni sono sequestrate da nomenclature e oligarchi ma anche gli stati democratici non dormono sonni tranquilli. Una democrazia paralizzata dalle divisioni e in preda all’indecisione non passa l’esame. Questo è accaduto in passato e non è detto che non possa accadere il futuro. Nella Libera Repubblica Veneta si era stabilito che ci dovesse essere una certa “colleganza”, una forma di società per azioni aperta a nuovi membri. Questo non accadde perché tutto il potere andò in mano ad una oligarchia, la Serrata del Maggior Consiglio, che significò un restringimento degli accessi agli outsider, a coloro che pur avendo titoli per partecipare alla direzione della cosa pubblica, rimasero di fatto fuori del cerchio. L’America e l’Europa corrono il rischio di fare la fine della Repubblica Veneta?
La crisi finanziaria scoppiata negli USA nel 2008 ha riportato il paese verso il passato, ai tempi della Grande Depressione, quando le diseguaglianze tra cittadini si dilatarono enormemente. Sono gli anni del Grande Gatsby, il romanzo immortale di Francis Scott Fitzgerald. Un fatto è certo. La mobilità sociale negli Stati Uniti è scesa via via che aumentavano le diseguaglianze. Un fattore è il sistema scolastico. La scuola pubblica è disertata dalle élite che scelgono di mandare i propri figli negli istituti privati, dove si pagano rette da capogiro. L’istruzione, un tempo strada maestra per l’avanzamento dei ceti medi, diventa lo strumento che perpetua le diseguaglianze. Anche in Cina si è verificato qualcosa di simile, quando il sistema scolastico iper selettivo si è unito al boom di società private che offrono corsi di sostegno e perfezionamento, a caro prezzo. Non a caso Xi Jinping, con la sua sterzata a sinistra e la sua campagna contro le diseguaglianze, nel 2021 ha sferrato un pesante attacco al business dei corsi privati.
Il termine meritocrazia è stato un tratto distintivo dell’American Dream, del sogno americano. Oggi questo tratto lo è sempre meno. Se si nasce poveri troppo spesso si rimane tali. Questo accade in Cina, negli USA, in Russia e in Europa. In breve, i privilegiati hanno scippato la meritocrazia, assicurandosi che il merito sia sempre dalla parte dei propri figli. A Manhattan o a San Francisco, la vera gara dei privilegiati comincia alle scuole materne, che preparano il figlio a diventare un futuro genio costano 40.000 dollari l’anno e anche di più. Che l’intelligenza, la preparazione, l’attitudine alla creatività siano davvero ereditarie? Don Milani diceva con ironia che i cromosomi del dottore, padre del Pierino di turno, erano più potenti di quelli del padre (operaio, contadino) di Gianni, l’alunno che veniva respinto dalla scuola classista (Nota di chi scrive).
“C’è da dire comunque che i figli di nessuno continuano ad affluire dall’Italia, dall’India, dalla Russia o dalla Cina comunista proprio in America. “Rispetto alle nazioni dove impera il nepotismo, gli Stati Uniti restano la terra promessa per i giovani di talento. Rispetto al familismo sfacciato diffuso in Italia, gli Stati Uniti praticano la versione più presentabile: non si raccomanda il rampollo incapace, lo si costringe con le buone a guadagnare laurea e dottorato a Yale o a Princeton. Un altro fattore di degenerazione che può traghettarci verso società estrattive è legato agli atteggiamenti monopolistici delle grandi aziende. Il settore digitale ha comportamenti emblematici. I padroni della Rete, i giganti delle tecnologie hanno eretto attorno ai propri domini delle muraglie protettive, per esempio accumulando arsenali di brevetti che intimidiscono o scoraggiano la concorrenza. La diseguaglianza viene di solito classificata tra i problemi sociali, non tra quelli politici. In realtà le diseguaglianze sono fabbricate e rese inamovibili dalle istituzioni politiche. La democrazia dovrebbe essere il sistema politico più adatto a curare le diseguaglianze, visto che dà voce e peso alla maggioranza del popolo”
Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite di top manager si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi, in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Quando la crescita economica e demografica ristagna prende il sopravvento la rendita finanziaria e i sistemi di governo si evolvono verso società oligarchiche. Questo è avvenuto nei primi anni del Novecento. Negli anni del dopo guerra, nei “Trenta anni gloriosi” (1945- 1975), crescita economica e demografica hanno attenuato le diseguaglianze. Un’altra minaccia che incombe sulle democrazie occidentali è l’ipertrofia degli stessi apparati burocratici a cui vengono delegate le funzioni retributive. Nel libro dei due autori compaiono anche delle civiltà decadenti dove la sclerosi si accompagna alla dittatura dei burocrati. Le società estrattive non sono tali soltanto perché favoriscono il profitto di oligarchi privati, ma possono succhiare risorse a vantaggio di satrapie pubbliche (Federico Rampini, Prefazione, pp. 9- 10- 11, in Daron Acemoglu, James. Robinson, Perché le nazioni falliscono, Milano, 2022).
Indice del libro
Prefazione alla presente edizione
Prefazione
- Cose vicine, eppure lontane
- Teorie che non funzionano
- La costruzione di prosperità e povertà
- Piccole differenze e congiunture critiche: il peso della storia
- “Ho visto il futuro e so che funziona”: la crescita economica sotto i regimi estrattivi
- Sentieri divergenti
- Il punto di svolta
- Non a casa nostra: le barriere allo sviluppo
- La diffusione della prosperità
- Il circolo virtuoso
- Il circolo vizioso
- Perché le nazioni falliscono oggi
- Infrangere le barriere
- Comprendere prosperità r povertà
- Comprendere prosperità e povertà
Ringraziamenti
Fonti e riferimenti bibliografici
Bibliografia
Spigolature
“Ho visto il futuro e so che funziona”. Così raccontava Lincoln Steffens, giornalista iconoclasta, progressista e radicale, di ritorno da una missione diplomatica svolta nell’Unione Sovietica, al ricco finanziere Bernard Baruch, che era assieme allo scultore Jo Davidson. Vinta la guerra civile contro le armate bianche, la rivoluzione bolscevica, che aveva rovesciato nel 1917 il vecchio regime zarista, si avviava nella costruzione dell’Unione Sovietica. Molti, in Occidente, fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, avrebbero continuato a credere che il nuovo sistema funzionasse davvero e che rappresentasse il futuro. Dopo la morte di Lenin (1924), pochi anni dopo nel 1927, Stalin aveva consolidato il proprio potere, eliminando tutti gli avversari. Il programma di industrializzazione del paese fu rapido, rivitalizzando la Commissione statale per la pianificazione, il cosiddetto Gosplan, istituito nel 1921. Il Gosplan concepì il primo piano quinquennale, applicato tra il 1928 e il 1933. Il programma era semplice: sviluppo dell’industria su iniziativa diretta del governo e reperimento delle risorse necessarie attraverso una forte tassazione del settore agricolo (Daron Acemoglu, James. Robinson, Cap. 5: Ho visto il futuro e so che funziona, la crescita economica sotto regimi estrattivi, pp.129- 137, in Perché le nazioni falliscono, Milano, 2022).
“Stalin collettivizzò l’agricoltura, abolendo la proprietà privata della terra e concentrando la popolazione delle campagne in gigantesche fattorie amministrate dal Partito Comunista. Questo rese più facile per Stalin attingere dalla produzione agricola, e usarla per nutrire tutti coloro che stavano costruendo le nuove fabbriche e vi lavoravano. Per la popolazione rurale, le conseguenze di questa scelta furono disastrose. Nelle fattorie collettive gli individui non avevano alcun incentivo a lavorare sodo, cosa che fece crollare la produzione agricola. La quantità di raccolto di cui lo Stato si appropriava era così alta che non c’era abbastanza da mangiare. Milioni di persone morirono di fame, altre centinaia di migliaia furono assassinate o deportate in Siberia durate il processo di collettivizzazione forzata. Né la neonata industria né le fattorie collettive erano economicamente efficienti, in altre parole, non utilizzavano nel modo migliore le risorse di cui l’Unione Sovietica disponeva” (Ibidem, pag. 131).
Tutto ciò poteva far prevedere anche un collasso del sistema. Questo non avvenne. Permettere agli individui di prendere autonomamente le loro decisioni è per una società il modo migliore di giungere a un uso efficiente delle proprie risorse. Nell’industria pesante sovietica, la produttività del lavoro e del capitale, per un lungo periodo è stata così elevata da allocarvi maggiori risorse tanto da generare uno sviluppo economico, anche se tutto veniva imposto e controllato dall’alto in un contesto di istituzioni estrattive. Lo sviluppo economico dell’URSS sembrò inarrestabile, tanto da convincere gli stessi leader dell’Unione Sovietica, tra tutti Nikita Chruscev, che nel 1956, in un celebre discorso davanti ai diplomatici occidentali, si pavoneggiò, dichiarando: “Vi seppelliremo”.
La crescita iniziò ad arrestarsi dagli anni Settanta. Cosa era successo? “Le istituzioni estrattive sono incapaci di generare una crescita duratura per due ragioni: la mancanza di incentivi economici e le resistenze delle élite. Gli unici campi in cui i sovietici, a prezzo di grandi sforzi, riuscirono ad avanzare tecnologicamente furono l’industria militare e aerospaziale. Come risultato, giunsero a inviare nello spazio il primo cane, Laika, e il primo uomo, Yuri Gagarin. Inoltre, lasciarono in eredità al mondo il Kalashnikov. Anche il Gosplan, l’onnipotente agenzia per la pianificazione, cui aspettava la direzione centralizzata dell’economia sovietica, fallì. I piani quinquennali erano rivisti continuamente, riscritti o semplicemente ignorati. Le politiche industriali seguivano gli ordini di Stalin e del Politburo (Comitato Centrale del Partito Comunista Unione Sovietica). Anche l’introduzione di incentivi, come i premi di produzione e paghe più alte per chi aveva incarichi dirigenziali, come manager o ingegneri, creava dei problemi per la crescita. Non si disponeva più di risorse da impegnare nell’innovazione tecnologica e gli obiettivi da raggiungere venivano sempre spostati in avanti.
Premi e incentivi creavano spesso altri problemi. Quando il piano per la produzione di lastre d’acciaio indicava un obiettivo in tonnellate, venivano fabbricate lastre troppo spesse; quando il risultato da raggiungere era espresso in termini di superficie, le lastre risultavano troppo sottili. Quando il piano parlava di tonnellate prodotte, venivano realizzati lampadari così pesanti che a malapena potevano essere appesi ai soffitti. Tutti i vari regolamenti e meccanismi inventati per aumentare la produzione cozzavano con problemi strutturali connaturati al sistema sovietico. Fino a quando l’autorità e il potere politico restavano appannaggio del Partito Comunista, sarebbe stato impossibile cambiare a fondo la struttura di incentivi che gli individui si trovavano davanti, quali che fossero i premi di produzione. La crescita sarebbe stata possibile se le autorità del Cremlino fossero riuscite a riformare le istituzioni economiche. Michail Gorbačëv, l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, che parlava di perestroika ( ricostruzione) e di glasnost (trasparenza) trovò l’opposizione proprio all’interno degli apparati del potere politico. Il risultato fu lo sgretolamento dello stesso partito e il dissolvimento dell’URSS. La storia di questo gigante militare e aerospaziale dimostra quello che succede sovente nelle società di tipo estrattivo, dove il potere politico è tutto concentrati nelle mani di pochi. La crescita non dura nel tempo. Raggiunge picchi di eccellenza ma si arresta fatalmente. Anche quelle società inclusive possono comunque attraversare momenti di stagnazione quando il potere politico non sa intervenire nelle questioni economiche e lascia tutto alla libera iniziativa, favorendo in questo modo la nascita di grandi gruppi finanziari che condizionano le scelte politiche.
Tutto il libro, da leggere per tappe, tanto è ricco di argomentazioni storiche, è un confronto tra questi due opposti, estrattivo e inclusivo, che in determinati momenti storici cercano comunque quasi ad identificarsi quando il potere politico non sa fare la propria parte nelle società inclusive, quando permette che nascano grandi Trust (concentramento di tutta l’economia nelle meni di pochi). Altro sono le società di tipo estrattivo che nascono e muoiono come tali. Lo Zimbabwe, sia nel suo passato coloniale sia nella propria storia del post colonialismo è un tipico esempio di società estrattiva. Il caso eclatante fu la vittoria fittizia di Mugabe, il presidente dello stato africano alla lotteria del 2000, evento che rappresentò la punta dell’iceberg di una corruzione storicamente ben determinata.
“Oggi le nazioni falliscono perché le loro istituzioni economiche estrattive non creano gli incentivi di cui la popolazione ha bisogno per risparmiare, investire e innovare. Le istituzioni politiche estrattive supportano tali istituzioni economiche cementando il potere di chi si avvantaggia dell’estrazione. Le istituzioni politiche ed economiche estrattive, anche se i dettagli variano secondo le circostanza, sono sempre alla base di questo fallimento. In molti casi, per esempio in Argentina, Colombia ed Egitto, questo fallimento assume la forma di un’insufficiente attività economica, perché i politici sono fin troppo contenti di prelevare risorse dalla società, oppure soffocano qualunque tipo di attività economica indipendente minacci che li minacci e con loro l’élite economica. In alcuni casi come per lo Zimbabwe e la Sierra Leone, le istituzioni estrattive portano al completo fallimento dello Stato, annientando la legalità e l’ordine, ma anche gli incentivi economici basilari. Il risultato è il ristagno economico di nazioni, quali l’Angola, Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Haiti, Liberia, Sierra Leone, Sudan, Zimbabwe. Guerre civili, migrazioni di massa, carestie ed epidemie hanno reso molti di questi paesi più poveri di quanto non lo fossero negli anni Sessanta” (Daron Acemoglu, James. Robinson, Cap. 13. Perché le nazioni falliscono oggi, pp. 357- 361, Milano, 2022).
“E’ impossibile comprendere molte delle regioni più povere del mondo alla fine del Novecento senza capire il nuovo assolutismo del Novecento: il comunismo. La visione di Marx era un sistema che avrebbe generato prosperità in presenza di condizioni più umane e senza disuguaglianze. Lenin e il suo Partito Comunista si ispirarono a Marx, ma la pratica non avrebbe potuto essere più diversa dalla teoria. La rivoluzione bolscevica del 1917 du un fatti sanguinoso e non ebbe niente di umano. Neppure l’uguaglianza fu garantita, poiché la pima cosa che fecero Lenin e la sua cerchia fu di istituire una nuova élite, cioè loro stessi, al vertice dei bolscevichi. Nel frattempo, epurarono e assassinarono non solo i non comunisti, ma anche i comunisti che potevano minacciare il loro potere. Le vere tragedie si sarebbero verificate più avanti, prima con la guerra civile poi con la collettivizzazione di Stalin e le sue epurazioni che portarono a quaranta milioni di morti” (Ibidem, pp. 376- 377).
Con il crollo dell’Unione Sovietica, alcune ex Repubbliche Sovietiche, come l’Uzbekistan, l’Armenia, l’Azerbaigian, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Turkmenistan sono cadute sotto istituzioni sfacciatamente e atrocemente estrattive. Nell’Uzbekistan, il cotone rappresenta circa il 45% delle esportazioni, il che lo rende la coltura più importante da quando, nel 1991, il Paese ottenne l’indipendenza dopo lo smembramento dell’Unione Sovietica. Negli anni del comunismo sovietico tutti i terreni agricoli in Uzbekistan erano sotto il controllo di 2048 fattorie di proprietà dello Stato. Dopo la loro soppressione, nel 1991, la terra fu distribuita. Questo non significava che gli agricoltori potessero agire liberamente. Il cotone aveva troppo valore per lo Stato. Il presidente del nuovo Stato uzbeko, Ismail Karimov stabilì che ogni agricoltore doveva destinare il 35% delle sue terre alla coltivazione del cotone. Gli agricoltori venivano pagati per una piccola frazione del suo prezzo medio mondiale, mentre il governo si prendeva il resto. All’epoca dell’indipendenza, circa il quaranta per cento del cotone veniva raccolto dalle mietitrebbiatrici. Dopo il 1991, dati gli incentivi creati dal regime del presidente Karimov per gli agricoltori, questi ultimi non furono più disposti a comprare le mietitrebbiatrici o a farvi le manutenzioni. Karimov escogitò una soluzione, meglio un’alternativa più economica. Impose che all’inizio dell’anno scolastico, tutti i bambini in età scolare dovevano essere sospesi dalle lezioni e impiegati nella raccolta del cotone. I docenti, invece di insegnare, diventarono i reclutatori dei piccoli lavoratori. I bambini, che dovevano raccogliere dai venti ai sessanta chilogrammi giornalieri di cotone, a secondo dell’età, venivano retribuiti con la paga di tre centesimi, quando nel 2006 il prezzo del cotone si aggirava attorno a 1,40 dollari (statunitensi). Karimov ha potuto fare tutto questo perché non ha oppositori, la maggior parte dei quali sono stati eliminati fisicamente (Ibidem, pp.377- 379).
Le istituzioni inclusive negli Stati Uniti hanno avuto origine dalle lotte in Virginia, Maryland, Carolina del Nord e del Sud nel periodo coloniale, e furono rafforzate dalla Costituzione, con il suo sistema di vincoli e la separazione dei poteri. Ma la Costituzione degli Stati Uniti non fu l’ultima tappa nello sviluppo di istituzioni inclusive: al pari della Gran Bretagna, queste furono rafforzate da un processo di feedback positivi, basato sul circolo virtuoso. Verso la metà del XIX secolo, negli Stati Uniti, tutti gli uomini di pelle bianca, ma non le donne o i neri, raggiunsero il diritto di voto. L’approvazione dello Homestead Act del 1862 che concesse le terre di frontiera ai potenziali coloni invece di distribuirle all’élite politica favorì il consolidamento di istituzioni inclusive.
Le sfide verso di loro non mancarono. La fine della guerra civile favorì una rapida crescita economica del Nord. Ferrovie e commercio ebbero una sviluppo enorme. Enormi fortune andarono nelle mani di uomini baldanzosi e privi di scrupoli. Erano i cosiddetti baroni ladroni (Robber barons) per le sfacciate pratiche affaristiche, volte a consolidare i loro monopoli e impedire che qualsiasi concorrente entrasse nel mercato o facesse affari a parità di condizioni. Cornelius Vanderbilt coniò per primo questo principio: Che cosa volete che me ne importi della legge? Non ho forse il potere? John D. Rockefeller, fondatore nel 1870 della Stand Oil Company, liberatosi della concorrenza divenne ben presto il primo miliardario al mondo, avendo quasi il monopolio (l’88 %). John Pierpont Morgan insieme a Andrew Carnegie fondò la U. S. Steel Company, la prima società per azioni con una capitalizzazione di borsa superiore al miliardo di dollari e di gran lunga la più grande impresa siderurgica al mondo. Tanti altri concentrarono nelle proprie mani enormi fortune sino a formare grandi cartelli, trust o monopoli.
Il sistema pluralista degli Stati Uniti aveva già distribuito il potere a un ampio segmento della società, che poté ribellarsi contro tali abusi. Le vittime delle attività monopolistiche dei baroni ladroni, e chi ne avversava il dominio senza scrupoli sui rispettivi settori, iniziarono a organizzarsi contro di loro, formando dapprima il movimento populista, e in seguito quello progressista. . Questa ribellione avvenne soprattutto negli stati del Nord e nel Midwest. Tutte le amministrazioni degli USA hanno sempre contrastato con leggi ad hoc la costituzione di cartelli o Trust.
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