di Vincenzo Vita
A leggere il lungo post pubblicato sulla sua pagina di Facebook dallo storico Angelo d’Orsi c’è da rabbrividire. Si racconta di una lettera inviata al direttore de La Stampa per protestare legittimamente contro una grande fotografia pubblicata in prima pagina dal quotidiano raffigurante una carneficina di civili a Donetsk dello scorso 14 marzo. Si attribuiva ai russi la colpa del macello e non – come comprovato- all’esercito ucraino. Nel post si evoca persino la fonte incerta e non trasparente della foto medesima.
Guai a difendere Putin, ovviamente. Tra l’altro, se c’è una voce insospettabile di strane simpatie è proprio il manifesto, ben più lesto di tanti commentatori di oggi ad individuare la degenerazione profonda del modello sovietico e il baratro di quelli succeduti al cosiddetto socialismo di stato. Tuttavia, l’informazione non deve mai sedersi su qualche curva da stadio, avendo il compito deontologico di rendere consapevoli le persone che usufruiscono dei media.
Fa impressione, quindi, che una storica testata guidata peraltro da uno stimato professionista scada a tali livelli, mostrandosi persino offesa per le critiche. In verità, proprio una simile contraddizione ci racconta la realtà della sottomissione verso le linee ufficiali, che prendono (strumentalmente?) le difese del popolo ucraino (cosa sacrosanta) per rinvigorire nei fatti la religione atlantista: così scolorita nel tempo e ora ringalluzzita con l’aumento delle spese militari.
L’informazione è oggi una componente attiva della guerra: in Russia si rischia la prigione se viene rotta l’omertà e il dissenso è proibito con logiche fasciste; nel democratico occidente censure e autocensure impazzano.
Il sindacato dei giornalisti della Rai ha chiesto all’azienda di chiarire come mai il servizio pubblico italiano non riprenda le corrispondenze da Mosca, a differenza di ciò che hanno deciso le testate internazionali e pure diverse italiane.
I giornalisti hanno sottolineato che nessuno di loro aveva chiesto di rientrare. Inoltre, aggiunge l’UsigRai, continua nei programmi di rete e nei telegiornali il ricorso ai freelance, senza neppure chiarire se ne siano garantiti la sicurezza e un equo compenso. Il precariato prevale a dispetto dei santi?
Insomma, che ne è delle inviate e degli inviati? La Rai è embedded? Eppure, la percentuale delle notizie sulla guerra, in termini di titoli, è di circa il 75% del totale delle edizioni e gli ascolti aumentano moltiplicati dalla relazione non conflittuale ma sinergica con i social. La tendenza è simile per le emittenti private e una parte dei talk (in particolare, Presa diretta e Piazza pulita).
Non dimentichiamo, però, che l’apparato pubblico ha un surplus di obblighi, come recita il contratto di servizio che giustifica la concessione. Il sindacato chiede di sapere e pone così una questione strategica: l’informazione è la trama nervosa della società e l’utilizzo del segreto è un’arma impropria. Non bastano le non-stop delle redazioni centrali con una nuova compagnia di giro di ospiti.
La riduzione a sloganistica manipolatrice è la negazione della ricerca della verità e del metodo dell’argomentazione. Ciò significa che la stessa presunta verità va proposta, discussa, analizzata. Se è imposta come naturale e lineare, perentoria e aprioristica, è la prima vittima del conflitto bellico.
Se l’informazione prevalente assume le sembianze di un pensiero unico, la guerra ottiene un ulteriore effetto collaterale: il bavaglio di regime. Con tanti saluti all’articolo 21 della Costituzione.
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