di Raimondo Giustozzi
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (Art. 21 della Costituzione italiana). Il diritto si trasforma anche in dovere, quando si è in presenza del male. Non parlarne, si diventa complici dello stesso: “Se la mia opera letteraria ha un senso (…) scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un’ossessione, di affermare il senso e i limiti di una definitiva rottura, e di una sincera fedeltà” (Ignazio Silone, Uscita di Sicurezza). L’autore di Fontamara, di Vino e Pane, Il segreto di Luca e di altri indimenticabili romanzi, trovava nell’utopia cristiana quell’uscita di sicurezza che lo affrancava dall’ideologia comunista, scelta con passione negli anni giovanili.
Anche oggi si deve pur trovare una Uscita di Sicurezza che ci metta al riparo dalla guerra. Programmi televisivi ci trattengono fino a notte inoltrata sulle ragioni storiche, geopolitiche che hanno portato a questa tragedia ancora in corso, di cui non si riesce a vederne la fine. Veniamo da due anni di Covid. Abbiamo resistito al male. Medici e infermieri sono morti per salvare quante più vite possibili. Oggi il loro sacrificio viene cancellato da chi ha iniziato una guerra devastante. Lo sappiamo. Negli ultimi settant’anni, di guerre ce ne sono state ed in ogni angolo del mondo, ma erano lontane. L’unica che sconvolse la nostra esistenza fu quella che fece seguito alla disgregazione dell’ex Jugoslavia. L’ultima, quella scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina, si sta rivelando più devastante.
Non ci sono parole capaci di condannare a lettere di fuoco quello a cui stiamo assistendo: intere città rase al suolo, profughi che scappano, come possono, verso i paesi vicini ai teatri di guerra. In mezzo a tutto questo inferno di morte, lutti e desolazione ci sono i volti di bambini, orfani di uno o di entrambi i genitori. Salutano dai finestrini dei treni alla stazione di Leopoli. I loro padri sono rimasti in Ucraina a combattere contro l’invasione russa. Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi. Da un lato c’è un invasore, dall’altro c’è chi è stato invaso. Le bugie hanno le gambe corte. Basta questo antico adagio popolare per zittire chi parla di operazione militare soltanto. Prove ne sia che, se qualche manifestante di San Pietroburgo, Mosca o di altre città della Federazione Russa manifesta pacificamente contro la guerra, viene arrestato.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), nata subito dopo il secondo conflitto mondiale per scongiurare altri immani catastrofi, ha il compito di fermare la guerra in atto con ogni mezzo. Il comune cittadino, ognuno come può, con la solidarietà, con la protesta, ha il compito morale di far sentire la propria voce contro la guerra. In questi giorni sta girando sugli Smartphone una poesia di Gianni Rodari: La Luna di Kiev: “Chissà se la luna / di Kiev / è bella / come la luna di Roma, / chissà se è la stessa / o soltanto sua sorella… // “Ma son sempre quella! / – la luna protesta – / non sono mica / un berretto da notte / sulla tua testa! // Viaggiando quassù / faccio lume a tutti quanti, / dall’India al Perù, / dal Tevere al Mar Morto, / e i miei raggi viaggiano / senza passaporto” (Gianni Rodari, la luna di Kiev). La Luna è una soltanto sotto qualsiasi cielo, a latitudini e longitudini diverse. Assiste attonita alla follia in atto, scatenata da un folle.
Sempre la poesia è la sola capace di scaldare il cuore: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta. / E questo sangue odora come nel giorno / Quando il fratello disse all’altro fratello: / «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, / è giunta fino a te, dentro la tua giornata. / Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue / Salite dalla terra, dimenticate i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore” (Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo, in Giorno dopo giorno).
Nella guerra in atto sono molti gli uccelli neri che coprono il cuore di alcuni uomini e anche gente di chiesa. C’è chi, come il patriarca di Mosca, giustifica la guerra scatenata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina. Quando il trono e l’altare vanno d’accordo nello scempio di una guerra si tocca il fondo. La storia lo insegna. “Deus vult”, Dio lo vuole, annunciava Pietro l’Eremita nelle sue predicazioni per arruolare crociati. “Gott mit uns”, Dio è con noi. Era il motto scritto sulla fibbia della cintura dei soldati del Terzo Reich. Oggi, stando a quanto si legge sulla stampa, Kirill, il patriarca di Mosca “ha affermato che la guerra in Ucraina è una sorte di crociata contro i Paesi che sostengono i diritti degli omossessuali”. Siamo alla deriva, tanto che anche la Santa Sede ha rinunciato a parlare di comune cammino ecumenico. Si spera solo che Papa Francesco sia in grado di fare da sponda perché altri, leggi Cina, possa mediare con il presidente della Federazione Russa. E’ un’ultima notizia.
Certo che la giustificazione del presidente della Federazione Russa, sposata anche dal patriarca di Mosca, sull’operazione militare contro l’Ucraina, per fermare il genocidio delle popolazioni russofone del Donbass, è una menzogna. Il numero delle vittime, secondo un documento delle Nazioni Unite, pubblicato il 27 gennaio 2022, dal 2014 alla fine del 2021, si aggira tra i 14.200 e i 14.00, con 3.404 civili, circa 4.400 membri delle forze ucraine e circa 6.500 membri dei gruppi armati”. Il presidente della Federazione Russa, per giustificare l’intervento militare in Ucraina, ha parlato del genocidio di quattro milioni di persone, numero che combacia con i presunti abitanti che risiedono nei soli territori controllati dai separatisti, quelle delle autoproclamate repubbliche di Donetsk (circa due milioni e trecento mila abitanti) e Luhansk (circa un milione e mezzo di abitanti). C’è di più. In una città del sud ucraina, Kherson, conquistata dai russi, la popolazione è stata invitata sotto la minaccia delle armi al referendum pro Russia.
I pretesti per attaccare il più debole si trovano sempre. Anche in questo la storia insegna e non solo la storia. Basa rileggersi la favola di Fedro, il lupo e l’agnello, rievocata da un parlamentare italiano nei giorni passati. Fa bene rileggerla: “Ad rivum eundem Lupus et Agnus venerant siti compulsi: superior stabat Lupus, longeque inferior Agnus: tunc fauce improba latro incitatus jurgii causam intulit. Cur, inquit, turbulentam fecisti mihi istam bibenti? Laniger contra timens, qui possum, quaeso, facere quod quereris, Lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor. Repulsus ille veritatis viribus, ante hos sex menses male, ait, dixisti mihi. Respondit Agnus: equidem natus non eram. Pater hercle tuus, inquit, maledixit mihi. Atque ita correptum lacerat injusta nece. Haec popter illos scripta est homines fabula, qui fictis causis innocentes opprimunt” (Fedro, il lupo e l’agnello).
Traduzione: “Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l’agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar briga e allora disse: “Perché osi intorbidarmi l’acqua?” L’agnello tremando rispose: “Come posso fare questo se l’acqua scorre da te a me?” “E’ vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole”. “Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato”. “Allora” riprese il lupo “fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie”. Quindi saltò addosso all’agnello e se lo mangiò. Questo racconto è rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro falsi pretesti”. (Traduzione da Internet). Avrei voluto tradurla a braccio. Conosco il testo a memoria.
Mi piace terminare questo mio modesto contributo, nel segnalare un’altra immortale poesia, da rileggere in questo particolare momento storico, triste per tutti: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / Perduto in mezzo a un polveroso prato. // Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro! // Non domandarci la formula che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Eugenio Montale, Non chiederci parola, Ossi di seppia).
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