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Il passato tra ricordi e nostalgia “Omnia fert aetas, animum quoque” (Virgilio). Tutto il tempo ci strappa anche l’anima

Corso Umberto I Civitanova Marchedi Raimondo Giustozzi

Novembre è il mese dell’anno che invita tutti al ricordo dei propri defunti. Le foglie che si staccano dagli alberi e cadono sui marciapiedi delle città, quasi a formare un tappeto multicolore, ci ricordano la caducità della vita. Da circa due anni la pandemia da Coronavirus ci rende ancora più fragili. Fa tristezza incontrarsi, con il volto fasciato da una mascherina, che lascia scoperte solo due piccole fessure, attraverso le quali cerchiamo di riconoscerci. Il distanziamento sociale ci obbliga a diradare gli incontri per il pericolo del contagio. Si seguono le regole imposte per il bene di tutti. Mai come in questa occasione si sperimenta quanto sia vero il detto: il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne tutti insieme è politica. Uscirne da soli è avarizia (don Milani).

Andrà tutto bene”, si scriveva su drappi bianchi messi agli incroci delle strade nei mesi più lugubri della pandemia, per altro ancora in atto. Era un sussulto di speranza. Non si poteva crollare. Si guardava al futuro con lo sguardo rivolto al passato. C’era un tempo in cui non si aveva quasi nulla ma in quel nulla c’era tutto. C’era una volta la civiltà contadina. Non esiste più né ce ne sarà un’altra. Non è la celebrazione del bel tempo andato ma la constatazione che bastava poco per vivere nella serenità del lavoro e del timor di Dio, con le pene e gli affanni di ogni giorno.

Nelle chiesette di campagna, durante l’ottavario, la messa era al mattino presto. I contadini convenivano dai casolari più lontani. Erano già in piedi da diverse ore. Le mucche nelle stalle richiedevano di essere governate; via il letame dalle lettiere, portato nella vicina concimaia, lu “grascià“. Le mangiatoie venivano rimpinzate adeguatamente di fieno. Il rito dell’abbeverata era rimandato al ritorno dalla messa. Sacerdoti e confessori provenivano da Morrovalle, parrocchia San Bartolomeo, ma anche dal vicino convento dei Padri Passionisti. Nella chiesa di Santa Lucia officiava don Primo Antonelli. Era originario di Civitanova Alta. Arrivava in motorino che partiva a spinta. Gran sacerdote don Primo, lo ricordano in tanti.

L’ottavario era una funzione molto sentita. “Pietà dell’alme misere./ I falli, lor perdona, /eterna pace dona,/ luce perpetua dà“. Era un canto che accompagnava tutta la funzione religiosa. Non si aveva tempo di fermarsi alla cantina di “Scialò“, terminata la messa, come accadeva invece alla domenica. C’era da abbeverare le mucche o terminare la semina. Già la nebbia avvolgeva la campagna. Aggiogate le mucche, preparata la seminatrice, ci si inoltrava per i campi, accompagnando il lavoro con canti che avevano il potere di alleviare la fatica fisica. L’usanza di cantare si data in tempi assai lontani, tra le due guerre, poi questa cultura si è persa col tempo.

Grandi lavoratori, Alberto e Luigi, due fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto con le rispettive famiglie, terminata la semina nel proprio terreno, dodici ettari circa a rotazione agricola, avevano deciso di prenderne un altro, sempre a mezzadria. C’era però un inconveniente di non poco conto. Erano gli ultimi giorni di ottobre quando avevano deciso, d’accordo con il proprietario e con il fattore, di lavorare quest’altro terreno di circa sedici ettari. L’anno prima era stato coltivato tutto a granturco. In molte parti c’erano ancora gli steli, i gammù in dialetto locale, da estirpare. Era una corsa contro il tempo. Nelle prime due settimane di novembre si procedette alla fresatura del terreno, dopo aver tolto le sterpaglie, poi iniziò la semina del grano con la seminatrice meccanica trainata dal trattore, un Fiat 125 con cingolato adatto a terreni scoscesi.

Gianni, braccia sottratte all’agricoltura, superati gli esami della sessione autunnale all’Università, si dava da fare per aiutare il papà e lo zio nei lavori agricoli. Era abituato a portare il trattore. Il papà quella volta non si fidò. Il mezzo cingolato doveva procedere ad una andatura costante, senza strappi. La stessa seminatrice meccanica, agganciata al trattore, era trainata una volta dalle mucche. Bastava un nonnulla per rompere qualche sua parte. Gianni era sempre con la mano sull’acceleratore. Il grano raccolto in un cassone in ferro posto sopra il mezzo, fuoriusciva attraverso alcuni condotti flessibili e cadeva nel terreno, subito ricoperto da due dischi ruotanti che fendevano la terra verticalmente e la ricoprivano.

Quella volta si mise a sedere sopra il cassone della seminatrice. Guardava di tanto in tanto con la coda dell’occhio se il grano fuoriusciva dai tubi flessibili che toccavano quasi il terreno. Una disattenzione causò il fattaccio. Nel cassone della seminatrice non c’era più grano. Un bel tratto del terreno non era stato seminato. Sceso dal trattore, il papà non si scompose. Tra padre e figlio c’era anche tanta complicità. Prese un secchio di grano, legato a tracolla e si mise a spargere a grandi manate i chicchi di grano sul terreno. Era una tecnica che si usava in altri tempi, quando la semina veniva fatta a mano: “Van per il campo i validi garzoni / guidando i vuoi dalla pacata faccia / e, dietro quelli, fumiga la traccia / del ferro aperta alle seminagioni. // Poi, con un largo gesto delle braccia / spargon gli adulti la semenza, e i buoni / vecchi, levando al cielo le orazioni / pensan a frutti opulenti, se a Dio piaccia” (Gabriele D’Annunzio, i seminatori). Gianni aveva imparato nella locale Scuola Elementare la poesia di cui ricordava solo questi versi iniziali. D’Annunzio non gli piaceva proprio. Parlava di pastori e di seminatori, forse senza mai averli frequentati.

La semina del terreno durò più giorni. Si iniziava presto al mattino e si terminava tardi alla sera finché c’era abbastanza luce. Al mattino presto, una leggera nebbiolina risaliva dal fondovalle, dove scorreva il torrente, e copriva tutta la collina. Il momento più bello era verso mezzogiorno, quando la nebbia si diradava e splendeva il sole. Il tempo comunque faceva i capricci. Negli ultimi giorni del mese si mise anche a nevicare. Era uno spettacolo insolito vedere il leggero manto di neve coprire il terreno appena seminato. Sotto la neve, pane, recitava il detto popolare. Fu proprio così. Al termine di quell’annata agricola, il lavoro fatto venne ripagato con un abbondante raccolto di grano per la gioia dei due fratelli e della famiglia.

Non mi stancherò mai di parlare della civiltà contadina. Se è esistita nelle nostre campagne una classe sociale, di cui quasi nessuno ha mai parlato, è proprio quella dei contadini. Anche loro sono da annoverare tra i proletari senza rivoluzione. Ho nostalgia di quel passato. “Braccia sottratte all’agricoltura” si dice sempre per denigrare che viene da quel mondo. “Marì hai chiuso la porta della stalla?” –  Diceva qualche buontempone in modo provocatorio all’indirizzo della propria figlia che aveva conosciuto un ragazzo nato e cresciuto in una famiglia contadina. Poveretto non sapeva quel che diceva. “Non ti curar di loro ma guarda e passa”, diceva Dante Alighieri, anche se parlava degli ignavi. Il provocatore è peggiore dell’ignavo. Ah! Dimenticavo. Stalla è il termine dialettale di stabulum, parola latina (stabulum, stabula, neutro). Era il locale per il ricovero degli animali.

Da quel mondo, sempre considerato ai margini della storia, sono venuti fuori medici, insegnanti, avvocati, ingegneri, architetti. Hanno studiato e affrontato grossi sacrifici. Hanno riscattato le loro povere origini di cui però si deve andare fieri perché non hanno avuto mai nessun regalo da parte di nessuno, anzi solo botte sui denti.

 

Raimondo Giustozzi

 

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