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“Il mio primo esilio aldilà dell’Adriatico durò soltanto un mese. Simile a una sequenza cinematografica inattesa e irreale, si consumò velocemente in una cittadina delle Marche chiamata, se ben ricordo, Civitanova Mare. Quel duplice nome la distingueva dalla quasi anonima Civitanova Vecchia, abbarbicata come una rocca medievale sulla cima di un alto colle lontano dalla costa” (Enzo Bettiza, Esilio, pag. 281, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996). La cittadina adriatica, come precisato da Enzo Bettiza, è Civitanova Marche. La città vecchia è Civitanova Alta. Lo scrittore (Spalato, 7 giugno 1927 – Roma, 26 luglio 2017) venne invitato dall’amministrazione comunale, sabato 19 aprile 1997, per la presentazione del suo romanzo autobiografico Esilio. L’incontro si tenne presso la chiesa Sant’Agostino, restaurata e trasformata in auditorium, presente una folta rappresentanza delle scuole cittadine. Alcuni critici letterari hanno accostato per certi versi il romanzo di Enzo Bettiza ai Buddenbrook di Thomas Mann. La lettura di altri romanzi e saggi sul tema dell’esodo e dell’esilio ha l’ambizione di creare uno scaffale di testi che testimoniano la tragedia tutta italiana dell’esodo giuliano, istriano, dalmata.
L’esilio, il primo subito dall’autore, è quello relativo all’aprile del 1941, allo scoppio della guerra tra l’Italia e la Jugoslavia, l’altro, quello del 1945 sarà definitivo. L’invasione della Jugoslavia ad opera delle forze dell’Asse (1941) fu fulminea. La famiglia di Bettiza, temendo rappresaglie e vendette da parte degli slavi, fece rotta verso l’Adriatico Occidentale, destinazione Ancona. Enzo e Marino, il fratello, partirono da soli da Zara, imbarcati su una grande motonave dei Consulich in partenza per il capoluogo marchigiano. Il papà, la mamma e la sorella Nora, sordomuta erano partiti con un’altra motonave. Tutta la famiglia si ricompone in Ancona assieme a tutti gli altri italiani di Spalato, Cattaro, Ragusa, Sebenico, Traù, Almissa, Macarsca e delle isole.
Nella fretta di partire, il papà aveva portato con sé poche cose. Per alcuni giorni, tutta la famiglia rimane accasermata alla meno peggio in un albergo anconetano di seconda categoria che era stato messo a disposizione dalle autorità italiane. Da Ancona il viaggio prosegue verso Civitanova Marche, dove papà, mamma, sorella e i due fratelli vengono alloggiati presso una famiglia marchigiana: “Ci accolse con calorosa cordialità nella sua dimora un negoziante di stoffe di Civitanova Mare. Un giorno quel signore generoso e premuroso, di cui ricordo il sorriso ma non più il nome, invitò mio padre nel suo negozio, lo fece entrare nel suo ufficio, aprì una piccola cassaforte piena di banconote e gli disse: Prego, prenda quel che le serve. Questa guerra con la Jugoslavia non durerà a lungo. Mi restituirà il prestito con comodo quando sarete ritornati alla vostra casa di Spalato” (E. Bettiza, Esilio, pag. 285, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996).
Il denaro, avuto in prestito dal commerciante di Civitanova Marche, viene immediatamente restituito dal padre una volta che la famiglia ritorna a Spalato dopo appena un mese di esilio. Durante l’assenza dalla città dalmata, tutte le maestranze che lavoravano nella ditta paterna avevano provveduto diligentemente a proteggerne i beni. Erano operai, impiegati croati, e la numerosa servitù spalatina. I Bettiza ricevono da loro una festosa accoglienza: “Ci corsero incontro numerosi e festosi, stringendoci le mani, taluni perfino riabbracciandoci, e prendendosi immediatamente cura dei nostri pochi bagagli” (Ibidem, pag. 291). Il giovane Bettiza trova il clima cambiato. Fascisti italiani, tronfi per la vittoria riportata sull’esercito iugoslavo, inscenano manifestazione nazionalistiche. Scrive: “Mi disturbò e irritò profondamente, anche se non avevo ancora quattordici anni, il modo in cui certi scalmanati e urlanti fascisti dalmati ci fecero scendere dalla nave appena arrivata da Ancona. C’intrupparono come tante pecore in processone e, con lo scopo di dimostrare alle maggioranze slave di Spalato che l’epoca slava era finita, ci obbligarono a sfilare per la città deserta, cantando minacciosi inni irredentistici (Giuriam sull’onore dalmata che fra noi non esisterà più un croato) al seguito di grandi stendardi tricolori e di una banda militare dell’esercito italiano” (Ibidem, pag. 287).
La mamma, d’origine slava, cammina in silenzio con il viso arrossato per la vergogna e l’ira repressa. Ufficiali e soldati tedeschi, “nell’ostentato atteggiamento di superiorità, trattano con la stessa arroganza tanto il nemico vinto, quanto l’alleato di secondo rango che ha partecipato alla vittoria”. Davanti alle manifestazioni nazionalistiche dei fascisti italiani non vanno tanto per il sottile. Sciolgono d’autorità un corteo di fascisti spalatini che inneggiano alla vittoria. Il padre di Bettiza schiuma rabbia per i fascisti gradassi e spacconi. Solo Marino, il fratello di Enzo, vuole partecipare alla festa inscenata da fascisti. Sale verso la mansarda della propria casa per esporre alla finestra la bandiera italiana con lo stemma sabaudo. Chiede ad Enzo di appoggiarlo nell’impresa. Il nostro a tutto pensa meno che a queste bambinate scioviniste. Interviene di corsa il padre che, richiamato da Enzo, solleva letteralmente il figlio, dandogli del cretino e vile. Tenendo sempre il dito puntato sulle case silenziose del vicinato, si lascia andare a un lungo e veemente bisbiglio: “Quella brava gente ci conosce da sempre, vi ha visto nascere, con loro abbiamo avuto sempre rapporti buoni e amichevoli. Perché offenderla, innalzando la bandiera italiana, la bandiera dell’aggressore e del vincitore… Perché umiliare i nostri operai e domestici croati, che ci hanno appena riaccolto dall’esilio come parenti, con l’esibizione inutile di un pezzo di stoffa colorata? Noi conviviamo con gli slavi da secoli” (Ibidem, pag.294).
Il padre di Enzo “Per nascita, per vicissitudini autobiografiche, formazione familiare, educazione scolastica, non poteva essere che cosmopolita e liberale. Aveva perfezionato il suo croato nelle reali di Spalato, aveva studiato il tedesco alle università di Vienna e di Graz, aveva prestato servizio come sottotenente nell’esercito austroungarico durante la prima guerra mondiale, aveva sposato una slava e i figli nati dal matrimonio erano, come lui, bilingui. Tutto, in un uomo con una simile formazione alle spalle, doveva per forza di cose opporsi intimamente alle violenze e sopraffazioni mononazionali e monoculturali, per non dire subculturali, del fascismo. Purtroppo per lui, e per tutti noi, l’Italia arrivata con le armi e con le manette in Dalmazia era l’Italia fascista” (Ibidem, pag. 297).
Se questo era il padre, il figlio non doveva essere da meno. Giunto all’età della ragione, aveva subito stabilito “un nesso fatale e losco fra la nazionalità e la bestialità. La mia fluida psicologia di confine, il mio carattere attirato dall’ubiquità, il mio stesso bilinguismo, mentale nonché orale, mi avevano fin da bambino predisposto all’assorbimento naturali di influenze diverse e contrastanti. I miei sentimenti e la mia mente dovevano maturare quindi nel disgusto per ogni genere d’amputazione semplificatrice verso il prossimo, e, in particolare verso me stesso. Segnato da iniziali influssi serbi nell’infanzia (i nonni materni e la balia montenegrina), poi italiani nella pubertà (i parenti del padre, nonni e zii), quindi croati nell’adolescenza, ai quali dovevano aggiungersi più tardi innesti germanici e russi, ho lasciato crescere poco per volta in me multiformi radici culturali europee; non ho dato mai molto spazio alla crescita di una specifica radice nazionale” (Ibidem, pag. 284).
A Spalato e nella Croazia occupata, tutto precipita dopo l’8 settembre 1943 con il tracollo dello Stato italiano. Non ci sono più istituzioni che tutelino la vita dei cittadini. Si susseguono attentati sanguinosi, faide, vendette nate dal più profondo risentimento contro gli italiani visti solo come fascisti, colpevoli di italianizzare, con la forza, realtà culturali diverse che appartenevano a sedimentazioni storiche che venivano da lontano. “Ricordo che papà esclamava infuriato: Vogliono non solo italianizzare ma fascistizzare col manganello, in ventiquattr’ore, migliaia di slavi che neppure sanno che Mussolini si chiama Benito! Non era certo questa l’Italia che noi aspettavamo!” (Ibidem, pag. 298). L’esodo definitivo da Spalato avviene nel 1945, quando il giovane Bettiza si imbarca su un “peschereccio pugliese di fortuna in rotta per Bari, pericolosamente sovraccarico di ebrei ungheresi, slovacchi, polacchi, romeni, fuggiti chi sa come dall’Est e approdati all’Adriatico” (Ibidem, pag. 466).
L’esilio come condizione perenne della propria esistenza
Scrive Enzo Bettiza nel romanzo: “Io sono un esule nel più completo senso della parola: un esule organico più che anagrafico, uno che si sentiva già in esilio a casa propria, molto prima di affrontare la via dell’esodo effettivo nella scia delle grandi migrazioni che, verso la fine della seconda guerra europea, dovevano stravolgere la carta etnica e geografica dell’Est europeo. Fin dai tempi in cui ero stato costretto a spostarmi di continuo fra il confino scolastico di Zara e l’ambiente nettamente più slavo e più familiare di Spalato, mi sono trascinato addosso il disagio di un ragazzo bilingue, sdoppiato, spesso quasi estraneo a se stesso. Un ragazzo che non sapeva bene a chi e a che cosa appartenere; sempre in bilico perplesso e interrogativo fra genitori, nonni, zii, cugini, amici, amiche, nutrici, servi di diversa nazionalità; sempre precario in una terra nella quale, soprattutto dopo il crollo dell’Austria, i risentimenti e i contrasti nazionali erano diventati l’acido pane quotidiano di cui si nutrivano i suoi irrequieti abitanti” (E. Bettiza, Esilio, pag. 17, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996).
Il romanzo, di quattrocento sei pagine, diviso in un prologo, un epilogo e sei capitoli di diversa lunghezza, è una sorta di autobiografia per ammissione stessa dell’autore. Probabilmente non sarebbe mai nato “se non fosse scoppiata la guerra nella ex Jugoslavia e se la particolarissima regione, in cui sono nato, non ne fosse stata offesa, sconvolta e mutata”. La regione è la Dalmazia, oggi chiamata sbrigativamente “Croazia del Sud” dai governanti di Zagabria, “molto gelosi della recente sovranità nazionale e statale conquistata a duro prezzo di sangue e di rovine nella guerra difensiva contro i serbi”. Costretto a vivere in un esilio quasi perenne, anche quando risiedeva con la propria famiglia a Spalato, dove c’era una maggioranza serbo – croata e una minoranza italiana, figlio di un padre veneziano e di una mamma di origine montenegrina, con la scelta di abbandonare definitivamente la propria terra d’origine dopo il 1945, l’esilio diventa per lui una caratteristica della propria esistenza. Scrive: “L’esilio prolungato nello sazio e nel tempo, l’esilio senza ritorno aggravato dal vagabondaggio dispersivo in altri mondi, possiede una rara quanto perforante facoltà distruttiva: lentamente carbonizza tutto ciò che siamo stati altrove, recide i vincoli di sangue, spegne i ricordi, fa impercettibilmente tabula rasa del passato” (Ibidem, pag. 18).
Prologo
Nel prologo, dopo aver definito il concetto di uomo austriaco, che “poteva agire e comportarsi in società, in maniera affatto naturale, da perfetto homo austriacus e contemporaneamente sentirsi sloveno boemo polacco ebreo croato o italiano”, l’autore ricorda Mara Vujnić, la propria balia di etnia serba, una delle persone più importanti della sua infanzia. La madre dell’autore, Maria Vušković, di origine montenegrina, nata sull’isola di Brazza, era una donna di rara bellezza: “La bellezza era il fulcro della sua personalità concentrata, delle sue scarse azioni, delle sue cupe preoccupazioni, delle sue limitate aspirazioni quotidiane e delle varie altre diramazioni inafferrabili del suo modo indolente di vivere e di concepire la vita”. Sposa l’italiano Vincenzo Bettiza, uno dei due soci titolari del cementificio Gilardi & Bettiza di Spalato. I Bettiza si sentivano contemporaneamente dalmati ma anche italiani, originari di Venezia di cui parlavano il dialetto “coloniale”. Anche il nonno materno di Enzo era dalmata ma nutrito di miti serbi e montenegrini. Bastava un nonnulla per ricordare le proprie lontane origini. Si era alterato con il genero che non aveva esposto il drappo nero nella propria casa, in occasione dei funerali del sovrano iugoslavo Alessandro Karadjordjević. Questi era stato ucciso nell’ottobre 1934 in Francia “dai colpi di una rivoltella balcanica non più serba ma croata, sparati da un terrorista macedone addestrato e armato dagli ustascia di Ante Pavelić”. La rivoltella serba di Gavrilo Princip aveva freddato nel 1914, a Sarajevo, l’arciduca Francesco Ferdinando scatenando la prima guerra mondiale.
La casa di Spalato, dove Enzo Bettiza viveva con i propri genitori, con il fratello Marino più grande di lui di alcuni anni, dal temperamento intraprendente, e Nora, la sorella più piccola, nata sordomuta, era stata divisa, alla morte del nonno paterno Pietro, tra il padre e lo zio Giani. Quest’ultimo, rimasto invalido nella grande guerra per una “pallottola italiana che gli aveva perforato in verticale tutto il polmone destro”, aveva sposato Tina Guina, italiana, figlia di un ricco commerciante di tessuti amante della vita e dei viaggi. “Di solito erano le donne slave che entravano come spose seppur mal digerite nelle famiglie della borghesia italiana; più di rado, quasi mai, capitava che una ricca italiana andasse a consegnarsi come sposa ad una famiglia slava”. L’altro fratello del padre, lo zio Marino, anarcoide e internazionalista, aveva deciso di optare, assieme a Vincenzo Bettiza, per la cittadinanza italiana dopo il crollo dell’Austria e la costituzione del nuovo regno jugoslavo.
Consuelo
In questo capitolo, Bettiza descrive l’esilio forzato che lui e suo fratello Marino dovevano compiere al termine delle vacanze estive, per frequentare il ginnasio italiano a Zara, annessa allora al Regno d’Italia. La scelta di mandarli a Zara, enclave italiana, era stata presa ovviamente dal padre, anche se contestata dalla mamma. L’unica nota positiva di questo primo esilio forzato consisteva solo nel fatto che ai due fratelli era stata solo risparmiata la ferrea disciplina del Convitto Niccolò Tommaseo. Alloggiavano infatti presso una famiglia privata dove la regola più rigorosa era solo il rispetto dell’ora dei pasti, per il resto i due studenti godevano della più ampia libertà. Il fratello Marino, di spirito più libero, più che allo studio badava a tutt’altro: “Raramente apriva un libro, disprezzava ogni lavoro o impegno che richiedesse pazienza, perseveranza, disciplina”.
I due fratelli trascorrono tre anni a Zara, dal 1938 fino alla pagella della “piccola matura” che coincise con l’aggressione italiana alla Jugoslavia. A scuola, Enzo sperimenta una prima “cotta” per una compagna di classe, presto dimenticata grazie alla supplente di lettere Consuelo, una rossa trentenne che ha l’abitudine di passare tra i banchi dei suoi alunni e di accarezzare le loro chiome. Un giorno, temendo di non essere più il suo “favorito”, Enzo le scrive una lettera in cui dichiara i suoi sentimenti; Consuelo sembra ignorare la cosa ed il ragazzo ha una reazione inconsulta a cui segue una malattia. In questo stato viene spesso visitato dallo zio Ugo Belich, un austero professore che vive in città. La considerazione di Enzo per questo parente si sarebbe poi accresciuta quando, durante un pranzo, egli avrebbe espresso una prudente ma disincantata critica al Fascismo. Uno dei migliori amici di Enzo a Zara è Matteo Tolja, rampollo scavezzacollo di ricca famiglia, che aiuta con i compiti. Al suo rientro a scuola, Enzo non trova più Consuelo, che ha lasciato l’incarico per farsi infermiera volontaria in Abissinia.
Zara e Spalato.
Sistemata Nora, la figlia sordomuta in un istituto milanese retto da suore, preoccupata per le condizioni di salute del figlio, la madre di Enzo si reca a Zara, dove va ad alloggiare presso il professor Belich. Una sera, non ravvisando la via del ritorno a causa dell’oscuramento, cade in mare ma viene salvata, senza riportare troppe conseguenze. Del tutto guarita, incapace di opporsi alla decisione del marito che aveva mandato i propri figli a Zara, si scaglia in una terribile invettiva: “Che Zara sia maledetta! Che i neri bubboni della peste possano divorarla da cima a fondo” (Ibidem, pag. 167). La maledizione si compì come una profezia apocalittica. Tra l’estate e il primo autunno del 1944, Zara fu letteralmente rasa al suolo dalle fortezze volanti angloamericane. I partigiani del maresciallo Tito, nome da “imperatore romano”, fecero il resto, cancellando finanche nelle lapidi del cimitero i nomi di famiglie italiane. Quello che i Fascisti avevano fatto con l’occupazione della città viene ripetuto dai nuovi vincitori con inaudita ferocia.
Le pagine più profonde del capitolo riguardano le osservazioni che l’autore fa sulla diversa indole degli abitanti di Zara, più inclini al sentimentalismo, e degli spalatini, più concreti, quasi fatalisti, vicini alla mentalità tedesca. Sono estremamente belli i ricordi di Enzo Bettiza, legati ai funerali di famiglia e dei suoi parenti di Spalato, che si concludevano, dopo un sontuoso corteo funebre, nel cimitero di Santo Stefano, smantellato dagli Jugoslavi negli anni del dopoguerra. A tutto tondo è la descrizione di Bepe Mitrović, il “tombaro” di famiglia. “La liturgica compostezza del rituale d’un tratto si decomponeva, si disintegrava, in un moto sempre più frenetico, vorticoso, rumoroso, pressocché assordante. Sovrastava la subitanea confusione il tuono implacabile della voce di Mitrović, che dava ordini e disposizioni a destra e a manca. L’involontaria vis comica, scatenata dalla travolgente personalità del tombaro striminzito ma imperioso, dal cui interno promanava il fluido di una misteriosa e contagiosa energia sonora, s’abbatteva come la schioccata di un’incandescente coda luciferina sul cordoglio generale e subito lo scompigliava e mandava in mille frantumi” (Ibidem, pag. 156). Durante tutto il rito della tumulazione del feretro nella grande tomba di famiglia, nessuno osava fiatare. Tutti osservavano il lavoro del tombarolo, aiutato da solerti manovali morlacchi che rispondevano come automi ai suoi ordini secchi e perentori. Durante la tumulazione di un congiunto morto al tempo della febbre spagnola avvenne l’irreparabile. Le funi che sorreggevano la bara, si spezzarono. La cassa precipitò a picco verso il fondo della tomba. “Nell’urto saltò in aria il coperchio e il cadavere dell’estinto, fra le rigurgitati bestemmie del Mitrović, fuoriuscì spezzato dalla bara come uno spaventapasseri stroncato da un fulmine. Anche allora, secondo il colorito racconto di mio padre, nel quale il pungolo dell’ironia e della parodia era sempre all’erta, l’orrore si mescolò istantaneamente alla commedia. Chi incominciò a farsi il segno della croce in ginocchio, chi comprimeva il pianto e chi il ghigno; intanto dal cavo profondo del sepolcro, come dalle viscere della terra, salivano e gemiti cavernosi e stizzosi del contrariato Mitrović, disceso dentro la tomba per una scala di legno, con la torcia elettrica in mano, a ricomporre alla meno peggio nell’oscurità il morto impigliato fra i legni e le schegge della bara sfasciata. Fu in seguito a quel macabro infortunio che al nostro tombaro venne l’idea di portarsi sempre dietro, nei successivi funerali, una bara di sicurezza e di ricambio” (pag. 159).
La famiglia.
In questo capitolo, l’autore rievoca le figure dei suoi antenati dal ramo paterno. Il nonno Pietro “Era l’esponente di maggiore spicco nella succursale spalatina del partito viennese di Lueger, di cui curava gli interessi e il radicamento elettorale anche nel resto della Dalmazia austriaca. Si badi bene soltanto austriaca, non austroungarica, come sarebbe piaciuto invece ai dalmati croati, desiderosi di staccare la Dalmazia dal legame diretto con Vienna per unirla alla Croazia dipendente da Budapest” (pag. 176 – 177). Questo legame non gli impediva tuttavia di avere rapporti con “Bajamonti, il sindaco risorgimentale della città e appoggiare tutte le associazioni che erano covi italianeggianti e autonomisti, nel senso che perseguivano una politica di disturbo, mista all’irredentismo mazziniano e di austriacantismo asburgico, sostanzialmente volta a mantenere la Dalmazia autonoma dalla Croazia e dall’Ungheria e legata a doppio filo all’Austria” (pag. 177).
Altro antenato di questa galleria di personaggi è il bisnonno Marino, fondatore dell’impresa di costruzioni, di cui Enzo Bettiza utilizza un’interessante osservazione autobiografica, trascritta nel suon testo originario: “La nostra famiglia, Dia sa come, è diventata nell’Ottocento uno scampolo esotico e lontano della grande rivoluzione economica e tecnica importata sul continente dall’Inghilterra. Lo è diventata, però in singolare contrasto con tutte le analisi e prognosi del prof. Marx. Il teorema marxista difatti, mentre assegna un ruolo trainante nell’evoluzione del capitalismo alle nazioni più progredite dell’Occidente, degrada invece a una funzione negativa, quasi di freno feudale, le nazioni minori immerse nella palude di questo anacronistico impero semi orientale governato dagli Asburgo” (pag. 180- 181). La fabbrica dei Bettiza impiantata a Spalato, secondo tutte le tecnologie e i modelli di produzione propri delle migliori industrie inglesi, smentiva l’analisi di Marx. Più volte il professore era stato invitato a Spalato per vedere di persona il modello spalatino. Venne impedito dalla malattia e dalla morte.
Bettiza risale poi al trisavolo Girolamo Smacchia Bettiza, l’iniziatore delle fortune dei Bettiza in terra dalmata, quando la Dalmazia e la sua costa divennero parte integrante delle nuove province illiriche. “Il padre del bisnonno Marino, il trisavolo Girolamo, avventuroso uomo d’armi e di commerci che esibiva un sonoro doppio cognome patrizio, Smacchia Bettiza, era riuscito non si sa come a conquistare la fiducia dei francesi ottenendo l’incarico di vicetesoriere, praticamente di cassiere, dell’armata di Dalmazia comandata da Marmont. Questo giovane e ambizioso generale, personaggio tipicamente stendhaliano, che dopo Wagram verrà eletto da Napoleone al grado di maresciallo, aveva di fatto avocato a sé gran parte dei poteri del governatore imperiale Dandolo, residente a Zara. Diventato il vero seppure discusso padrone della regione, il generale sentì la necessità di affidare la gestione corrente delle finanze della sua armata a un nativo che fosse non solo sveglio e competente, ma anche esperto in opere di costruzione” (pag. 181).
Il trisavolo Girolamo Smacchia Bettiza è l’uomo giusto per il generale Marmont “che voleva fare della Dalmazia una provincia esemplare tanto dal punto di vista strategico quanto estetico; lui che aveva eletto la bellissima Ragusa a sua lussuosa dimora regale, vagheggiava di trasformare l’intera costa dalmata in una Costa Azzurra fortificata, munita di caserme confortevoli, bagni turchi, locande accoglienti, comode poste per diligenze e compagnie a cavallo”. Venezia, repubblica talassocratica, si era servita di vie marittime per i propri commerci. Non aveva mai pensato di ricoprire il lungo litorale adriatico con una decente rete stradale. Il generale Marmont trova in Girolamo Smacchia Bettiza l’esecutore materiale del progetto. Il trisavolo di Enzo Bettiza finanzia la costruzione della strada con i soldi francesi. Conflitto di interessi si direbbe oggi, sì perché Girolamo era il tesoriere dell’armata francese e l’appaltatore dei lavori voluti dal generale francese. L’armata francese in Dalmazia era un pozzo senza fondo. Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone, dal quale Marmont riceveva ordini, rimproverava regolarmente i costi eccessivi. Il generale faceva orecchie da mercante. Andava avanti per la sua strada, anche quando Beauharnais, su pressione dello stesso Napoleone. lo invitava a “verificare se non ci fossero violazioni di cassa”, date le spese esorbitanti. Napoleone si ricrede quando viene a sapere che in un anno, dal 1807 al 1808, “ricalcando l’antico tracciato romano, i soldati francesi e i manovali arruolati dal mio antenato, avevano esteso per le piane e le aspre montagne illiriche un cordone stradale lungo più di trecento chilometri, conferì immediatamente a Marmont il titolo di Duca di Ragusa” (pag. 184).
Le fortune del trisavolo Girolamo furono le stesse del generale Marmont. Venne premiato e incoraggiato all’incremento del già suo cospicuo patrimonio familiare. “Grandi elogi ed incensi piovvero sul suo capo dopo un fatto d’armi, modesto ma tipicamente balcanico. L’eterogeneo esercito di genieri, fanti, gendarmi, manovali, manovalesse e vivandiere, guidato per centinaia di chilometri dal trisavolo nella costruzione della strada napoleonica, era giunto con le sue salmerie di muli e di cariaggi in prossimità del Montenegro: i lavori avrebbero dovuto arrestarsi e chiudersi entro i crepacci del fiordo di Cattaro” (pagg. 185- 186). Il trisavolo, nel corso di una cruenta battaglia contro i montenegrini, spalleggiati dai russi in funzione antifrancese, fece scudo con il proprio corpo alla cassa del reggimento. Estrasse la pistola e freddò con un colpo un ufficiale cosacco. I banditi, privati del loro capitano di ventura e presi dal panico, si dileguarono tra le forre da cui erano spuntati. L’episodio valse al trisavolo un tributo di onori e accrebbe ancor più le proprie ricchezze.
Le cucine.
Scrive Enzo Bettiza: “Ero già abbastanza grande il giorno in cui domandai a mia madre, a bruciapelo, quale fosse stata la cosa che l’aveva impressionata di più trasferendosi dall’abitazione dei suoi genitori nella casa di mio padre. Lei per un attimo restò pensierosa e perplessa. Poi senza esitazione, mi rispose: la cucina” (pag. 209). La cucina era l’ambiente più vasto e più fervido di tutta la casa. L’autore così passa in rassegna tutti i “rituali” che vi venivano svolti e i piatti preferiti dai suoi genitori: l’odojak (maialino da latte) e quelle che Vincenzo Bettiza chiamava “le cinque sinfonie culinarie più maestose”: sarma, scorpena, lepre, beccaccia e pastizada. La cucina di casa Bettiza, in ragione della storia e della posizione geografica della Dalmazia, aveva contaminazione venete, triestine, slovene, turche, balcaniche, ungheresi, viennesi, perfino ebraiche come la panada, densa minestra color verde cupo fatta con pane raffermo e foglie di lauro” (pag. 214).
La preparazione dei piatti avveniva con la supervisione delle cuoche più anziane; tra queste spiccava “Luce Lisac, in traduzione italiana Lucia Volpe, per circa quarant’anni al fedele servizio delle salmerie familiari. Era una donna mite, segaligna, ostinata e religiosa, munita però, in armonia somatica col cognome, di due perforanti occhi volpini. Era una popolana, nata nello spalatinissimo borgo Lučac. Vergine e zitella non aveva mai sfiorato un uomo, né in gioventù né durante la mezza età” (pag. 210). Credette di aver trovato l’uomo della propria vita in età avanzata. Fu una scelta sbagliata. Le dilapidò tutto. Visse di stenti. Enzo Bettiza la incontrò per caso diversi anni dopo la seconda guerra mondiale, durante un suo breve soggiorno estivo a Spalato. Era seduta su una rudimentale sedia di paglia, sola e smemorata. Riconobbe Bettiza, e, dopo averlo abbracciato gli disse: “Come sono stata stupida a lasciare la vostra casa. Chi è nato nel dolore non dovrebbe mai cercare la felicità, poiché quella che trova è un dolore ancora peggiore” (pag. 211).
All’età di cinque anni, Enzo consumava i suoi pasti in cucina in compagnia dell’agnellino Gašo, che portava anche a passeggio per la città con la balia tenendolo al guinzaglio. Ad un certo punto i genitori del bambino, trovando la cosa indecorosa, fecero macellare Gašo, cosa che provocò al piccolo Enzo uno choc. La compagnia di Gašo occupa un posto di primo piano nell’intero capitolo (pag. 255- 275).
La guerra.
E’ il capitolo centrale del romanzo, dove Enzo Bettiza ricorda i due tempi della guerra, quello breve del 1941 con l’occupazione militare della Jugoslavia per opera delle forze dell’Asse, e quello che si protrasse fino all’8 settembre 1943 con la dissoluzione dello Stato Italiano. Il regime fascista che si era spinto verso una italianizzazione della Dalmazia è chiamato ben presto a pagare il conto. Savo, il federale, zelante fascista, viene ucciso in un attentato dal giovane comunista slavo Čerina. Enzo entra in grande confidenza con Frano Sentić, miglior amico dell’attentatore, come gli viene successivamente rivelato. Frano è un giovane croato che si è costruito una grande cultura da autodidatta grazie alle carte appartenute allo scrittore Tin Ujević, che aveva abitato presso la sua famiglia. Frano accumula grandi guadagni col mercato nero, rivendendo le merci, acquistate a Spalato, nei villaggi della Bosnia e dell’Erzegovina. Enzo dal canto suo si appassiona alla pittura e al gioco d’azzardo, arrivando a compiere piccoli furti in casa. Nei primi anni del dopoguerra, ridotta in ristrettezze economiche la propria famiglia, lo scrittore farà molti lavoretti precari, prima di diventare giornalista e scrittore di successo.
In un attentato terroristico nel 1942 muore Piero, figlio dello zio Marino, per una bomba esplosa durante il concerto di una banda musicale; solo dopo molti anni Enzo scopre che suo cugino era l’attentatore. Un’altra vittima del terrorismo è il dottore croato Račić, sostenitore dell’idea di una Jugoslavia a guida serba, che viene trovato in un lago di sangue da Vincenzo Bettiza sulle scale di un palazzo.
Il ritorno
L’autore fa ancora il paragone tra i tempi della seconda guerra mondiale e quelli della recente guerra in Jugoslavia. In occasione dei suoi ritorni nella città natale rincontra l’amico Frano, col quale si mette a rievocare i tempi andati. Un altro personaggio col quale s’intrattiene, malgrado abbia avuto con lui anche degli scontri di natura professionale, è lo scrittore Milienko Smoje. L’incontro con lo storico locale, di origine russa, Anatolij Kudrjavcev fa dire che per preservare l’integrità di Spalato ci vorrebbe una “dittatura municipale” ispirata a quella dell’antico sindaco Antonio Bajamonti.
Epilogo
L’autore prende in considerazione le conseguenze psicologiche dell’esilio e lamenta come in Italia ci sia una concezione distorta della storia recente della Dalmazia. Rievoca poi la nascita della città di Spalato e fa notare come anche l’imperatore Diocleziano in fondo si fosse imposto un volontario esilio. Dichiara infine che comprese di essere un esule quando, una sera del 1945, dalla nave che portava lui e la sua famiglia verso l’Italia, vide allontanarsi le luci della città natale: “Il peschereccio, schiacciato dal peso di quell’umanità fuggitiva, levò le ancore e puntò la prua su Bari. Fino all’ultimo io guardai l’amico (Frano) che, in piedi sul molo, senza mai agitare la mano, diventava via via sempre più minuto, più fragile, più evanescente. Quando si ridusse a un grigio puntolino nell’azzurro, capii che il mio esilio era davvero incominciato” (Pag. 467).
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