La questione della colpa non mi dà pace. Ho rivisto un film di Park Chan-wook, riletto Anassimandro: ognuno di noi, ogni minimo organismo, fa del male agli altri per il solo fatto di esistere…
Il mio pensiero è sempre lo stesso: chi ci risarcirà di questo struggimento? Che colpa abbiamo? Quale reato abbiamo commesso? La questione della colpa non mi dà pace. Mai come in questa occasione viene spontaneo pensare ai carcerati. Come fanno a resistere le persone lì dentro? Difficile non provare pena per loro. E per me? Chi prova pena per me chiuso in casa mia? Con tutti i comfort, tutti i cosiddetti dispositivi, tutte le famose possibilità fornitemi dalla mia formazione (rileggere l’Eneide?, Don Chisciotte?, rivedere Tarkovskij?), ogni buon proposito lasciato appassire nella noia.
Allora ho cominciato a rovistare in cerca della colpa, non in direzione del pipistrello di Wuhan, bensì più a fondo. C’è un film di qualche tempo fa, Old Boy, del regista sudcoreano Park Chan-wook, in cui un uomo innocente viene rapito e rinchiuso in una cella, e quando finalmente riesce a chiedere conto di una simile atrocità al suo aguzzino, questi gli risponde: «Se ti chiudono in un posto per quindici anni senza che tu abbia fatto niente, cominci a chiederti cos’hai fatto e soprattutto a chi. E alla fine, anche se sei innocente, scopri di aver fatto comunque del male a un sacco di gente». In effetti, a me bastano pochi giorni per raggiungere lo stesso risultato. Ma chiaramente il film intende dire qualcosa di più: ognuno di noi fa del male agli altri, ovvero è colpevole, già solo per il fatto di esistere. Ecco, il film di Chan-wook, un po’ come i romanzi di Kafka, un po’ come il Diario di Anne Frank (la reclusa per eccellenza), ci mostra che nessuno è estraneo alla colpa. A differenza degli animali, l’avventura terrestre non comporta per noi lo stato di innocenza. Ovviamente non sto parlando di aule di giustizia, sto parlando di una tonalità etica intrinseca alla natura umana. Poi, certo, ci sono le atrocità che abbiamo commesso e continueremo a commettere, dal nazismo alla distruzione del pianeta, però la questione della colpa precede tutto questo, ne è per così dire la condizione.
Ma non è finita. Stando rinchiuso in casa ho ripreso in mano vecchi libri (sì sì, a un certo punto ho provato a vincere la noia) e mi sono imbattuto nei Frammenti dei presocratici, tra i primi dei quali Anassimandro, che sentenzia: «l’apeiron (l’illimitato) è il principio di tutto, ciò in cui le cose hanno la loro generazione e il loro dissolvimento, pagando l’una all’altra il fio della propria ingiustizia».
Ecco il colpo di scena. Non solo gli umani quindi, con il loro nazismo e il loro antiecologismo, ma anche gli animali e le piante e ogni altra cosa, ogni minimo organismo, anche microscopico, anche acellulare, solo per il fatto di essere venuto al mondo deve scontare una colpa. In altre parole, il coronavirus esiste perché la vita è ingiusta. La sua, la mia e la vita di tutti. È la stessa ingiustizia che la ginestra leopardiana deve affrontare in ogni istante della sua fragile resistenza. Ma la ginestra, già solo per avere offerto i suoi fiori alla luce, non è meno colpevole del Vesuvio. Tenerlo presente può servirci forse a mitigare, se non la noia, almeno lo struggimento di questa clausura forzata.
Corriere.it
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