
Fonte Internet
di Simone Gambacorta
Gli piacque un libro che gli fu regalato. Disse che sembrava uno di quelli della casa editrice Ricciardi. Ne fu contento o lo sembrò. In quel momento era in camicia, senza giacca. Era giugno e si era in piazza Sant’Anna perché c’era il Premio Teramo e tutti avevano caldo. Era il 2010 e Alberto Arbasino era lì per ritirare il premio “Michele Prisco” alla carriera. Si stava per iniziare ma ancora mancava un po’ e lui se ne stava seduto davanti al palco e parlava con quanti lo contornavano. C’era anche Edoardo Albinati, vincitore del Premio “Giuseppe Pontiggia” per la raccolta di racconti Guerra alla tristezza. Arbasino era molto signorile ma era difficile non sentirsi inibiti nel trovarselo di fronte. Quel premio alla carriera era quanto di più giusto si potesse fare e le sue opere pubblicate nei Meridiani Mondadori a cura di Raffaele Manica erano (sono) lì a ricordare a tutti il livello svettante e sopraffino della sua scrittura. Una volta sul palco (con la giacca) Arbasino fu altrettanto allegro e amabile e si disse contento del fatto che fosse dedicato alla memoria di Michele Prisco il premio che gli veniva assegnato quel giorno. Sul palco parlò con verve e allegria e anche se si mosse pochissimo diede l’idea di essere un prestigiatore. La diede proprio perché non fece nessuna magia. Nessun trucco, nessun effetto speciale, nessun illusionismo. Solo e soltanto Arbasino, liscio e senza ghiaccio: nessunissima tentazione da showman, zero arie da intellettuale, zero aria professorale e zero e porto zero noia. Quello che davvero quel giorno Arbasino fece fu favorire l’immigrazione clandestina. Fece entrare sottobanco a Teramo una lezione che non sembrava né voleva sembrare una lezione ma che ugualmente e fortunatamente lo fu lo stesso, se non altro per chi volle o seppe coglierla. Con il suo stesso dire, con il suo stesso misuratissimo agire (e anche con il suo abbigliamento esemplarmente adatto alla situazione), fece tacitamente intendere che quel pomeriggio una cosa su tutte si sarebbe dovuta e potuta fare (una sola, perché il resto ne sarebbe semmai diceso a grappolo), e non altra che quella, tanto più che gli toccava ritrovarsi con tutti quanti riuniti attorno a lui come se fosse atterrato in uno dei tanti presepi viventi disseminati nella media provincia italiana. Quello che c’era da fare quel pomeriggio era tenersi massimamente al riparo da certe ziette che tra ciprie, chiffon, svolazzi e piroette non fanno altro che spargere su tutto una marmellatina pesantissima e ributtante, e vale a dire la “zia retorica” e la “zia magniloquenza”, le quali sono già da sole a tal punto tossiche e acerrime da stecchire chicchessia in men che non si dica, ma è ancora peggio se portano con sé quell’altra comare detta “culturina da momento culturale” che peggio mi sento. È morto ieri, Alberto Arbasino, a novant’anni, e quel giorno a Teramo ha regalato a tutti un airbag per evitare i frontali col peggior midcult. Non saranno mai sufficienti i ringraziamenti per quel gesto da gentleman e per tutto quello che ha scritto.
(pubblicato sul quotidiano della provincia di Teramo “La Città” il 24 marzo 2020)
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