Fu tra i protagonisti del Gruppo 63 e, in generale, del dibattito novecentesco e contemporaneo. Spaziava dalla musica alla letteratura, dal teatro all’arte
di ANTONIO CARIOTI
Era un’esperienza intrigante, ma al tempo stesso sconcertante e comunque sempre impegnativa, misurarsi con la prosa di Alberto Arbasino, scomparso all’età di 90 anni. Intellettuale cosmopolita dall’erudizione sterminata, letterato dallo stile inconfondibile, sapeva rendere con estrema efficacia il linguaggio parlato delle classi istruite o semi-istruite italiane, in buona parte mutuato dai media. E amava scarnificarlo senza pietà, metterne in mostra la pochezza e gli stereotipi, fustigare con perfido sarcasmo i vizi che ne trasparivano. Svariava con naturalezza, nei suoi libri, dal teatro alle varie forme di arte figurativa, dalla musica alla letteratura. Il suo piglio dissacrante poteva risultare quanto mai spassoso, ma anche molesto e saccente, a seconda dei gusti. Di certo bisogna riconoscergli di aver dimostrato un fiuto sopraffino nel captare le trasformazioni del costume e della comunicazione di massa.
Nato il 22 gennaio 1930 a Voghera, in provincia di Pavia, da una famiglia di professionisti, lettore instancabile fin da piccolo, Arbasino aveva interrotto gli studi di Medicina per dedicarsi con profitto a quelli giuridici e aveva intrapreso a metà degli anni Cinquanta la carriera accademica, forte anche di proficui soggiorni alla Sorbona di Parigi e all’Accademia di diritto internazionale dell’Aia. Nel 1965 però, deluso, avrebbe lasciato l’università. Nel 1959 si era recato per la prima volta negli Stati Uniti, allo scopo di seguire i corsi di relazioni internazionali tenuti ad Harvard da un giovane professore di origine tedesca destinato a diventare potente e famoso, Henry Kissinger. Da subito Arbasino aveva sviluppato un enorme interesse per la società d’Oltreoceano e la sua vivace produzione culturale, a cui avrebbe dedicato molti anni dopo il volume America, amore (Adelphi, 2011).
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Nel frattempo aveva cominciato a scrivere su riviste di prestigio: «L’Illustrazione Italiana», «Officina», «Tempo presente», «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Reportage dall’estero, interviste, ritratti di scrittori famosi, poi inclusi nel volume Parigi o cara (Feltrinelli, 1960). Ma anche racconti: il primo, intitolato Distesa estate, era uscito su «Paragone» nel 1955. Nel 1957 Arbasino ne pubblicò una raccolta, Le piccole vacanze (Einaudi), i cui testi furono poi riproposti, insieme ad altri, nel successivo volume L’Anonimo Lombardo (Feltrinelli, 1959). Queste iniziali prove narrative misero subito in luce l’autore come una penna estrosa e innovativa, che trattava i suoi personaggi affamati d’amore con un distacco cinico e un po’ cerebrale, non privo di fredda cattiveria. Spiccava tra gli altri il racconto Giorgio contro Luciano, che affrontava il tema della vita sentimentale gay, all’epoca ancora generalmente tabù, con un approccio disinvolto e allusivo senza dubbio originale, ispirato allo stile camp americano, che avrebbe fatto di Arbasino, egli stesso omosessuale dichiarato, un punto di riferimento per quell’ambiente. Bisogna aggiungere peraltro che lo scrittore di Voghera rimase sempre estraneo a una visione militante del problema: avrebbe criticato i cortei, le ostentazioni più vistose e le battaglie per il riconoscimento giuridico delle coppie gay. Nel 1961 uscì sul «Mondo» il racconto La bella di Lodi, magistrale nel rendere il clima del boom economico, dal quale Arbasino trasse poi la sceneggiatura del film omonimo uscito nel 1963 per la regia di Mario Missiroli, con Stefania Sandrelli nel ruolo di Roberta, la disinibita protagonista. Nel 1972 l’autore avrebbe poi riproposto la stessa vicenda con lo stesso titolo in forma di romanzo, uno dei suoi libri di maggior successo.
Tra le caratteristiche peculiari di Arbasino spiccava l’abitudine di rielaborare le proprie opere, diverse delle quali furono via via arricchite e modificate in edizioni successive. Il caso più significativo è Fratelli d’Italia, romanzo fluviale, complesso e irriverente, una sorta di odissea picaresca nell’establishment culturale italiano, uscito nel 1963 da Feltrinelli e progressivamente ampliato fino a toccare quasi le 1.400 pagine nell’edizione Adelphi del 1993. Quell’opera segnò la consacrazione definitiva di Arbasino nella galassia della Neoavanguardia: il Gruppo 63, nato a Palermo nell’anno da cui prese il nome, lo vide in prima fila.
Si era tra l’altro affermato come l’erede di Carlo Emilio Gadda, di cui si considerava discepolo: i suoi racconti La narcisata e La controra, usciti nel 1964 da Feltrinelli, sono un evidente omaggio al maestro, cui molti più tardi avrebbe dedicato il volume L’ingegnere in blu (Adelphi, 2008). Dopo aver descritto con arguzia e sensibilità l’Italia del miracolo economico, Arbasino seppe fare altrettanto con la contestazione giovanile, messa in scena, come scrisse lui stesso, «in una decadenza romana archetipica, raccontata con gli strumenti delle avanguardie storiche», nel breve romanzo surreale Super-Eliogabalo (Feltrinelli, 1969), apertamente ispirato all’Eliogabalo del francese Antonin Artaud. Affiora in questa come in altre opere di Arbasino (si pensi alla corrosiva commedia musicale Amate sponde!, sfornata per il centenario dell’Unità nazionale nel 1961) un pessimismo di fondo circa «le pulsioni antropologiche profonde e costanti del vivere italiano»: la faciloneria, il sentimentalismo a buon mercato, la superficialità, il provincialismo, che lui esortava a curare, o almeno a lenire, con una salutare «gita a Chiasso», cioè con l’esperienza diretta dei Paesi più civili. Assai critico anche il suo atteggiamento verso la stampa e la tv, impegnate a abbassare il loro standard culturale al livello della proverbiale «casalinga di Voghera», altra espressione frutto della sua vulcanica immaginazione.
Collaboratore assiduo dei più importanti quotidiani, dal «Giorno» al «Corriere della Sera» (qui il primo articolo) fino al lungo sodalizio con «la Repubblica», dagli anni Settanta Arbasino si era sempre più caratterizzato come saggista e osservatore del costume, caustico censore della tradizione cattolica come del conformismo progressista, pronto anche a biasimare con parole molto severe (forse troppo) le lettere di Aldo Moro dal carcere delle Br nel libro In questo stato (Garzanti, 1978). «La nostra crisi attuale — scrisse — ci appare non tanto un fatto economico quanto anzitutto un disturbo mentale».
Era anche approdato in televisione, a Rai Due, dove aveva condotto nel 1977 il programma Match, e nel 1983 era stato eletto alla Camera da indipendente nelle liste del Partito repubblicano. Del 1980 è la prima edizione del suo più importante saggio d’impegno civile, Un Paese senza (Garzanti), raccolta di riflessioni e aforismi sui paradossi di un’epoca farsesca e nel contempo tragica, sommersa da un’alluvione d’inutili chiacchiere nella persistente incapacità della classe dirigente di affrontare i problemi reali.
Anche in seguito, dopo il progressivo esaurimento della sua stagione creativa più intensa e vivace, Arbasino era rimasto un protagonista. Viaggiatore infaticabile anche in tarda età, aveva continuato a raccontare il mondo, con titoli come Pensieri selvaggi a Buenos Aires (Adelphi, 2012), a rievocare eventi e personaggi, a divertire e disorientare il lettore con la sua mania per il dettaglio e le smisurate elencazioni grottesche. Per alcuni anni era tornato a scrivere sul «Corriere», raccogliendo impressioni e ricordi, sapientemente miscelati, in una rubrica dall’eloquente titolo «Vintage». Nel 2009 le sue opere erano state raccolte in due volumi nei Meridiani Mondadori: testimonianze essenziali per comprendere le trasformazioni profonde e le robuste persistenze che abbiamo sperimentato nel lungo passaggio tumultuoso dall’Italia rurale degli anni Cinquanta a quella postmoderna e stralunata di oggi.
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