di Lino Palanca
Canta che ti passa. L’avranno pensato chissà quante volte i nostri padri e nonni e tutti coloro che hanno condotto una vita fatta di lavoro duro e mal pagato. L’avranno pensato ma, c’è da esserne certi, senza crederci poi più di tanto. Nei canti popolari scorrono racconti ricchi di malinconia e pena, ma pure ironia, malizia, sorrisi e allusioni salaci. E vivono anche moti di ribellione al sopruso e alla prepotenza dei “signori”, come forma di rivendicazione dell’umana dignità.
Claude Roy, uno dei più grandi studiosi del folklore, sostiene che i canti popolari sono una sorta di enciclopedia universale delle “classi minori”; in essi, scrive, c’è tutto: … la semplicità, l’ingenuità e l’emozione, il gusto un po’ antico, la terra, le lacrime, la natura … Essi raccontano l’uomo, l’uomo fiero e militante, felice e martirizzato, oppresso e sarcastico, paziente e indomabile, fiducioso e scettico.
E lo aiutano, quest’uomo, a sostenere le inevitabili, aspre lotte per il proprio riscatto civile e sociale. Ben inteso, più che aiutarlo non possono perché, scrisse Paul Eluard ai minatori in sciopero nel nord della Francia: Camarades mineurs, je vous le dis ici: / Mon chant n’a pas de sens si vous n’avez raison – Compagni minatori, sia chiaro: / il mio canto non vale nulla se voi perdete la vostra battaglia.
O vile prostituta
O vile prostituta
O donna senza còre
Che mi giurasti amore
Con tanta falsità.
I bagi che m’hai dattu
Li tiengu pe’ recordu
Se se rabalta el monnu
Cume ‘ndarai a fenì …
Un canto politico di protesta travestito da lamento amoroso, sull’aria de La guardia rossa, canzone politica scritta nel 1919 da Raffaele Mario Offidani, personaggio senz’altro da riscoprire. Il tradimento della donna sarebbe in realtà quello di Mussolini e del fascismo nei confronti dei lavoratori.
Pacenza ‘ita mia
Pacenza ‘ita mia se pati pena,
sarà per quann’hî fattu ‘ita bona;
se ‘ita bona nu l’hî fatta mai,
pacenza ‘ita mia se patirai.
Sicuramente canticchiata o mormorata dai pescatori delle sciabiche durante il loro massacrante lavoro, dal contadino curvo sulla terra da dissodare, dalla donna prigioniera dell’ansia di far quadrare il pranzo con la cena. E poi da artigiani, commercianti, operai e da tutti coloro che hanno sudato il soldo giornaliero.
Nello jesino si canta: Pazienza vida mia / sci padi pena, / sconti per quanno hai fatto / vita bona.
Ogge è sabetu
Ogge è sabetu
el patro’ suspira:
un colpu quant è ccorta la semana!
Responne el garzó’
de la buttega:
ed’è ccorta
quant’el cazzu che tte frega!
Mi venne segnalata da Alessandro Mordini, scomparso pochi anni fa. Differenza di vedute tra il padrone e i suoi lavoranti. La versione portolotta è improntata a un realismo linguistico marcato. Giuseppe Tigri (Canti popolari toscani, Firenze, 1856) riporta la versione della sua terra, che è meno veemente: È fatto notte e il mio padron sospira – dice che è stata corta la giornata – e se l’è corta, famegli la gionta – e gite dire al sol che non tramonta – e se l’è corta la gionta s’ha da fare – s’ha da dire al sole di non tramontare.
Nel viterbese: È notte, è notte, lo sole è calato – e lo patrone nostro s’è dormito – e de mannacce a casa s’è scordato.
Segnalo anche, per il maceratese, Benedetto Salvucci (Il grano, Pollenza, 2000): Ecco ch’è notte e lu patró suspira – dice ch’è stata corta la jornata. – S’è stata corta che t’agghio da fare, – pija lu sole e nu’ lu fa calare. – S’è stata corta che t’agghio da dire, – pija lu sole e nu’ lu fa partire.
Il contenuto del lamento proletario è presente anche in alcuni così detti Canti a la boara di provenienza emiliano-romagnola.
Purtroppo per il padrone, del biblico Giousè si è perduto lo stampo.
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