
Copertina del libro “Le undici di notte e l’aria oscura..” di Lino Palanca
di Lino Palanca
In chiesa i nostri maggiori si trovavano sovente a dover usare il latino, in prosa e in versi cantati. Certo, lo facevano a modo loro. Non che volessero scherzarci su, è solo che si trattava di un pane piuttosto duro per gente che aveva già difficoltà con l’italiano. Ognuno dei canti nella lingua di Cesare subiva la stessa mutilazione, lo stesso scombussolamento lessicale. Il Tantum ergo sacramentum, veneremur cernui, per esempio, diventava Tantu mergu sagramentu, ‘eniremu cernui …; e la dissacrazione del latino andava avanti così ogni volta che ci si doveva scontrare con questa lingua straniera. E per di più anche morta.
Quando ero bambino passava nelle case a recitare il Dies irae un anziano, dall’aspetto un po’ dimesso. Le nostre donne lo accoglievano con grande riguardo; lui si metteva seduto e recitava la sua parte con tono monocorde. Alla fine riceveva una ricompensa in denaro, poche lire perché la gente non ne aveva a sufficienza nemmeno per le necessità prime. Non ho mai saputo il suo vero nome, ma lo chiamavano Lucertó, vai a capirne la ragione. Il testo qui di seguito non è in portorecanatese; lo mostra la frequente presenza di fenomeni fonetici tipici di aree dialettali comunque vicine. Tuttavia, qualche u finale, la forma del participio passato mesta ripetuto nell’ultima strofa, sono caratteristiche anche della parlata del Porto.
Diasilla, diasilla
Sempre seguli in balilla
Venerà campagna e villa.
Vegnerà morte e natura
Surgerà quela creatura
Dall’antiga sepoltura.
Unurà de’ tribunali
Dove è scritto el bene el male
Avanti al giudice seguente
Pene e colpe e Dio sarà presente.
Ce sarà pe’ nasce sempre
Ce sarà pe’ ‘na figura
De un’opera de San Giusto San Siguro
Ed è mentre maestà
Salvate quell’omo de sa buntà
Salvate quell’anima benedetta
Sulla fonte de pietà.
Iu prego nun son degno
Vo’ Signore fate fa’ degno
Cu’ li mari passa el regno.
Cu’ li mari interverranno
Cu’ li mari tanto affanno
Quannu che ‘st’anema benedetta
Risorgerà al giorno del giudiziu spaentosu
Bon Gesù èsse pietosu.
Diasilla lagremosa
Date la luce, la pace, el riposo
A quest’anima benedetta de Maria
Requiemeterna donisdomene
E luce eterna luce tei
Rechiescant’ in pace àmene.
Signore Gesù mia
Fa’ ch’ete cancellato tutti i peccati
E che l’éte mesta in mezzu a la grolia del paradiso
E se nun ce l’éte mesta
Fate che sia l’ultemu giorno de le sue pene.
L’eternu riposo dona loro Signore
Spenda ad essa la luce perpetua
Riposa in poace àmene.
(Da Lino Palanca, Le undici di notte e l’aria oscura, Recanati, Bieffe Grafiche 2013, pp. 40-41)
La sequenza in latino è dell’abruzzese Tommaso da Celano (1200 circa – 1260/1270), religioso francescano e poeta. Viene descritto il giorno del giudizio prendendo forse spunto dal libro dei profeti (Sofonia, I, 15-16): Giorno d’ira, quel giorno, / giorno d’angoscia e d’afflizione, / giorno di rovina e di sterminio … La versione popolare, l’ho già ricordato, stravolge l’originale latino. Il lettore cerchi il testo ”vero” (in rete lo troverà facilmente); io lo lascio con un paio di scampoli meravigliosi: il sempre seguli in babilla del verso 2 (solvet saeclum in favilla) e il cum vix iustus sit securus, che al verso 13 è diventato … de un’opera de San Giusto San Seguro.
In Abruzzo, terra d’origine dell’Autore del “Dies irae” si comincia così: Diasilla diasille / salv’e salve cum faville / salve lu rre che la subbille …. Anche laggiù non scherzano.
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