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Dialoghi in corso. La sinistra che si è fatta destra

Photo credit should read: Jonathan Brady/PA Wire

Blair – Photo credit should read: Jonathan Brady/PA Wire

di Paolo Flores d’Arcais

4 maggio 1979, Margaret Thatcher diventa primo ministro britannico. 20 gennaio 1981, Ronald Reagan viene insediato alla presidenza degli Stati Uniti. Il partito mondiale del privilegio ha vinto su entrambi i versanti dell’Atlantico. L’egemonia del neo-liberismo, però, verrà dopo. Egemonia è più di vittoria, è il radicarsi stabile, e come luogo comune, come orizzonte pensabile invalicabile, di una politica, la cui vittoria fino ad allora poteva essere rovesciata.

L’egemonia neo-liberale si realizza in ogni paese con sfalsature temporali e resistenze diverse, ma la sua data più significativa e riassuntiva è facilmente identificabile: il 21 luglio del 1994 il congresso del Labour elegge Tony Blair come suo leader, sulla piattaforma della “Terza via”, in realtà della sudditanza della sinistra al diktat neo-liberale. La signora Thatcher, esaminando retrospettivamente la sua carriera politica, avrà ragione di dire che il suo più grande successo è stato … Tony Blair.

Il ventennio di egemonia neo-liberale, che solo ora si incrina, non è perciò dovuto alla forza delle politiche liberali, alla capacità di governo delle destre. A realizzare tale egemonia sono state le sinistre, nel momento in cui hanno smesso di essere sinistra e si sono accucciate presso l’ideologia economica dominante, rendendola radicata, catafratta, in apparenza ineludibile. Solo con la rinuncia delle sinistre ad essere sinistra si è realizzato il mondo di T.I.N.A., There Is No Alternative. Le sinistre sono diventate semplicemente parte dell’establishment, articolazioni interne alla destra politica, meno becere, più equivoche, ancora legate al maquillage dei valori riformisti, come imbonimento della base e dell’elettorato, però, visto che nell’agire effettivo il loro orizzonte mentale e pratico era ormai quello di T.I.N.A.

Se si vuole capire cosa è avvenuto negli ultimi quarant’anni, e disporre degli strumenti critici almeno elementari e irrinunciabili per affrontare il presente e fronteggiare e magari invertire il dilagare elettorale delle destre becere in tutto l’Occidente, bisognerà perciò cominciare con una doverosa igiene linguistica e semantica, smettendo di chiamare “sinistra”, anche nella più edulcorata versione di “centro-sinistra”, tutto ciò che è stato niente altro che destra, sempre più nettamente e ormai antropologicamente. Chiamare le cose con il loro nome non è operazione secondaria, è anzi essenziale componente dell’azione, della praxis.

Una forza politica di governo ha diritto a definirsi di sinistra se, e solo se, con il suo agire riduce ogni giorno, quanto più drasticamente possibile, le diseguaglianze contro cui evidentemente si è scagliata in campagna elettorale, ottenendo i consensi al fine di combatterle. Questo è l’unico criterio. E semmai lo scarto tra il fare (o non fare) e il dire. Le promesse e la realizzazione. Con questo criterio risulta evidente che impallidisce la sinistra in Francia, e tra alti e bassi infine dilegua, già a partire dal secondo settennato di Mitterand. Che non esiste più in Germania da quando nella SPD prevale Schröder, e che in Italia comincia a venir meno quando la sacrosanta operazione Occhetto, di cambiar nome e cosa, anziché attingere fondamentalmente alle energie della società civile, per dar vita a un partito azionista di massa, come era nelle possibilità, declina a partito/federazione di correnti post-comuniste, con egemonia concorrenziale D’Alema/Napolitano, e infrangibile vocazione burocratica.

Il punto di non ritorno viene toccato quando per le elezioni comunali di Roma del 1993 Berlusconi appoggia la candidatura di Fini, segretario Msi fresco di celebrazioni fasciste della marcia su Roma (nel ’92 era il settantesimo), con grande spolvero di saluti romani e eja eja alalà. D’Alema comincia allora il rosario di giaculatorie secondo cui non si deve criminalizzare Berlusconi, anziché inchiodarlo al suo appoggio dell’ex, neo, post-fascista Fini per sottolinearne l’estraneità radicale alla democrazia repubblicana. Il resto segue, inciuci compresi, e l’esito è noto.

Il Pd nasce perciò già come partito d’establishment, articolazione “progressista e illuminata” (davvero?) della destra politica. Fino a che non lo si ammette resterà incomprensibile quanto avvenuto in Italia nell’ultimo quarto di secolo, e indecifrabile l’ondata grillina prima e salviniana (ovvero pre-fascista) poi. Ad una ricostruzione delle vicende politiche occidentali in cui si chiamino le cose con il loro nome, e dunque destra Blair e Clinton (cui si deve lo smantellamento delle misure rooseveltiane che tenevano con qualche guinzaglio la finanza: liberata grazie a Clinton da quei “lacci e lacciuoli”, si è scatenata come sappiamo), e in Italia la filiera di progressivo cupio dissolvi D’Alema>Veltroni>Bersani>Letta>Renzi, si obietta che in tal modo di sinistra non vi sarebbe più traccia, il che è impossibile. Niente affatto: la sinistra c’è eccome, non più rappresentata da oltre un ventennio, però. Non a caso questa rivista, già dalla sua nascita (1986), parlava di sinistra sommersa. Il berlusconismo prima, il salvinismo oggi, sono il risultato di una sinistra che non c’è, o meglio che non esiste sul piano delle organizzazioni politiche, delle offerte elettorali, della rappresentanza parlamentare, benché continui magmaticamente e carsicamente, ma in modo disperatamente e disperantemente disperso, la sua azione nei meandri della vita civile. Trovare il catalizzatore che le consenta di ritrovarsi anche politicamente è l’apriti sesamo imprescindibile, ma non pianificabile a tavolino, da cui dipenderà la ripresa della vita democratica in Italia.

Chiamare le cose con il loro nome ne costituisce l’antefatto altrettanto inderogabile. Non solo perché una politica democratica ha necessità di parlare secondo il principio “nomina sunt consequentia rereum”, anziché secondo manipolazione stile Grande Fratello (nel senso di Orwell, va da sé), ma perché solo facendo entrare nel lessico corrente che il Pd è destra (e i vari cespugli rifondaroli e simili non sono sinistra perché non sono), si potranno azzerare le residue ma tenaci (e mediaticamente ostinate, al limite del fake) illusioni, che un’alternativa al pre-fascismo di Salvini e dei suoi accucciati 5 Stelle, possa avere qualcosa a che fare con il Pd, comunque rimpannucciato.

1 commento a Dialoghi in corso. La sinistra che si è fatta destra

  • Giuseppe Farina

    Paolo Flores d’Arcais fa una analisi condivisibile riguardo all’appiattimento delle sinistre europee sulle posizioni liberiste della destra, che hanno dato mano libera alla finanza, alle sue speculazioni ed al mercato globale, che hanno destrutturato il mondo del lavoro, impoverendolo e privandolo dei diritti conquistati, nel nome della flessibilità e della produttività, promettendo lavoro e sviluppo. L’inganno è stato perpetrato per almeno 25 anni da parte delle “sinistre” europee, che sposavano il pensiero unico liberale. In Italia per la verità abbiamo avuto il craxismo, un blairismo ante litteram, si ricordi l’attacco alla Scala mobile e la Santa alleanza del C.A.F. perché si impedisse qualsiasi rivendicazione ed avanzata del mondo del lavoro. Ma la definizione netta di tale orientamento conservatore è stata la nascita del Pd, che sanciva la scomparsa di un grande partito della sinistra, che pure, dopo la caduta del muro di Berlino, con Occhetto aveva cambiato il nome da PCI in Partito democratico della Sinistra, sottolineando il democratico, ma di sinistra. Non bastava, bisognava eliminare il sostantivo-sostanza sinistra, per costituire semplicemente il partito per la gestione del potere, ma con il sostegno delle classi lavoratrici della sinistra e di ciò che rimaneva delle forze cristiano-sociali. C’è stato un progressivo abbandono del patrimonio della sinistra, delle sue politiche economiche e sociali, della sua stessa cultura, una volta schierata a favore dei lavoratori. Tutto questo non poteva che avere terribili conseguenze, col sopraggiungere della crisi economica, le classi popolari disarmate, private di una politica che li rappresentasse, hanno subito pesantemente licenziamenti, precarieta, emarginazione e povertà. La politica del partito che si definiva di sinistra o centro-sinistra ha fatto scelte, su suggerimento dell’ Ue della austerity, del tutto antipopolari. La sfiducia e la rabbia insorte hanno portato inevitabilmente ad una reazione, anche spasmodica, alla ricerca di una alternativa, qualsiasi alternativa, sia per provare il “nuovo” o “diverso” che si faceva avanti con la sua propaganda caustica “populista e sovranista”, sia per punire la “vecchia e corrotta” classe politica, sia per dare una presunta risposta drastica, netta al fenomeno migratorio con i facili slogan che venivano offerti, ” basta col buonismo; stop all’invasione; prima gli Italiani; aiutiamoli a casa loro” ecc. Oggi sono al governo i 5stelle, che dovevano rappresentare il nuovo e l’onesto, e i leghisti che rappresentano il vecchio, la secessione e la corruzione. Una alleanza perfetta per rappresentare la grande maggioranza del Paese, finché regge. La situazione è sotto gli occhi di chi vuole e può vedere. Non penso però, come accenna Flores d’Arcais che ” Il ventennio di egemonia neo-liberale…solo ora si incrina”. A me sembra che le politiche continuano ad essere quelle, le stesse, con qualche favore costoso al proprio elettorato, ma sempre liberiste, prone alle leggi della finanza e del mercato e pronte ad adattarsi, al di là della propaganda, alle volontà dell’Ue, in cui non siamo in grado di svolgere un ruolo costruttivo per far valer le nostre ragioni.

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